giovedì 30 giugno 2022

Meduse


Ieri alle 23 e 42 ho saputo che è morta la mia fidanzata. Solo un dettaglio che non ne avessi una – da quando prendo venti gocce di Citalopram, non si dimentichi dice lo psichiatra, e 0,5 milligrammi di Rivotril per dormire la sera, sono sparite le fidanzate. Ma di fronte alla morte la coniugazione dei tempi amorosi si fa più elastica e indulgente. Si tratta infatti della mia prima fidanzata, sono già più di dieci anni che è morta. Io però l'ho saputo alle 23 e 42 di ieri.

Stavo parlando sotto casa di un amico dopo essere stati in un'enoteca a bere vino resinato greco, la conversazione finisce sulla città di Arezzo. Ma sai che la mia prima fidanzata era di Arezzo, dico io, fammi vedere che fine ha fatto, sarà decrepita come noi... Afferro lo smartphone e inserisco il nome sulla barra di Google (un nome poco comune, da ballerina di flamenco) e scopro che è morta. A cinquant'anni. Di infarto. Se fosse ancora viva ne avrebbe ora sessantatré.

"Sarà decrepita", che battute sceme fa pronunciare il vino resinato greco. La prossima volta, concludiamo senza bisogno di parlare, basta un'occhiata di reciproco imbarazzo, si torna alla birra belga ambrata!

Si era fatto tardi e sono rincasato, neanche il tempo che l'auto passasse da benzina a gpl. Scoprire che la tua prima fidanzata è morta, una sensazione strana... Ci sono ventisette gradi e non riesco ad addormentarmi. Prendo un lungo sorso di acqua con lo sciroppo di sambuco, il Rivotril ci mette mezz’ora a fare effetto. La seconda e la terza, continuo a rimuginare, non è che possono pure morire ammazzate, chi se ne frega. Dispiacerebbe anche per loro. E però, la prima fidanzata, davvero una strana sensazione. Ma perché continuo a chiamarla fidanzata? In realtà, a essere precisi, si trattava di un'amante, lei era sposata ma avevamo finito coll'innamorarci. Ieri alle 23 e 42 ho saputo che è morto il mio primo amore, ecco.

Era più vecchia di me di sette anni, quando hai appena finito le scuole superiori sono entrambe cose stimolanti: avere un'amante e che sia più vecchia di te. Vado a letto con una donna matura dicevo agli amici del Bar Sole, una donna di ventisette anni; a quell'età Rimbaud aveva già smesso di scrivere da un pezzo, e il termine milf veniva limitato ai film porno. Quindi attendevo che ricambiassero le mie parole con uno sguardo di invidia, lo stesso sguardo riservato a chi stabilisce il record a Pengo, il videogioco in cui un pinguino deve fare tris con i cubetti di ghiaccio; stava proprio all'ingresso del bar per non rompere le scatole ai clienti veri, quelli che bevono soltanto e tanto e poi bevono ancora. Il resto lo facevano i suoi capelli lisci e neri, il taglio alla Valentina nelle tavole di Crepax, o la carnagione chiarissima, le gambe scolpite di chi ha praticato per molti anni la danza classica, per non dire del sedere a sbalzo delle donne africane quando portano sul capo una cesta colma di frutta... Dai, invidiatemi! E l'invidia arrivava puntuale, magari sotto forma di qualche battutaccia sulle donne mature.

L'ultima volta che l'ho vista era venuta a Sondrio a trovarmi poco prima di Natale. Non so che scuse raccontasse al marito, o se anche a lui avesse regalato un profumo che andava allora per la maggiore; note di incenso, cuoio e violetta, la scia poteva essere avvertita anche cinque minuti dopo che eri uscito dalla discoteca. Io avevo ricambiato con un foulard damascato e un’audiocassetta di Claudio Lolli. Conteneva una canzone, Donna di fiume, che chissà perché mi faceva pensare a lei: "Credo di avere provato l'amore, / almeno una volta, con una donna / travolta da correnti di fiume, / bianca e moribonda come una prima / comunione, libera e buia come / i miei occhi tra le dita..."

Più tardi avevamo cenato con mia madre e il suo amante, un coetaneo di lei molto bravo a raccontare barzellette, ne accompagnava lo sviluppo con il sorriso di Raul Gardini quando stava al timone del Moro di Venezia, un berrettino blu a coprire il diradare dei capelli brizzolati. Non che mia madre fosse così disinvolta da tradire mio padre davanti a me, erano già separati, ma quell'uomo invece no, anche lui da qualche parte aveva ancora una moglie. Poco male pensavo io: mio padre ha lasciato mia madre per l'amante, adesso anche lei ha un amante e io completo il quadro. Mi sembrava di stare dentro a un film di Truffaut, di quelli che i titolisti italiani traducevano ammiccando allo spettatore: "Non drammatizziamo... è solo questione di corna."

Ricordo che durante la cena ero andato in camera a cercare qualcosa, forse le immagini di una motoretta che mi sarebbe piaciuto acquistare, oppure un libro di biologia marina; in quel periodo ero in fissa con tutto ciò che riguarda il mare, le strane e bizzarre creature degli abissi, le più impressionanti sono le meduse giganti. Intanto mia madre stava in cucina a preparare il dessert. Il giorno dopo la mia fidanza, no, la mia amante e insomma ci siamo capiti, a colazione mi ha rivelato che l'uomo ci aveva provato con lei. Quando erano rimasti soli in soggiorno le ha infilato una mano tra le cosce; indossava sempre dei fuseaux neri che le stavano molto bene, un lupetto da esistenzialista dello stesso colore. E va be', ho pensato, si vede che a diventare grandi funziona così. Quindi mi sono concentrato su un frollino che faticavo a deglutire, forse non l'avevo intinto a sufficienza nel Nesquik.

Non ho mai raccontato a mia madre cosa fosse successo mentre inondava di panna il Montblanc. Dopo qualche mese comunque non ho più incrociato quel tizio per casa; peccato, perché alcune barzellette facevano piegare in due dalle risate. Ho avuto sue notizie solo tempo dopo, ne parlava un domenicale di provincia o, meglio, vi accennava la locandina. Non ho acquistato il giornale ma si trattava certamente di lui, me l'ha confermato il mio amico appassionato di vini resinati greci. La foto era confusa, ma, anche il mio amico, l'ha riconosciuto dal sorriso alla Raul Gardini. Era incorniciato da una bacheca di metallo esposta davanti all'edicola dove da piccolo attendevo l'uscita dell'ultimo albo di Zagor, lo spirito con la scure che difende gli indiani della foresta di Darkwood. Il titolo strillato e a caratteri enormi, del tipo "PROFESSIONISTA SONDRIESE MOLESTA DUE BAMBINE A CUI AVEVA OFFERTO UN PASSAGGIO", e per la prima volta ho pensato a mia madre come a una bambina. Una macchina scura accosta, cosa fai piccola tutta sola, vuoi che ti accompagni a casa? E mia madre annuisce con un movimento appena accennato delle trecce.

Oggi invece il bambino sono io. Vulnerabile, frignone, perfino un poco risentito, tradito. Non è forse un tradimento, il vuoto? Quello lasciato dalla scomparsa del primo amore ricorda una bicicletta, la bicicletta che ognuno ha dimenticato almeno una volta in garage – le gomme diventano flosce, un tappeto di polvere ricopre il sellino, si distende al tubo superiore e a quello trasversale, al piantone, più triste di tutto è guardare (e infatti non lo fai) al campanello un tempo lucido e squillante. Se però qualcuno te la frega, ti incazzi come una bestia! Ma che dico, è il contrario: è quando ti fregano la bicicletta che è come vedere il primo amore incamminarsi verso la morte: "Vado prima io, tu resta ancora un poco qui a bere schifezze con i tuoi amici."

Provo a scorrere un ideale menu di paragoni, per dare una forma definita alle sensazioni che mi attraversano. Ma, come faccio in pizzeria, non riesco a scegliere, indugio, mi blocca il dispiegarsi delle possibilità. Alla fine scelgo sempre la pizza capricciosa, di tutto un po'. Tra cui, in questo caso, perdere i genitori, diventare orfani, sempre e per sempre adulti, come le donne mature che sognavamo da ragazzi. Ma quando è finito, esattamente, quel sogno: alla 23 e 42 di ieri sera?

Probabilmente molto tempo prima, il giorno in cui intingevo dei frollini impermeabili al Nesquik, mentre una ragazza di ventisette anni mi raccontava di essere stata palpeggiata. Lei forse si aspettava che uscissi di casa, urlassi in faccia a Raul Gardini le stesse accuse con cui titolava la locandina, magari gli sferrassi anche un cazzotto sulla faccia dall'abbronzatura naturale e intensa, a scheggiare i denti bianchi che esibiva nel finale delle barzellette. Si aspettava che facessi l'uomo. Invece niente, spallucce. E ora è troppo tardi per la frase che non riusciva a pronunciare Arthur Fonzarelli: ho sbaglt... sbatg... sba... Insomma, scusami.

23.42, e l’orologio è ancora fermo lì. Però mi sembra di avvertire un ticchettio lontano, un esilissimo filo di sabbia che riprende a scorrere nel collo della clessidra, proviene dalla spiaggia di parole che avete appena letto. È tutto vero tranne una cosa che non rivelerò. E da quella un'altra piccola bugia, una nuova invenzione, fino a trasformare l'impasto in un castello che la prossima onda spazzerà via, e così da capo con un nuovo castello di sabbia. In fondo adesso sono grande, e tra grandi funziona così. Una barzelletta tira l'altra, un racconto, una canzone o un profumo. Castelli. Non fa troppa differenza l'architettura prescelta, basta non guardare mai nella direzione del mare. Dove abitano le immense soffici terribili meduse.

martedì 28 giugno 2022

"Entusiasmo", o sulla visita di Chiara Ferragni al Memoriale della Shoah


Chiara Ferragni, nei giorni scorsi e come suo diritto, azzarderei perfino merito, ha fatto visita al Memoriale della Shoah. Ciò che invece continuo a non comprendere è perché Liliana Segre l'abbia invitata, accolta, accompagnata, e perché ci fossero fotografi, perché il personale della virtuosa associazione fosse ugualmente presente: tutti eleganti e ricomposti nell'inquadratura come i bambini di una celebre canzone di Giorgio Gaber, che non sapendo se ridere o piangere battono le mani, fanno finta di essere sani.


Tra questi una mia amica di lunga data, che così commenta l'episodio su Facebook: "@chiaraferragni ha accettato l'invito di @segre.liliana ed ha visitato per la sua prima volta il Memoriale della Shoah, ne siamo stati entusiasti..."

Mi sono permesso di farle notare che il termine entusiasmo significa dio dentro di me (en theos), e che anche a cercare bene, immergendomi fin dentro alle cellule del mio corpo, fatico a scorgere un dio, anche piccolo piccolo, che so Manitù, da associare alla visita di Chiara Ferragni al Memoriale della Shoah. No, nessun dio a suggerirmi quale sia l'outfit più adatto all'estate 2022.

Ne è nato un breve scambio di reciproca e spigolosa incomprensione, ma che forse possiede degli spunti di interesse generale, addirittura civile, rilanciare (più che a risolvere) le ambiguità del termine in questione, di cui alle scuole medie d'antan era presente una svaccata ora di insegnamento, in cui ho imparato a dormire con gli occhi aperti. Provo a sintetizzare i corni del dilemma:

1) fosse pure Belzebù, tutto fa brodo per indirizzare l'attenzione dei distratti sulla memoria della Shoah, secondo le dinamiche consolidate dell'emulazione (posizione semplificata, da me, della mia amica);

2) la soggettività dell'osservatore, non solo nella fisica quantistica ma nelle cose di tutti i giorni, contribuisce a determinare la natura dell'oggetto osservato. Così non è lo stesso se viene replicata la pupilla di Chiara Ferragni o, che so, quella di Pasolini (mia posizione).

Continuo a questo punto a titolo personale, già che lo scambio su Facebook si è bruscamente interrotto. Qual è il carattere peculiare che riconosciamo allo sguardo di Chiara Ferragni? A parte una meravigliosa azzurrità, io direi la tautologia: Ferragni, come il marito, si guarda guardare, e nel farlo noi guardiamo loro in una circolarità infinita che per analogia possiamo accostare ai video in slow motion del crollo delle Twin Towers; solo che qui a implodere è la semantica: non c'è niente da capire, tutto esiste solo come superficie sensibile in cui la quantità (dei follower) ha preso il posto del pregiudizio novecentesco della qualità, da rinvenire quale polpa sotto la scorza del frutto.

Non fraintendetemi, non voglio biasimarla o fare dell'ironia. In fondo quando diciamo che i Ferragnez sono degli influencer li prendiamo come giusto sul serio: influenzare significa contribuire alla determinazione del proprio tempo, in senso nemmeno troppo lato fare della filosofia; Socrate e Sartre erano degli influencer. Poco importa se lui, Fedez, sentendo pronunciare il nome di Giorgio Strehler, risponda "e chi cazzo è?", mentre se i nomi fossero stati quelli Chanel, Cristian e Isabel, la coppia più celebre d'Italia avrebbe esclamato all'unisono: "Ma sono i figli di Ilary e Francesco (Totti), salutameli se li vedi?" Spuma dell'onda in luogo dei coralli che scorge il palombaro. Immagine che si fa cosa. La filosofia pop-moderna è servita.

Ma se questo è il modello di riferimento – del tutto legittimo, sia chiaro –, perché applicarlo alla vicenda chiave del Novecento, vicenda abissale che ancora ci inabissa e confonde, perché proiettare sulla Shoah l'orizzontalità dello sguardo di Chiara Ferragni, sperando così di fare da apripista a una più diffusa visione, va da sé ornamentale come la mediazione da cui è scaturita?

Mi è allora venuto in mente il bravo scrittore ceco Jachym Topol, che in L'officina del diavolo (Zandonai, 2012) metteva in scena un immaginario parco giochi dei crimini del secolo scorso, lo sterminio nazi-stalinista ricostruito come fosse Disneyland. Nell'arruolare personaggi eccentrici ma molto popolari quali testimonial, ossia testimone che letteralmente significa colui o colei che, attraverso il proprio corpo, garantisce un'esperienza tramandata, la certifica biograficamente, rischiamo di modificare l'esperienza testimoniata, convertendola in fiction. Magari anziché ridere mettiamo l'emoticon con la lacrimuccia, ma la disposizione adulterata non cambia.

Ovviamente non penso che queste siano state le intenzioni di Liliana Segre, né quelle di Chiara Ferragni nell'accogliere con uguale gentilezza l'invito. Ma avrei gradito più discrezione, molto meglio una visita privata senza assurgere alla condizione inflazionata di evento, per altro dubbia; se un evento è ciò che infrange, inatteso, l'ordine dei giorni, la sua moltiplicazione ne vanifica le possibilità.

Solo a questo modo possiamo sperare di ritrovare un entusiasmo autentico, un dio dentro di noi o una stellina danzante, direbbe Nietzsche. Diversamente, le stelle finiscono col ridursi a quelle esposte nelle vetrine dei negozi nel periodo di Natale, dove tutto si compra e tutto si vende.

domenica 26 giugno 2022

E levate ‘a cammesella, o sul denudamento totale


Un mio contatto Facebook pubblica una propria fotografia, immagino in condizioni ampiamente esposte, forse in costume da bagno. Lo immagino solamente perché quel mio contatto femminile, dopo poche ore, rimuove il tutto e pubblica un altro post, in cui spiega le ragioni del ripensamento: "Avevo paura, temevo i commenti. La possibilità di essere giudicata."

Ma si avverte nelle sue parole un rimpianto: da un lato desidera mostrarsi, rivelare ciò che sente non solo in parole ma attraverso l’immagine che le fa da specchio – il corpo in cui si identifica, la carne che fa tutt’uno con le emozioni che la innervano –, secondo quel sentire ipermoderno che porta Fedez a condividere gli audio delle conversazioni con uno psicologo; dall'altro lato teme le conseguenze del suo desiderio.

Un post, e un'emozione, che trovo condivisibili, addirittura emblematici. Mi sembra infatti che tutti noi – chi più chi meno – viviamo lo stesso ambivalente stato d'animo, in cui c'è una sorta di calamita gigante ad attrarci verso una condizione che potremmo chiamare di post intimità, nella quale i confini tra io e mondo vanno progressivamente sfumando. Ogni residua porzione di singolarità va dunque sottratta alla dispensa del pudore ed esposta tra le pietanze del banchetto. Poi però la luce abbaglia, abbiamo nostalgia della penombra e cerchiamo il conforto degli occhiali da sole.

Un vero e proprio nuovo evo psichico, dove l'erosione della dimensione privata rende possibile il palesarsi di un'umanità finalmente libera da un nome e un cognome iscritti sul documento anagrafico, a definirci quali individui. Essere un individuo, ma cosa significa di preciso?

Provando a semplificare decenni di psicanalisi: percepire un limite astratto, un confine cognitivo che ci mette in relazione ma anche separa dagli altri, secondo un itinerario storico e culturale tutto sommato recente; non sono nemmeno 2500 anni, con le premesse materiali che possono essere rintracciate nell'invenzione dell'agricoltura e nella conseguente urbanizzazione, e quelle culturali nella filosofia greca (Socrate, in particolare) e nel cristianesimo (Agostino).

Il sentimento dell’identità, scaturito da questo nucleo di coscienza separata, però comincia a traballare: desideriamo ancora essere riconosciuti e amati nella nostra differenza biografica, ma il canto collettivo delle sirene si fa insinuante e imperioso. Forse perché presagiamo una sviluppo radicalmente nuovo, fiammeggiante di futuro come le automobili in corsa ritratte da Umberto Boccioni; ma allo stesso tempo tutto ciò odora di antico, altro che Boccioni: piuttosto un uro tracciato nelle grotte di Lascaux, a riecheggiare la disposizione animistica e sciamanica delle antiche comunità, dove il singolo era impastato dagli umori e dalle “colpe” del gruppo, perfino quelle degli antenati che aleggiavano come componenti a tutti gli effetti.

Teilhard de Chardin chiamava il nuovo tempo che si dischiude epoca dello Spirito, in cui al Padre (Dio) e al Figlio (Cristo) succede l'affermazione dello Spirito Santo, quale legante di un sentire che solo per approssimazione possiamo definire umano, essendo ormai del tutto indistinto e integrato. Altre menti intuitive e profetiche hanno trovato definizioni più o meno eccentriche, tra cui Vladimir Ivanovič Vernadskij, mineralogista e geochimico russo, che dopo la geosfera e la biosfera quali premesse funzionali alla vita, intravede l'affermazione di una sfera intangibile e rarefatta identificata col termine greco nous, in cui i popoli finiranno col convergere dissipando ogni confine individuale. Il suo nome: noosfera.

La formula che io continuo a preferire appartiene però allo scrittore David Foster Wallace, il quale chiamava messa a nudo totale l'esperienza che stiamo vivendo, complici i nuovi media. In essi è diffuso il desiderio di scoprirsi, denudarsi a tutti i livelli: si mostrano i pensieri, i gattini, i figli e i cantanti che fanno breccia nel nostro cuore, addirittura le copertine dei libri appena letti. Ma si mostrano anche le spalle, le gambe, le donne più ardite lasciano intravedere i seni, nel tentativo mai davvero compiuto di raggiungere quella nudità che è letteralmente o-scena, secondo la pseudo etimologia inaugurata da Carmelo Bene: la scena pubblica è un codice, e ciò che lo confuta viene proscritto dalla polis come era per il sacro nell’antichità.

Su internet il denudamento totale finisce così col rivelarsi un’utopia, non possiamo realizzarlo perché il galateo social vede nell’esibizione dell’intimità residua (i capezzoli, la fica, il cazzo) l'infrazione a un tabù fondato sul mantenimento di un ronzio uniforme e senza spigoli – e se una porzione di corpo è intima, per logica non può essere resa pubblica. Ma è qui che i social mostrano la loro ingenuità. Nei goffi e parziali tentativi di denudamento da compiuti, solo apparentemente cerchiamo di affermare la nostra identità – il mio corpo sono io, non sei tu – ma a ben vedere è un atto di resa.

Ma torniamo all’esempio da cui siamo partiti. Il mio contatto che ha prima pubblicato e poi rimosso le sue foto, è come se ci sussurrasse all’orecchio: “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi.” Dove il sacrificio è con tutta evidenza quello a essere qualcosa, qualcosa che per sua natura non è tutto, qualcosa dunque di distinto, individualizzato, e non invece il luogo di convergenza e identificazione di uno sguardo collettivo. Ed è ancora il pronome noi a prevalere sull’io, nel denudamento totale che ci porta a canticchiare una vecchia canzone napoletana: e levate ‘a cammesella… ‘A cammesella gnernò, gnernò! Ma chi prima chi dopo, ‘a cammesella ce la dovremo levare tutti!

Ps – In foto e per coerenza al testo, sono io. Ma in una fotografia scattata quando avevo ventitré anni. Altre e più recenti foto senza cammesella, non ne ho.

lunedì 20 giugno 2022

Figli

 


Ogni tanto ci penso, ai figli che non ho avuto. In fondo ne basterebbe uno. Maschio, ovviamente. E superdotato. Potrei così spedire le foto di mio figlio alle sconosciute su Messanger. Non a figura intera, devo specificare? Nemmeno in piano americano o mezzobusto. I contorni dell'immagine si stringono, collassano al centro, incorniciano il dettaglio anatomico di cui papà va tanto fiero. Diventerei a questo modo un testimonial del mio tempo, Chiara Ferragni e suo marito mi farebbero un baffo. Di più: un emblema, ma di qualcosa che mi sfugge... O forse non lo voglio comprendere, faccio orecchie da mercante, recalcitro come un mulo alle pendici del Monte San Michele. Molto prima dei fanti, i muli, nella Prima guerra mondiale, avevano intuito con sgomento ciò a cui andavano incontro. Se avessi un figlio, sì, vorrei che avesse il cazzo di un mulo. E il dono della profezia di quell'umile animale.

domenica 19 giugno 2022

Primo non tradirli mai, han fede in te


Della becera ironia – dicasi in linguaggio aggiornato: body shaming – sull’attuale aspetto fisico di Vanessa Incontrada, a me colpisce soprattutto una cosa: è tutto vero, e cioè Vanessa Incontrada è diventata grassa, anzi molto grassa, una cicciona, e farlo notare appare sconveniente, indelicato. Di più: l'infrazione di un tabù.

Ciò che io trovo offensivo, letteralmente: procura offesa, ferisce, non è dunque l’affermazione della nudità del re – in fondo che male c’è a essere grassi, e Incontrada è sempre molto affascinante – quanto piuttosto il credito che viene accordato al tabù. Potremmo vederlo come un'ipoteca (ovviamente inespressa, se no che tabù sarebbe) di cui lo spettatore si sente depositario, attraverso la quale i personaggi pubblici vengono inchiodati alla croce del loro primo manifestarsi. Ed è un momento, un attimo, un lampo, quello in cui sono stati accolti nell'Olimpo dei fortunati pochi, gli happy few che devono ricambiare con un'indefinita replica dell'immagine proposta: la bella, il simpatico, l'oca giuliva, l'intellettuale incazzoso ecc. I ruoli in commedia sempre quelli sono.

L’abitudine, o, forse meglio, la pigrizia, istituisce così una sorta di legge non scritta: devi continuare a essere come mi aspetto che tu sia. Uno stato d’animo restituito al meglio dalle parole di una canzone di Gianni Morandi, a distillare una sorta di decalogo dello star system: “Uno non tradirli mai, han fede in te. Due non li deludere, credono in te. Tre non farli piangere, vivono in te…” Ma questo non è un mondo d'amore, come titola la canzone, e piuttosto un mondo di conformismo, perfino di ricatto morale, dove il do ut des è ovviamente pagato attraverso la moneta del consenso.

Se infatti sei assurta alla fama in quanto bruttina arguta, quella che Totò chiamava racchia (“no, non è brutta… è racchia”, una sua celebre battuta quando il politically correct era ancora di là da venire), se insomma sei la Littizzetto o la signorina Silvani, possiamo tranquillamente ridere del tuo aspetto fisico. Nessuno scandalo, nessun body shaming. Ma se invece sei diventata celebre per la tua bellezza – oltre che, in questo caso, per simpatia e bravura – devi rimanere bella in eterno, non puoi ingrassare. E se lo fai comunque non si può dire, silenzio, mosca, altrimenti diventi un hater. Al limite possiamo chiamare Vanessa Incontrada, eufemisticamente, diversamente magra, come per i tumori che diventano una brutta malattia.

La mia natura da bastian contrario mi spinge così a voler infrangere il tabù: no, non per accodarmi allo starnazzare sull’espansione delle forme di chicchessia, ma per dire che la signorina Silvani e Luciana Littizzetto, a ben vedere, non sono poi tanto brutte. Un’eresia nominale uguale e contraria alla prima, già che un cesso deve rimanere un cesso, e una strafiga calarsi sempre dentro lo scafandro di un tailleur taglia 38. Quindi sprofondare in un abisso finzionale di cui il nostro sguardo fa da periscopio e gendarme.

giovedì 16 giugno 2022

Personal shopper, o su come diventare ombre nell'ombra

 


Curiosando sui profili femminili di Facebook Dating – la meravigliosa funzione che promette, senza mantenere, una cornucopia di relazioni erotiche e sentimentali attraverso Facebook – mi sono sorpreso nello scoprire una gran quantità di buyer, personal shopper, consulenti di immagine e tatuatrici. Questo almeno ciò che le iscritte dichiarano alla voce professione.

Ci ho pensato un po', ma, anche risalendo molto indietro nel tempo, non credo di avere mai conosciuto una tatuatrice, oppure una consulente di immagine, una buyer, una personal shopper (tra le ultime due attività non so nemmeno bene la differenza).

Ci sono anche svariate educatrici cinofile, naturopate, logopediste, insegnanti di yoga, medium, manager, criminologhe, editrici, scrittrici, poetesse ecc. E devo dire che qualche donna che si occupa di queste cose l'ho incontrata, in particolare ho una cara amica che insegna yoga, l'ex fidanzata del mio amico Ivan faceva la logopedista, ma sono poche; anche e come diceva Moravia i veri poeti, "per ogni secolo ne nascono tre o quattro".

Se non proprio alle sole dita di una mano, mi affido così ai piedi per la conta, ma poi mi fermo lì. Mentre non ho incrociato su Facebook Dating nessuna disoccupata – nemmeno una, magari con una laurea in Lettere o Filosofia – quando invece abbondano tra le persone che frequento. Zero anche donne delle pulizie, vigilesse, cassiere all'Esselunga; le maestre elementari assumono nomi esotici, tipo agenti trasformazionali in ambito psico-pedagogico.

Mi è allora venuto un sospetto: è vero che il web riflette il mondo esterno, ma in proporzione alterata e secondo lo stesso rapporto che esiste tra caricatura e ritratto – un naso normale diventa un'enorme canappia, il testone al posto della testa, mentre le gambe si scorciano fino quasi a scomparire.

Quando nel passato mi è capitato di bazzicare il web – ora lo faccio molto meno –, ho finito col confidare in questa rappresentazione, sostituendo la caricatura al ritratto, fino a dimenticare che entrambi rimandano a qualcosa i cui contorni vanno progressivamente sfumando. Massì, chiamiamola pure realtà.

È come nel Mito della caverna di cui parla Platone nel settimo libro de La Repubblica. I prigionieri, incatenati in una grotta, osservano le ombre proiettate sulla parete che gli sta di fronte; sono generate dal fuoco che arde alle loro spalle in un braciere, davanti scorrono delle statuette. Tutte cose che non possono vedere, neppure gli uomini che trasportano le statuette, i prigionieri fanno esperienza solo delle ombre, che perciò confondono con la realtà.

Non che le ombre siano del tutto irreali, mantengono una qualche degradata somiglianza con le statuette che, a loro volta, sono la copia di un piano più originale; tendono cioè all'origine attraverso un progressivo gioco di matrioske, approssimazioni più o meno accurate. Platone chiama l'ultimo e definitivo livello eidos, forma, a noi meglio noto come mondo delle idee (platoniche, appunto).

A differenza del grande filosofo, io non penso però che si debba abbandonare il web per ritrovare la vita vera; una nozione che mi appare sempre più destituita di senso, o perlomeno non saprei dove cercarla. Restiamo pure in questo sottomondo – in fondo è confortevole, se postiamo la foto di un gattino guadagniamo mazzi di like – composto da consulenti di immagine e tatuatrici, personal shopper e buyer. E perché no, leggiamole le poesie di cui ci fanno dono le nostre amiche poetesse, non costano nulla, non costa nulla essere una caricatura e si riduce l'attrito.

Per goderci il web senza nostalgie residue dobbiamo però fare ancora un piccolo passo, che ai prigionieri di Platone è mancato: liberarci dalle catene e poi slanciarci verso le ombre, non verso l'uscita della caverna, confonderci con il loro appannato baluginare, diventando della materia di cui sono fatti i sogni. Ombre, sì. O meglio ancora: ombre nell'ombra, come titolava un bel romanzo di Paco Ignacio Pablo II.

E quando, con orgoglio, potremo anche noi affermare di essere un personal shopper, avremo colto l'unica opportunità che questo tempo dischiude. La mimesi, che non di rado trascolora in fiction. Altra e più solida verità non si offre, neppure nel mondo esterno fatto da disoccupati, donne di servizio, cassiere. Non corrisponde infatti all'esperienza che siamo quel che facciamo, non più almeno, ma siamo quel che gli altri ci consentono di essere, e la dogana dei social si alza a ogni bislacca figurazione. Basta possedere una narrazione elementare ed emotiva, in cui il dire non deve necessariamente allinearsi alla sostanza della cosa detta. 

Con buona pace delle care vecchie maestre elementari, che, prima di diventare agenti trasformazionali in ambito psico-pedagogico, indicavano l'abbecedario alla parete e poi pronunciavano la lettera effe. E tutti noi, bambini degli anni settanta, gridavamo in coro: "Fiore!"

lunedì 13 giugno 2022

Fedez c’est nous, o sul tramonto del pronome io


Fedez pubblica su Instagram gli audio delle conversazioni con il suo psicologo, avvenute nei giorni bui della diagnosi di un tumore al pancreas. La notizia ha sorpreso molti, c’è stata ironia, sarcasmo, in altri casi partecipazione empatica, sostegno. Insomma, se ne sta parlando molto.

Confesso di essere sorpreso più da questo brusio secondario che dal fatto in sé. Fedez, assieme alla famiglia che gli fa da specchio, ci ha infatti abituati da tempo a un totale rimescolamento delle categorie di dentro e fuori, pubblico e privato, intimo e manifesto; da cui la perdita di senso anche di termini quali pudore, discrezione.

Una scelta, non so quando consapevole e voluta, che produce, a cascata, l’annichilimento di altri costrutti linguistici, tra cui quello condensato in una delle parole più piccine e forse obsolete: io.

L’identità personale, per costituirsi, ha necessità di una narrazione autobiografica, che ha il suo terreno fertile proprio nella discrezione; etimologicamente, quel discernimento nato dalla separazione (tra una parola e l’altra, ma anche tra sensibilità diverse, donne, uomini) che in Fedez è venuta meno, perfino quando compie la più discreta delle attività: la ricerca del fondamento individuale grazie all’aiuto di uno psicologo

Ma se la fondazione psichica di Fedez – è una domanda – non avvenisse malgrado l'ostensione pubblica e piuttosto grazie ad essa, in un’im-mediata omogeneità al tutto?

La persona, sempre più assimilata al personaggio, avrebbe così realizzato la sua vocazione a essere emblema, e non solo nel mondo social-pop-glamour che gli fa da sfondo. Un emblema e un’anticipazione del destino evolutivo a cui tutti siamo chiamati, attraverso una progressiva erosione della differenza esistenziale – il pronome io, appunto – a fronte di un noi indistinto, liquido come vuole una fortunata formula della sociologia.

Detto altrimenti, le sue sedute psicologiche erano già da principio una terapia di gruppo, che come è giusto che sia ora condivide con quell'illimitata prateria di follower che ne costituisce la non identità; dove il dolore del singolo fa tutt'uno con la ferita del mondo, in una sensibilità a un tempo antica e ipermoderna, quasi sciamanica.

Ma andrebbe a questo punto attualizzata la celebre battuta attribuita a Flaubert, il quale, parlando della protagonista del suo più celebre romanzo, così ci si immagina concludesse: “Madame Bovary c’est moi”. No, Fedez n’est pas moi: Fedez c’est nous.

domenica 5 giugno 2022

Dottore... No, Professore.


"Dottor Cassese..." "No, Professore." Così Sabino Cassese corregge Lucia Annunziata, che nel corso di un'intervista si rivolgeva a lui con il solo titolo di studio, evidentemente insufficiente. E difatti, dopo essersi scusata, l'Annuziata aggiunge con velata ironia: "Dottori ce n'è tanti, professori pochi."

Uno scambio di battute che mi sembra il perfetto correlativo dello stato dell'arte politica: un tempo la Sinistra (a cui Cassese è associabile solo per via indiretta) era il luogo geometrico in cui in tanti si riconoscevano; dottori ma anche infermieri, maestri elementari, piastrellisti, parrucchieri, geometri ed operai. Mentre oggi è divenuta il luogo dei pochi, in genere con ottimi studi, a marcare un confine tra loro e il mondo, da istruire senza mescolarsi ad esso.

Ha fatto dunque bene Sabino Cassese a rimarcarlo: Professore, non Dottore, secondo una distinzione che riprende e attualizza quella tra uomini e caporali, così come formulata da Totò.

Ma bene fanno anche tutti quelli come me, che, pur sentendosi di Sinistra, hanno smesso da anni di votare per i partiti della Sinistra parlamentare, di leggere quei giornali ipotecati dalle reprimende dei professori. E non perché sia andata perduta la voglia di istruirsi, e piuttosto quella di alzarsi sull'attenti all'ingresso dell'insegnante, di mangiare senza poggiare i gomiti sul tavolo

mercoledì 1 giugno 2022

Por el amor de una mujer, o su amore, canzoni e conoscenza

Por el amor de una mujer, con queste parole sussurrate con voce tremula inizia una celebre canzone di Julio Iglesias, che prosegue con una sfilza di luoghi comuni sul più musicato tra i sentimenti; l’amore, appunto.

Una canzone che a me piace molto, forse proprio perché non cerca l’originale, l’inaudito, ma si crogiola dentro l’ovvio, che corrisponde a un sostanziale fraintendimento dell’amato, risparmiando al pensiero lo sforzo di un esercizio interpretativo. Anche perché l’amore difficilmente sopravvive a un’analisi attenta – prima regola per uno psicanalista: mai innamorarsi dei pazienti! – ed è proprio nel fraintendimento che trova il suo humus propizio, e naufragar mi è dolce nella melassa.

Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano a questo modo…?

Il termine fraintendimento, nel suo significato letterale, implica la presenza di qualcosa, un fra da collocare tra colui che intende e ciò che è inteso. Non ci è dato sapere da cosa sia costituito tale filtro sviante, le possibili interferenze sono numerose e variabili. Le possiamo però fare convergere dentro la categoria sommaria degli altri: quanto più tra me e ciò che osservo lo spazio è sgombro dal giudizio degli altri (pre-giudizio), quanto meno lo fraintenderò.

La domanda, ancora più radicale, a questo punto diventa: davvero è concepibile una relazione conoscitiva pura, non incrostata da alcuna interferenza circostante, nessun intralcio al vettore che collega la pupilla di Alvaro Vitali al sedere di Nadia Cassini che fa la doccia, e da lui osservato dal buco della serratura?

Nella filosofia fenomenologica tale atteggiamento viene chiamato epochè, sospensione del giudizio, riprendendo una postura di imperturbabilità intellettuale già raccomandata dagli scettici. In altre parole, se vogliamo comprendere l’altro dobbiamo fare piazza pulita degli altri.

Eppure, è proprio ciò che non è io, ciò che è altro da me – i miei genitori, amici, accadimenti fortuiti, libri letti, programmi televisivi e soprattutto il linguaggio che parlo, e nel farlo sono a mia volta parlato dalle sue strutture ed etimologie –, a determinarmi nel profondo, al punto che Lacan lo chiama Grande Altro; formula icastica con cui allude a uno spazio relazionale astratto, in insiemistica potremmo chiamarlo insieme maggiore.

Proviamo a vederla a questo modo. Senza l’insieme maggiore dell’esistenza, intarsiata dai suoi segni umani oltre che delle infinite esistenze particolari, a precedere e affiancare ciascuno, Charlie Brown non potrebbe neppure accostarsi alla ragazzina dai capelli rossi, nella velleitaria speranza che lei ricambi lo sguardo. E ciò perché sia Charlie Brown sia la ragazzina dai capelli rossi sono interamente immersi in quel brusio di fondo. O cambiando di parallelismo sensoriale, il Grande Altro è la cornice che consente il ritratto.

Ed è qui che possiamo ritornare più conciliati alla canzone di Julio Iglesias, e a i suoi stereotipi e fraintendimenti amorosi. Perché il canto rivolto all’oggetto del desiderio è slancio non solo verso una mujer, ma anche verso un hombre, un piastrellista, una giraffa, qualsiasi chi e cosa. I fraintendimenti non ne rappresentano infatti l’ostacolo, ma sono la precondizione a caricare l’interferenza al massimo grado, come la molla prima di scagliare la biglia dentro al flipper. Solo a quel punto può cominciare il gioco, accendendo le infinite lucine che chiamiamo vita.

Tocca così arrendersi al fatto che senza una coniugazione multipla, in cui il soggetto corrisponde, ancora indifferenziato, al pronome noi, non esisterebbero neppure un io e un tu che cercano di entrare in relazione. Per dirla con la parole di un’altra canzone leggera leggera: “gli altri siamo noi.”

E arriviamo alla storiella umoristica per cui ogni rapporto sessuale sarebbe un’orgia, in cui oltre agli amanti sono sempre presenti anche i rispettivi genitori, scoprendo che è vera per difetto; sono presenti anche i nonni, gli zii, i cugini, i vicini di banco delle elementari e, ahimè, i precedenti fidanzati. Quando ci lamentiamo perché la nostra compagna continua a parlarci del suo ex – e non c’è sensazione peggiore, specie quando lo fa in termini elogiativi – potremmo allora provare ad attenuare il fastidio pensando che ci stia parlando di lei. Quella lei che è diventata ciò che è, e amiamo, anche grazie a lui. Il maledetto!

Se però estendiamo il modello della canzone d’amore, con le sue semplificazioni zuccherose, le sue sciocchezze in rima baciata con cuore (la rima più difficile al mondo, suggeriva Umberto Saba), ma anche un genuino slancio al superamento della condizione attuale, con un po’ di disinvoltura potremmo approdare all’ipotesi che rappresenti il modello universale alla conoscenza.

C'è stato insegnato che la filosofia si distingue dalla sapienza, l'antica sophia greca, perché a differenza di quest’ultima manca del suo oggetto, a cui protende con tensione amorosa. Non basta ancora. È la canzone d'amore, e non l'amore, il denominatore filosofico comune. La canzone d'amore in un certo senso inventa l'amore, lo rende necessario con un gioco di prestigio della fantasia, poco importa se travestendolo con arrangiamenti sinfonici o incidendolo sulle pareti di una grotta, tra un uro stilizzato e un mammut.

Lo ricaviamo dal fatto che non esiste conoscenza senza l’ipoteca di un contesto che è ben lungi dall’essere oggettivo, e piuttosto narrativo: la rappresentazione del mondo a cui siamo abituati, così come le canzoni d’amore, la poesia, le narrazioni mitologiche e le fiabe popolari, ci abituano e preparano all’incontro con tutto ciò che è ignoto, in una sorta di pre-sciistica in attesa che nevichi.

Certo, le rappresentazioni dell'amore non coincidono con l’amore vissuto, e ne sono piuttosto una versione semplificata e corretta, così come il telegiornale di Emilio Fede non corrispondeva in modo neutrale alle notizie. Ma invece di ricercare un’impossibile imparzialità, ho l’impressione che convenga – non per essere più veri, e piuttosto autentici – approfondire le coordinate di quello spazio culturale e multivocale che ci predetermina, in un infinito gioco di specchi che interpreta il gesto dell’interpretazione, situandola nel tempo e nello spazio biografico in cui le generazioni si susseguono.

Scopriremmo, in tal modo, che la nostra rappresentazione dell'amore nasce nelle corti provenzali intorno al XI secolo, in cui a essere cantate in versi erano donne neppure conosciute, donne sposate con qualcun altro, che venivano idealizzate attraverso parole e immagini che non avrebbero potuto essere più fasulle, e proprio per ciò sublimi e cariche di forza persuasiva. A quella menzogna hanno infatti creduto, e continuiamo a crederci tutt'ora ogni volta che accendiamo la radio, ascoltiamo una canzone d'amore. Lo spiega molto bene Denis de Rougement nel suo testo più famoso, L'amour et l'Occident.

Ma questa disponibilità a riconoscerci alla maniera del tronco di una grande quercia, in cui ogni anno che trascorre, colpo d'ascia che riceve, traccia un cerchio concentrico al suo interno (nei tempi buoni il tratto è fermo e deciso, mentre si fa incerto in seguito ai traumi che anche gli alberi subiscono) si pone agli antipodi dell’epochè fenomenologica, assumendo come necessarie alla comprensione anche le scorie da cui siamo costituiti, le pietanze precotte, frasi fatte, trottolini amorosi e du-du da-da-da.

Tutto ciò va guardato dritto negli occhi, per pronunciare infine la più imbarazzante delle ammissioni: ecco, quello sono io, e allo stesso tempo non lo sono. Perché come concludeva Milo De Angelis in una bellissima poesia: “se ti togliamo ciò che non è tuo, non ti rimane niente.”