lunedì 25 maggio 2020

A ciascuno il suo


Cecchi Paone, ospite ieri sera nel programma di Giletti, con la consueta aria pensierosa che ricorda l’intelligenza malamente simulata da Fabio Testi nei primi piani cinematografici, sosteneva che i giovani sono vittime della movida, non responsabili. Un ragionamento nel quale viene ricalcata la forma mentis dell’Italietta degli anni cinquanta e sessanta, dove se una ragazza subiva uno stupro doveva in qualche modo essersela cercata, in particolare quando indossasse abiti giudicati provocanti, per non dire di quella bomba a orologeria ormonale appena inventata da Mary Quant: la minigonna. La normativa che consente la riapertura di bar e ristoranti è dunque da considerarsi alla stregua di una moderna minigonna: Lo spritz mi ha provocato, Vostro Onore, come resistere…
Eppure Cecchi Paone non ha forse tutti i torti. Il problema non è però stabilire chi sia vittima e chi carnefice, ma intendersi su quella parolina estera, francamente abusata se non malintesa, che è movida. La movida è stata un movimento artistico e culturale nato in Spagna nei primi anni ottanta, ma col termine, come recitano anche i dizionari, si è venuto a designare per estensione la vita notturna e gli assembramenti fuori e dentro i locali di maggior successo. Il nocciolo della questione mi sembra così in quest’ultimo aspetto, il successo, la frequentazione di alcuni luoghi rispetto ad altri.
Qualcuno davvero pensava che la riapertura di bar e ristoranti avrebbe comportato una distribuzione casuale e uniforme, e non di nuovo la concentrazione nei locali cosiddetti di tendenza? Il fatto è che, a differenza di altre attività, nei locali i giovani vanno seguendo una sorta di energia centripeta – stare assieme, anzi esistere assieme, cazzeggiando amabilmente in uno sciame di simili – e quanto più c’è affollamento quanto più viene gratificato il proprio desiderio di essere parte di un tutto chiassoso, una festa mobile. Non si va al bar perché manca la birra in frigo: Mamma, papà, esco a prendere una Ceres, ma torno subito.
Se si voleva mantenere quei tasselli che compongono il puzzle giovanile separati, i bar, semplicemente, non dovevano essere aperti. Ancora più patetica è la nuova figura del separatore sociale che si vorrebbe istituire: sui navigli o davanti a Radetzky, al Bar Basso all’ora dell’aperitivo, non basterebbe una truppa di separatori sociali, ma ci vorrebbe un rompicoglioni per ogni cliente, a riprenderlo ogni volta che si sfila la mascherina o infrange il metro di distanza.
La condizione vittimaria dei giovani, evocata da Cecchi Paone, è semplicemente una stupidaggine, e ricordo en passant che Gaetano Salvemini offrì a Piero Gobetti di dirigere l’Unità quando questi aveva quindici anni. E dunque, a venticinque, non dico quindici anni come lui, si potrebbe avere la maturità per indossare uno straccetto sulla bocca, gesto per cui anche molti ultra cinquantenni avrebbero bisogno di ripetizioni. Detto ciò, è una stupidaggine di natura uguale e contraria lamentarsi perché un bar è pieno di gente. I bar facciano i bar, i virologi facciano i virologi e i politici facciano i politici, stabilendo quando serve degli argini al godimento collettivo, un Super Io istituzionale che solo i cretini considerano una violazione ai diritti fondamentali. Quanto ai giovani, vedo che non c’è bisogno di dirgli cosa fare. E cioè, come sempre e come giusto, quel cazzo che gli pare.

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