lunedì 18 maggio 2020

Ho voglia di sputtanarmi


Ho voglia di innamorarmi, ho voglia di stare male… Inizia così una vecchia canzone di Francesco Baccini. E fin qui, direi, nulla di nuovo. Un orecchio smaliziato potrà cogliere l’eco di uno dei versi più celebri di Virgilio, quell’agnosco veteris vestigia flammae (conosco i segni dell’antica fiamma) in cui il ridestarsi del sentimento viene avvertito con una consapevolezza quasi dolente, già sapendo il carico di sofferenza a cui la gioia amorosa farà da riflesso.
Ma Baccini poi continua: ho voglia di innamorarmi, ho voglia di sputtanarmi. Ed è qui che la canzone vira in una direzione di dolcissima inattualità, lasciando trasparire un’inclinazione, tipica degli amanti del tempo che fu, ormai completamente perduta. Quella di sputtanarsi, appunto, di deporre le armi dell’orgoglio personale ai piedi dell’amato, come fece Vergingetorige con Giulio Cesare.
Alcuni anni fa mi capitò di leggere un interessante libro di Neil Strauss sulla sua esperienza a un corso di seduzione, The Game è il titolo, l’editore Mondadori. Attraverso un bizzarro mentore dallo pseudonimo di Mistery – tutti i Pick Up Artist, come si definiscono tra di loro, utilizzano un nom de plume – il giornalista di The New York Times e Rolling Stone imparò a rimorchiare giovani e piacenti ragazze in ogni situazione, e ciò malgrado la natura non gli avesse offerto un aspetto particolarmente avvenente. È solo tecnica, ci assicura.
Non ho motivo di dubitare di quel che riporta, ma ciò che mi colpì è l’atteggiamento suggerito per ottenere i propri scopi: considerare la seduzione come una lotta senza esclusione di colpi, in cui l’oggetto del desiderio (l’avversario) va da subito messo sotto, fatto sentire in uno stato di minorità psicologica, poco più di un cagnetto a cui buttare gli avanzi del pasto. In pratica, il contrario di quanto abbiamo appreso leggendo i romanzi dei secoli scorsi, in cui gli innamorati non facevano altro che sputtanarsi con le proprie mani. Addirittura, ed è il caso del giovane spasimante di Gretta, moglie del protagonista di uno dei più bei racconti dei Dubliners di Joyce, sputtanarsi al punto di morirne, morire di polmonite dopo aver sostato sotto la pioggia gelida per poter vedere il suo amore per l
'ultima volta. Era già malato, but love above all.
Scrive Sartre con la consueta lucidità: “quel che patisce la passione amorosa è la consapevolezza che la nostra possibilità di trascenderci dipende dalla libertà dell’altro.” Si può amare e, dunque, patire pubblicamente la propria ipoteca amorosa, rendendosi goffi, buffi, ridicoli agli occhi degli altri. Un minimo teatro sentimentale a cui il termine sputtamento prova a dare forma linguistica. Ma si può anche occultare tale patimento o magari non provarlo affatto, bastare a sé stessi, utilizzando il corpo dell'amato non come trampolino per trascenderci ma semplice gadget, trofeo da ostentare nei corsi di seduzione di Mistery. In fondo neppure questo è un atteggiamento inaudito, e già nelle pratiche libertine, quelle descritte nelle pagine di Pierre Choderlos de Laclos, trionfa il gusto per l’agone amoroso, dove l’io vince sempre sull’altro. La bellezza sta dunque in un procedere lambiccato da scacchisti, nell’inganno strategico, perfino nella beffa.
Baccini ci racconta però di un’altra bellezza, quella della sconfitta. Innamorandosi, sputtanandosi, non si conquista infatti un oggetto determinato da aggiungere ad altri simili oggetti nella propria camera delle meraviglie, ma si perde qualcosa. E tanto più la si perde e quanto meno la si dovrebbe rimpiangere, ma essere grati per lo smarrimento. Ciò che va perduto è l’angusto perimetro del pronome io. Je est un autre, affermava sornione Rimbaud. No gli risponde Baccini: Je est l’autre, articolo singolare determinativo.
In un momento in cui siamo tutti confinati dentro case, automobili, mascherine, spazi di sicurezza personali – un metro ma meglio un metro e mezzo, anche due –, insomma dentro il nostro io minacciato dal virus, la canzone di Baccini mi sembra un prezioso viatico. Tanto più che, nel finale, aggiunge che ha voglia di innamorarsi di una donna, ma in mancanza di meglio anche "di un
 animale, di una borsa di coccodrillo, di uno straccio di ideale. Ho voglia di innamorarmi di qualcosa che non c'è..."
Se l'amore sconfina dunque e sempre nell'utopia, più che sedurre donne a profusione – in Ispagna son già milletre – dopo mesi di clausura egoica avrei ora voglia di sputtanarmi, di destituirmi, diventare un niente di niente, uno zero assoluto, geometria perfetta tratteggiata da Giotto e perseguita con rigore da Robert Walser nelle sue infinite passeggiate sulle distese di neve dell'Appenzello. In altre parole, di innamorarmi.

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