sabato 25 febbraio 2017

Mauro, una vita in due parole



Due giorni fa, a cinquantun anni appena compiuti, è morto all'improvviso Mauro Franchetti. Eravamo amici, anche se non ci frequentavamo da anni. Eravamo stati compagni di scuola. Pubblico di seguito il discorso che ho pronunciato alla piccola cerimonia per la sua cremazione.


Ho conosciuto Mauro nel settembre del 1980, il giorno esatto non lo ricordo ma potrei risalirci con una semplice ricerca: era il primo giorno di scuola del primo anno di Ragioneria, Istituto Tecnico Commerciale De Simoni di Sondrio. 
Per qualche scherzo del destino eravamo finiti entrambi lì, con le gambe incastrate sotto banchi di formica verdina ad ascoltare parole che così poco ci corrispondevano – chi ci parlava di diritto commerciale, stenografia, contabilità aziendale – mentre dalle finestre spalancate arrivava la musica dalle auto ferme al semaforo di via Caimi, con i Buggles che cantavano Video killed the radio star e Donatella Rettore a ricordarci che il kobra non è un serpente, ma un pensiero frequente, che diventa indecente, quando vedo te, quando vedo te. Classe prima effe, per la cronaca.
La cosa che mi colpì appena lo vidi e a cui, pensando a Mauro, ho continuato ad associarlo in tutti questi anni, è stato l’abbigliamento. Indossava un gilè rosso vermiglio sopra a una camicia giallo canarino. A meno che tu fossi un calciatore della Roma, intendo, chiunque sarebbe stato ridicolo conciato a quel modo…  Ma lui era perfetto, perfetto ed elegante così! Una via di mezzo tra un personaggio dei fumetti, un elfo, un videogioco o comunque una creatura partorita da una fantasia libera e scatenata.
Se dovessi provare a riassumere il ricordo che conservo di lui, inizierei allora proprio da questo termine: fantasia, o meglio ancora immaginazione. Da affiancare  a un altro termine da esso inseparabile, almeno nel caso di Mauro. Bontà.
Sì, per quanto possa apparire retorico affermarlo solamente ora, Mauro era un uomo buono. Una bontà di cui chi l’abbia conosciuto anche solo superficialmente ha esperienza, meglio certezza, essendo una disposizione al bene realizzata nei fatti, non certo un’interpretazione ingentilita dal rimpianto.
Ma era appunto una bontà “immaginativa”, spesso disancorata da un terreno solido che possa dargli forma compiuta, oltre che dalla vischiosità concreta di oggetti e relazioni, pratiche e galatei sociali, faccende quotidiane con cui faticava a tenere il passo. E forse per questo sono stati numerosi anche gli inciampi.
Per tale ragione, già da ragazzo, poteva ricordare un’altalena che sbilancia verso un’inventiva fertile e quasi infantile – quei bambini che non esitano a prestarti la bicicletta e a dividere le proprie biglie –, virando però al termine della corsa in direzione del polo opposto, quello di una fantasticheria come avvitata su stessa, autodistruttiva per eccesso di rappresentazione. Dove ciò che viene distrutto non è dunque il mondo, ma il proprio mondo. Quasi ci si sentisse in colpa del fatto che la realtà non corrisponda al travestimento lieto del sogno, e ciò che si stringe è solo la brutta caricatura di quel che si era prima immaginato, o una premessa che non giunge mai a conseguenza.
La parigina senza gelato, ecco. Quando il gelato, Mauro, se lo inventava ogni volta da solo, e dei gusti più esotici e bizzarri. Ma gli si scioglieva ogni volta tra le mani, prima di diventare cosa tra le cose.
Amava ripetere Fellini: “nulla si sa, tutto si immagina.” Dal mio parziale e altrettanto immaginario punto di osservazione, la vita di Mauro è allora una spiaggia con queste due parole incise sopra: bontà e immaginazione. Almeno prima che arrivasse l’ultima terribile onda, che ha cancellato entrambi i termini e, chissà, forse, dato finalmente l’avvio al viaggio che Mauro ha sempre e solo immaginato, e mai davvero compiuto…  

Un abbraccio dal tuo amico Guido