martedì 28 settembre 2021

Paragone rionale


Il caso Morisi. Ciò che leggo mi pare si concentri su un particolare: si drogava, e cedeva ad altri la Gbl, o Ghl, la cosiddetta "droga dello stupro". Il primo aspetto a me appare del tutto irrilevante – drogarsi non è motivo di biasimo, né di virtù –, mentre sul secondo si potrebbe discutere; se la sostanza veniva venduta è un reato penale. Ciò che a me ha colpito non è però ancora questo.

L’episodio mi ha ricordato gli avventori del bar Corona, sta proprio sotto casa mia. La mattina sono già lì con un bianchino in pugno, uno in particolare, si chiama Graziano, quando passo mi saluta sollevando il calice in segno di brindisi. Insomma, avrete capito che Graziano mi è molto simpatico.

Ma se entrando al bar Corona, non lo faccio spesso e ordino sempre un caffè corretto grappa, Graziano cominciasse a dirmi: “La grappa, nel caffè: ma non ti vergogni? Alcolista, scarto umano, quelli come te dovrebbero schiaffarli in galera, e poi buttare via la chiave…” Ecco, se mi dicesse così Graziano non mi starebbe più tanto simpatico.

E così Luca Morisi, che, fuori dal perimetro rionale del paragone, ora mi sta sui coglioni ancor più di quanto già non mi stesse prima, quando rilanciava le sceriffate di Salvini contro i (presunti) drogati. Lui e il suo cazzo di algoritmo “Bestia”!

lunedì 27 settembre 2021

Autofiction


In questi anni è divenuto di uso corrente il termine anglosassone autofiction. Stiamo parlando di letteratura, naturalmente. La traduzione letterale, autofinzione, o meglio ancora autofinzione biografica, ne restituisce il senso senza alcuna distorsione. Ma l’inglese è l’inglese, e ormai solo Diego Fusaro pronuncia Nuova Iorche, come faceva Ruggero Orlando nei suoi collegamenti da Big Apple, erano gli anni settanta o giù di lì.

In realtà la parola, e anche il concetto, provengono dalla Francia, quale reazione alla poetica della morte dell'autore propugnata da Roland BarthesFu Serge Doubrovsky a parlare di autofiction per la prima volta negli anni settanta, ma poi la pallina del flipper rimbalzò negli Stati Uniti, che già si cimentavano nel genere attraverso un movimento chiamato New Journalism (Truman Capote, Norman Mailer, Hunter Thompson ecc.) e a noi è ritornata con la pronuncia anglofona; come il termine latino media, plurale di medium, che ormai i più pronunciano "midia". A essere pignoli dovremmo così dire: "otofixion".

Quanto ci sia di finzionale e quanto di biografico, ovvero di reale, non è importante stabilirlo, essendo altamente variabile. L’autofiction funziona se il lettore crede che le cose siano andate a quel modo lì, scritto sulla pagina, e ne viene coinvolto, entrando in una risonanza altrettanto biografica con le parole del testo.

Ho fatto esperienza del funzionamento del meccanismo proprio ieri, dopo aver pubblicato un racconto su Facebook. Scrivevo di un viaggio a Milano per una visita medica, in cui avrebbe dovuto accompagnarmi un amico che all’ultimo momento mi ha però dato buca. Ho così dovuto disdire la visita; in questo periodo la mia salute è malandata, cinque ora alla guida dell'auto sono troppe. Ma il medico, uno di quei professori blasonati con il nome composto, ha comunque preteso il compenso. La disdetta, aggiungevo, è avvenuta con 29 ore e 30 minuti di anticipo sull’appuntamento, e questa cosa ha suscitato la reazione indignata di molti lettori. Un vero stronzo, hanno concluso.

Ma la reazione di una lettrice è stata diversa. Nel mio amico, di cui non menzionavo il nome, le è parso di riconoscere una persona che anche lei conosce bene, lo chiama addirittura "un santo”, e forse davvero lo è. Ma di quale amico stiamo parlando: di quello di Guido Bussoli, il mio nome di battesimo, o di Guido Hauser, la voce che dice io nel testo? Ossia dell’autore o del punto di vista in cui si focalizza internamente la narrazione, un personaggio a tutti gli effetti. E così anche il suo amico, il mio amico, l’amico del personaggio e dell'autore… Ma amico di chi, alla fin fine: di chi stiamo davvero parlando?

Un dubbio da cui la lettrice non è stata attraversata – e per fortuna, altrimenti il mio testo avrebbe fallito nel suo intento di essere creduto quale biografia, la parte fiction dell’iceberg deve sempre rimanere sommersa – e mi ha accusato di avere messo quella meravigliosa persona in cattiva luce, anzi, e testualmente, “in croce” – non si fa così!

Cosa è accaduto mi sono chiesto allora, perché una reazione tanto forte e risentita?

In fondo, nel racconto io non parlavo male del mio amico, mi limitavo a dire che mi ha dato buca, cosa effettivamente accaduta anche nella realtà, per quanto nel farlo ho forzato un po’ la mano a fini narrativi; l’amico di Guido Bussoli, il mio “vero” amico, aveva detto che mi avrebbe dato conferma due giorni prima dell’appuntamento, quello di Guido Hauser no. Inoltre, il setter della storia ha preso un infarto dopo aver udito una fucilata, mentre il cane posseduto dal mio amico ha avuto il coccolone traversando la strada. Piccole differenze, slittamenti, ma comunque sufficienti a istituire un mondo diverso, che si chiama narrativa. Intendendo col termine lo scarto, più o meno marcato, tra l’accadere e la sua rappresentazione, o quando lo scarto si allarga: invenzione.

Io ho provato a difendermi, a spiegare la distinzione dei piani, ma più lo facevo più lei insisteva (non si tratta così un amico, vergogna!), fino a quando non ho compreso che aveva ragione lei: l’autore non possiede mai l’ipoteca sulle reazioni emotive del lettore, e tanto più sono accese tanto più l’inganno narrativo è andato a buon fine, il cosiddetto “patto di sospensione dell’incredulità” è stato sottoscritto; poco male se ha poi imboccato la via imprevista della ripulsa ringhiosa.

L’effetto principale della finzione autobiografica, per come ne ho fatto esperienza, sta dunque nell’istituzione di simili reazioni di rispecchiamento; magari e se possibile più concilianti, per quanto ci siano autori che hanno di mira proprio il disagio del lettore. Un solo nome: Michel Houellebecq.

O detta in altre parole, attraverso l’autofiction, quando il dispositivo va a segno, si realizza un grado superiore di tensione tra lettore e testo di quanto avviene, di norma, nella narrazione puramente finzionale, in cui negli anni si è progressivamente allentata la stessa dinamica; il sospetto è che un ruolo decisivo l’abbia avuto l’avvento del cinema, in cui le emozioni primarie vengono veicolate con maggior forza persuasiva. Non è forse un caso che, tranne rarissimi episodi (mi viene in mente Caro diario di Nanni Moretti), nel cinema non si fa ricorso all’autofiction. L’illusione sullo schermo funziona sempre alla grande, mentre sulla pagina scritta ha perso molti colpi.

Ma se riusciamo a ripristinarla attraverso la strategia autofinzionale, dobbiamo essere consapevoli che corriamo dei rischi. Come in ogni altra forma d'illusionismo si deve infatti prestare attenzione all’esecuzione del trucco, già che si possono ottenere degli effetti di ritorno non previsti; quelli, sì, pienamente reali, come viene mostrato da Stephen King nel romanzo Misery; il cinema, avvoltoio di specchi ed emozioni, ne ha subito colto le potenzialità, nella bella trasposizione che in italiano prende il titolo di Misery non deve morire (ma a King pare non piacque).

Nel mio caso, con le debite proporzioni, Guido Hauser ha ottenuto 63 like su Facebook, ma Guido Bussoli si è guadagnato una persona in più che lo guarderà in tralice, lo guarderà con sospetto e disprezzo (hai tradito il tuo amico, hai tradito il tuo amico!) tutte le volte che lo incontrerà sul giro degli stupidi di Sondrio.

domenica 26 settembre 2021

Collega


Torno sul tema del medico che mi ha richiesto 200 euro per una visita non effettuata, e disdetta 29 ore e 30 minuti prima dell'orario convenuto. L'episodio mi ha fatto ricordare una conoscente che ha un negozio di abbigliamento in un paese vicino a dove vivo. Di recente e come si dice scoprendo una vocazione tardiva, ha pubblicato un paio di libri; non ne conosco la qualità, ma le informazioni e soprattutto il tono del risvolto ("una storia di legami che restano scritti dentro, radici che trattengono segreti, dolori non cercati che ci conducono a ritrovare noi stessi in radure luminose") mi hanno indotto a credere che non fossero nelle mie corde, ma magari mi sbaglio. Parlando di una scrittrice con cui avevo avuto una polemica su Facebook, la mia conoscente, immagino in forza dei due libri con il suo nome bene in vista sulla copertina, non credo per via degli abiti di un famoso brand venduti nel suo negozio, l'ha chiamata collega, "mi informerò sul lavoro della collega".

Confesso che è una cosa che mi ha fatto molto ridere. Collega, quando detto a proposito di uno scrittore, suggerisce il paragone con un dermatologo, il quale aggiunga al termine dell'ispezione a un brutto neo: "Mi saluti il collega", riferendosi al medico curante che ti ha inviato da lui per una visita specialistica. Ma tra scrittori è buffo, dai. E invece no. Dovremmo piuttosto ridere quando sono proprio i medici (come i poliziotti, come i questurini) a chiamarsi colleghi tra di loro, utilizzando una parola sintomo che tradisce una complicità occulta, corporativa. Non importa l'intenzione di chi la pronuncia: alle sue spalle, dietro il sipario della bocca, ci sono quinte profonde, sedimenti di senso; Lacan li chiamava "le Grand Autre", il Grande Altro. Ed è spesso questo altro, in forma di linguaggio, a scrivere i copioni di quel che diciamo, a parlarci mentre parliamo.

Il termine collega, a uno sguardo non distratto dallo stetoscopio che gli pende dal collo, lo sfigmomanometro che ci attende minaccioso, dice allora qualcosa di ulteriore al contesto, rivelando un atteggiamento opposto a quell'apertura all'uomo e alle sue sofferenze che dovrebbe provare chi professa la cura, prima ancora di essere un professionista. Collega, caro collega, consegni il referto al collega, un tic linguistico che finisce col collegare tra loro i medici in un gruppo ristretto e sempre più saldo, un insieme, ma scollegandoli da quell'insieme maggiore chiamato mondo. È una conseguenza della semantica, prima ancora che dell'etica.

Non mi stupisce dunque una notizia che ho letto di recente, nella quale gli africani laureati in medicina – sempre più di frequente li ritroviamo nei nostri pronto soccorso, a tutti gli altri medici ci si rivolge con il Lei e solo a loro con il tu – vengono giudicati tra i migliori. Non mi stupisce perché è un popolo ancora capace di provare stupore e curiosità ed empatia; forse perché il collegamento con il tutto, in loro, non è ancora stato reciso da quello con la parte. Quando l'estensione nominale da collegamento si contrae a collega, abbiamo invece questo cortiletto avido e pettegolo chiamato Occidente, in cui il simile non viene più riconosciuto dallo sguardo ma dalla targhetta sulla porta, sulla copertina, sull'etichetta dei vestiti. Tutte cose da vendere, prescrizioni mediche comprese. 

giovedì 23 settembre 2021

Ok, va bene, certo, o sul migliore dei mondi possibili

 

Domani pomeriggio avrei dovuto fare una visita da un medico milanese molto famoso. Niente di nuovo, è una malattia di cui soffro da anni – la mia indole alpina e vagamente ruvida mi impedisce di definirla grave, e infatti non è grave, nel senso che non si muore –, una malattia che in questi due anni ha subito un peggioramento. Un po' come gli elettrodomestici guasti che vengono gettati in cantina, in attesa di tempi migliori: non è che a non guardarli si aggiustano da soli, intendo.

Il viaggio, in auto, da Sondrio a una bella via nei pressi di Porta Ticinese, mi comunica Google Maps essere di due ore e quattordici minuti; al ritorno un po' di più per via del traffico in tangenziale, semafori, code, rompicoglioni che suonano prevedendo telepaticamente la trasmutazione alchemica del rosso in verde. Troppo sbattimento, nel mio attuale stato di salute. Mi ero così messo d'accordo con un amico per essere accompagnato. Mi accompagni a Milano? Ok, va bene, certo, dice lui.

Due giorni prima dell’appuntamento però ricevo un WhatsApp: Non posso venire, scusa, è per via dei cani. I cani? Mmm... il mio amico non possiede cani, mai avuto cani a parte il setter del padre, che è morto di infarto nell'udire il rumore della fucilata a un fagiano. Ma era più di trent'anni fa. In seguito mi spiegherà che gli sono stati lasciati due cani in affido; uno è molto vecchio e acciaccato, non mi fido aggiunge, ha già avuto una crisi epilettica. Chi glielo spiega poi ai padroni? Ok, va bene, certo, dico io.

La mattina successiva telefono al medico milanese molto famoso per disdire, l'orario delle comunicazioni è fissato tra le dieci e le unici, e alle dieci e un minuto compongo il numero con quel filo di tachicardia di chi sa di essere in difetto. Caro signore mi risponde, il tono è affabile ma fermo, la visita va comunque pagata. Ok, va bene, certo, replico contrito ma per qualche perversa ragione anche risollevato ("a pagà se ve' liber" si dice dalle mie parti), la tachicardia si è spenta in un tonfo senza più base percussiva. Sa, continua il medico milanese molto famoso, è un fatto di correttezza: in meno di 24 ore corro il rischio di non riuscire a rimpiazzarla, ritrovandomi così un brutto buco in agenda. Le ore in realtà sono 29, ma non puntualizzo, un brutto buco in agenda è un brutto buco in agenda. Dico soltanto: Ok, va bene, certo. 

Può farmi un bonifico dice il medico milanese molto famoso, le invio i dati con una mail. Ok, va bene, certo. Sono 200 euro. Ok, va bene, certo. D’ora in poi tutte le volte che leggerete ok, va bene, certo sono io a parlare. Guardi dice il medico milanese molto famoso, le vengo incontro, facciamo 150. Ok, va bene, certo; cioè, va bene grazie (come è umano Lei stavo per aggiungere, ma non sono sicuro che avrebbe colto la citazione).

Eseguire bonifici, con internet, è ora una pacchia, non c’è niente di più facile che sbarazzarsi del denaro. E poi quando non hai un lavoro, quando non puoi lavorare e se anche fosse chi ti si piglierebbe più, a cinquantacinque anni suonati e la diagnosi di una malattia che non è certo grave, magari seria, ecco, anche se detta così fa al contrario un po' ridere, come cantava Pippi Calzelunghe nella sigla del programma televisivo di cui, alla metà degli anni settanta, attendevo con trepidazione l'inizio ("ma voi non riderete per quello che farò", continuava), pagare dicevo è l'ultimo dei problemi.

Qualsiasi cifra mi avesse chiesto sarebbe comunque stata troppo: troppo tanto, naturalmente, ma anche troppo poco. Nell'assenza di remunerazione a un gesto di natura pubblica, un contributo, insomma, a tirare avanti questo gioco di ruolo chiamato Occidente, il rapporto col denaro va facendosi astratto; ma a tale rarefazione contribuisce la disabitudine a spendere, specie dopo quasi due anni di pandemia in cui finisce con l'accumularsi perfino la carenza, il mai tolto.

È come per un bambino di dieci anni quando mette da parte le mancette dei nonni. Due anni di mancette, due anni in cui non sono andato una sola volta al ristorante, due anni senza i velluti porpora e gli specchi dorati del night club Caprice di Morbegno, due anni e nessuna prostituta, amante, niente di niente, neppure un foularino da fare sbocciare tra il giubbotto di pelle e la brezza di lago, qui si leva alla fine di febbraio per assopirsi quando spiovono le ciliegie. Ah no, il mese scorso ho acquistato un profumo: Habit Rouge si chiama, fu realizzato nel 1965 da Jean-Paul Guerlain quale versione maschile, ippica, di Shalimar. Lo utilizza anche Keith Richards, l'ho letto sull'inserto culturale di un quotidiano.

Quando ho concluso la telefonata con il medico milanese molto famoso, è un neurologo e ha uno di quei bei nomi composti che già all'anagrafe mettono soggezione al copista, Jannacci direbbe che fanno rima con Rolex e Cortina, quando mi ha liquidato con un attendo sue nuove (nuove è ovviamente un sinonimo di soldi, money, dinero, argent, nel nostro caso) ho compreso che il ventaglio delle gratificazioni della mia vita si è progressivamente richiuso a una soltanto, come la coda del pavone senza pavonesse nei paraggi: possedere lo stesso odore di Keith Richards, l'odore che ha quando posa la chitarra e prima di accendersi una Marlboro.

Però, detta nuovamente così, e in effetti l’ho detta così, sembra che mi stia lamentando. La vita è un dono del Signore, almeno se sei religioso e io non lo sono. Altrimenti è un ottovolante, i manuali di self improvement ti insegnano che bisogna aggrapparsi stretti stretti al carrello e poi strillare il tuo sìiiiiii a ogni curva, benedire la salita lenta quanto la discesa a capofitto, celebrarle come opportunità di crescita e perché no di guadagno, tanto alla fine si ritorna sempre al punto di partenza. O in alternativa e più sommessamente, rispondere ok, va bene, certo. E dunque dimenticatevi tutto, facciamo come se non vi avessi detto nulla. Come se vivessimo nel migliore dei mondi possibili.

Vipponi

Il neologismo vipponi, coniato da Alfredo Signorini per chiamare a raccolta i concorrenti del Grande Fratello Vip, credo che rimarrà a futura memoria, come gli slogan degli anni ottanta di Gerry Calà: libidine, doppia libidine, libidine col fiocco.

In fondo, sono l'equivalente postmoderno delle frasi che i sette savi avevano inciso sul frontone del tempio di Delfi, a far da specchio al proprio tempo. Del nostro, di tempo, rimarrà invece quel tormentone, a ricordarci che c'è stata un'epoca in cui non bastava essere delle persone molto importanti (Very Important Persons), ma piuttosto molto molto, very very, l'iperbole dilaga quando il maggiorativo diviene la regola, e come cantava Giorgio Gaber non basta più l'amore ma ci vuole un "plus amore".
La sensazione è quella restituita da una celebre sequenza de Il grande dittatore di Chaplin, in cui Hitler e Mussolini continuano ad alzare le poltrone da barbiere su cui sono seduti uno al cospetto dell'altro, per svettare sull'interlocutore. Forse entrambi già intuivano l'ombra che ci ha infine avvolti, in cui i nomi si confondono ai nomi, le facce alle facce. L'unica sarà allora precipitarsi su un social network per guadagnare una manciata di like, a provvisoria restituzione (obliterazione) di una caricatura di esistenza. O, meglio ancora, diventare dei vipponi.

mercoledì 22 settembre 2021

Altalena

 

Di Red Ronnie a cui viene impedito l'ingresso al museo di Messina perché si rifiuta di esibire il Green Pass, trovo gustoso un particolare. "Avevo il Green Pass" commenta il giornalista rockabilly, l'amico di Muccioli e Morgan, il simpatico pennellone con i Ray Ban di celluloide e il ciuffo ribelle, "l'avevo perché il giorno prima mi ero sottoposto a tampone, dovendo salire su un volo di linea. Ma non intendevo mostrarlo: la Costituzione ritiene lo stato di salute di un cittadino un dato sensibile protetto dalla privacy."

Dalle sue parole si ricava che la Costituzione ha valore solamente con i piedi ben piantati al suolo, sull'aereo non ha infatti posto la medesima obiezione, il detto ermetico come in cielo così in terra ha perduto di significato. Mi chiedo dunque come comportarsi in altalena...

Probabilmente si deve mostrare il Green Pass quando si gioisce al culmine dell'oscillazione, mentre, al momento della spinta, si può fare marameo a ogni decreto governativo, profilassi sanitaria, vincolo di legge; oltre a quelli nei confronti del consorzio umano con cui dividiamo sempre più ringhiosi le strade. Un luogo fisico comune in cui, confesso, non sentirei la mancanza di Red Ronnie, come lui non sentirebbe la mia (beninteso: non gli sto augurando la morte, ma che in luogo di quella si trasferisse alle Hawaii, alla maniera di Fonzie).

Ma sono forse prove generali di un divorzio civile ormai in corso da tempo, un divorzio consensuale. Manca solo la formalizzazione da parte del Giudice, sempre che si riesca a firmare il documento sull'altalena. Su cui si allontana cigolando, in un refolo tiepido e autunnale, la parola loro dalla parola noi.

lunedì 20 settembre 2021

Equivalenze

Pensavo. Ripetere, allo sfinimento, a chi ha deciso di vaccinarsi che "ancora non conosciamo gli effetti a lungo termine" (in realtà non conosciamo gli effetti a lungo termine di quasi tutto, troppe variabili si sovrappongono nel tempo), equivale a rimproverare i pompieri che sono accorsi sulle macerie di Ground Zero per essere stati avventati. Potevano aspettare un po' prima di intervenire, cinque o sei anni come minimo, cos'è tutta questa fretta, le sirene che fanno ululare i cani, quando nemmeno loro conoscevano i potenziali effetti tossici a cui andavano incontro.

Certo, io che ho prestato il mio deltoide a una siringa indolore, zac zac, doppia dose di Pfizer e nessun effetto collaterale, non pretendo di essere equiparato a quel manipolo di eroi. Ma nemmeno sono disposto a sentire le rampogne di chi ha quale unico orizzonte civile il proprio ombelico – sì, sto parlando dei no vax, ni vax, boh vax o come volete chiamarli – per avere fatto almeno una volta nella vita il mio dovere di persona che vive all'interno di una comunità, così contribuendo a parare anche il loro preziosissimo buchino al centro della pancia. Ma pure quell'altro che sta dietro e con cui inizio a sospettare ragionino, e che cavolo!

sabato 18 settembre 2021

592, o su sicurezza e felicità


"L'uomo ha sempre barattato un po' di felicità per un po' di sicurezza", scriveva Freud oltre un secolo fa. Strano baratto, a ben pensarci. Un sentimento fugace e difficilmente formalizzabile, la felicità, come tenere un gatto fermo sul banco del veterinario, pesarla addirittura per ottenere un’uguale misura di sicurezza, e viceversa. Più facile a dirsi che a farsi. Mi è così venuto il dubbio che quando Freud parlava di felicità, sotto sotto, pensasse alla libertà...

Uno slittamento linguistico non del tutto infondato: se sono genericamente libero, tra le varie e molteplici libertà particolari (andare in windsurf, parlare al conducente, pisciare in compagnia senza essere sospettato di furto o spionaggio) ho anche quella di fare le cose che più mi rendono felice, ognuno avrà le sue. Per successivo salto analogico, il pensiero si è così focalizzato sulle nazioni che meglio rappresentano i due valori contrapposti, sicurezza e libertà, e cioè Cina e Stati Uniti.

Da qui l'intuizione che si possano quantificare i termini del baratto freudiano. Il conto, in fondo, non è complicato, basta partire dai diversi indici di mortalità pandemica; ad oggi 630.000 morti negli Stati Uniti e 4.636 in Cina. Facciamo ora due proporzioni per trasformare i valori in percentuali, che risultano essere 0,190332326% (morti Covid negli Stati Uniti in rapporto alla popolazione; suppergiù equivale al dato italiano) e 0,000321275121% (stesso rapporto per la Cina). Se dividiamo infine il risultato americano con quello cinese otteniamo 592.

Che cosa significa questa cifra?

Semplice, è quanto abbiamo pagato come Occidente conformato all'American Dream per poter bere Mojito al Papeete e guardare le foto di Chiara Ferragni in mutande. Quindi celebrare, sui social network, le virtù rigenerative dell'Aloe vera e quelle emancipative del depensare con la propria testa, o se preferiamo – la preferenza è un altro travestimento della libertà – denunciare le nefandezze dei vaccini e delle reti 5g, il complotto sanitario. Non basta ancora? Pubblichiamo un bel selfie con il braccio teso nel saluto romano, tanto per ridere naturalmente, anche in questo siamo liberi, 592 volte liberi. La maggiore probabilità che ha un liberissimo americano di morire di Covid rispetto a un sorvegliatissimo cinese. Le conquiste liberali hanno insomma un moltiplicatore di 592, che, nello scambio, ci dà la misura della nostra insicurezza.

Per giudicare se il baratto è stato profittevole e non ci abbiano per caso infinocchiato, concluderebbe Freud, non so come si dice infinocchiato nel gergo psicanalitico, resta da capire se siamo anche 592 volte più felici...

lunedì 13 settembre 2021

Democrazia e Covid



Paolo Zardi, ottimo scrittore e acuto osservatore del presente, nei giorni scorsi ha scritto un intervento su Facebook, nel quale mostrava le numerose contraddizioni contenute nelle disposizioni governative per arginare la pandemia.

Non le ricorderò tutte, se non, quale unico esempio, che è quantomeno bizzarro imporre l'esibizione del Green Pass per gli studenti universitari, e non per gli alunni delle scuole superiori e delle medie; nel secondo caso a partire dai dodici anni, età a cui è fissato l'attuale limite di somministrazione dei vaccini. Ma nelle stesse scuole medie e superiori i professori hanno nuovamente l’obbligo del Green Pass, altra contraddizione e così via.

Se ne ricava che la Costituzione italiana afferma dei diritti – istruzione, lavoro, salute, libertà di culto religioso ecc. –, ma, qualora entrassero in conflitto tra di loro, è compito della politica esercitare delle scelte, la cui natura è di necessità discrezionale. È la democrazia bellezza, conclude Zardi con altre e più forbite parole.

Quando si paventa lo spettro di una “dittatura sanitaria”, ossia di un principio tecnico, non importa se virtuoso, che si sostituisca alla mediazione politica nella scelta tra diritti alternativi, si dice dunque qualcosa di non del tutto infondato, per quanto in chi lo agita sono presenti motivazioni strumentali. C'è però un punto, delicatissimo, sorvolato da Paolo Zardi nel suo bell’intervento, ed è quando fa coincidere la discrezionalità politica (da attuare in forza della rappresentanza parlamentare) con la ragione democratica. In realtà, le cose sono un po’ più complesse.

Il termine democrazia non si risolve infatti nella volontà della maggioranza, attraverso cui scegliere tra diritti alternativi. Su alcuni di questi diritti non è possibile mediare. Ad esempio quello della tutela delle minoranze; e non mi riferisco a qualche aspetto eccentrico della loro cultura, ad esempio lanciare lavatrici dalla finestra a capodanno, ma alle minoranze tout court, alla loro sopravvivenza fisica.

Pensiamo a quanto avvenuto in Germania nelle elezioni federali del 5 marzo 1933. Il 43,9% dei tedeschi votò in piena libertà per il Partito Nazionalsocialista, sopravanzando di più del doppio i consensi del Partito Socialdemocratico, al secondo posto con il 18,3, e quello Comunista fermo al 12,3. Ma a nessuno verrebbe in mente di affermare che la successiva eliminazione della minoranza ebraica possa essere vista quale conseguenza di una democratica scelta tra diritti alternativi. I diritti, in democrazia, non sono tutti uguali. E così anche i doveri.

Questa tutela delle minoranze, prima ancora dei loro diritti, è un prodotto relativamente recente, ed è alla base della diffidenza nutrita da Platone verso la democrazia del suo tempo; infatti ora non la chiameremmo neppure democrazia, ma populismo. Ciò che distingue la democrazia moderna dal populsimo è proprio il sistema di equilibrio tra i poteri e di tutela delle minoranze, che nell’Atene del IV secolo, in cui Platone scriveva La Repubblica, non era presente.

Se la maggioranza parlamentare, la maggioranza eletta con suffragio democratico, decidesse così di abolire qualsiasi misura di contenimento della pandemia, non avremmo solo l'affermazione (del tutto legittima) del diritto alla prosperità economica su quello alla salute personale, ma anche il diritto – che non esiste – di contagiare i fragili, quelli che per ragioni di salute non possono vaccinarsi o su cui il vaccino ha scarsa efficacia e insomma una minoranza inerme, che a questo modo verrebbe messa a rischio di sopravvivenza. Sarebbe sempre politica, certo, ha perfettamente ragione Zardi. Ma non più democratica.

sabato 11 settembre 2021

Infamia

Edoardo Albinati, per chi scrive uno dei maggiori poeti e narratori italiani viventi, incorse a giugno di tre anni fa in un antipatico svarione. Fu quando si augurò che “su quella nave morisse qualcuno, morisse un bambino”.

Stava parlando in pubblico della nave Aquarius, e più in generale dei migranti respinti dalle motovedette inviate dall’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini. Una sciocchezza di cui lo stesso Albinati si è presto reso conto, e, dopo essersi come giusto scusato, ha analizzato quell'uscita infelice nei suoi risvolti politici e biografici, conferendogli la forma di un bellissimo pamphlet: Cronistoria di un pensiero infame, Baldini & Castoldi, 2018.

Mi viene in mente l'episodio leggendo i commenti sui social che prendono di mira chi ha deciso di non vaccinarsi, esasperando un sentimento a cui confesso, come Albinati, di non sentirmi del tutto immune. Massì, diciamolo, questa gente ci fa un po' incazzare. Ma anche l'informazione ufficiale contiene un ronzante sottotesto, che così potremmo tradurre: sono degli irresponsabili, degli scrocconi dell’immunità gregge! Un sentire che alla lunga ha finito col farsi auspicio di sventura.

Penso a chi gioisce, più o meno esplicitamente, per l’ennesimo militante no vax morto di Covid; oggi è stato il turno dell’ex pilota spagnolo di motociclismo Jorge Lis, 46 anni, pace all’anima sua. Ma anche ai gongolanti ah però, avete visto, ben vi sta! di chi è contrario al vaccino, e ora vede dilagare il virus nel vaccinatissimo Israele. 

Se ricerco un aggettivo per definire la radice psichica che muove le nostre emozioni verso simili bersagli, come in un'infinita battaglia navale in cui si esulta a ogni colpito e affondato, il più preciso, esatto, a prova di sinonimi, è proprio quello utilizzato dallo scrittore romano: infame. 

La pandemia, sia in chi è a favore sia in chi è contro i vaccini e le politiche governative – beninteso con ragioni scientifiche diverse, e anche diverse responsabilità civili e morali –, sta scoperchiando una disposizione da cui pensavamo di esserci liberati, di averla consegnata a vecchie manzoniane colonne, oppure al gergo malavitoso, roba da tossici, da mafiosi, l’infamità. E invece no, rieccola tra di noi.

Ne prendo atto senza suggerimenti da offrire, alla maniera di una seduta di psicanalisi in cui hai compreso di non avere mai amato tua moglie, e di esserti preso una sbandata per l’idraulico. In fondo la parità di genere è anche questa, spartirsi l'esuberanza erotica degli idraulici...

Ma siamo pari – io come Albinati, come buona parte se non proprio tutti gli umani – anche in una vocina interna, una vocina infame che ora sta guadagnando il megafono. Si inizia dal bar e poi si passa a Facebook, alla Nazione, il continente, un mondo intero costituito sul primordiale sentimento del rancore, che trova nell’infamia il suo corrispondente operativo. E almeno un merito il Covid ce l’ha: averci fatto da specchio.

mercoledì 8 settembre 2021

300, o sugli eroici professori no Green Pass

 


I politici vogliono discriminarci con il Green Pass, si dice. Per fortuna sono accorsi in nostra difesa trecento docenti universitari, come i trecento spartani che nel 480 a.C. arrestarono, sebbene temporaneamente, l'avanzata di Serse alle Termopili, con il professor Barbero nel ruolo di Leonida.

Hanno infatti perfettamente ragione ad affermare che il Green Pass è un atto di discriminazione! Peccato gli sfugga, nonostante i loro studi, che è l'intero processo di civilizzazione a fondarsi su pratiche discriminatorie, ossia di limitazione alla libertà personale in un contesto di vita associata. Come la chioma dei capelli attraverso quel discriminatore che è il pettine, il possibile viene separato dal lecito attraverso un complesso sistema di tutele e licenze.

Pensiamo ad esempio ai film porno. Io a tredici anni non potevo, e Dio solo sa quanto l'avrei voluto, issarmi sulle punte dei piedi davanti alla cassa del cinema Odeon, e poi richiedere con la voce tremante il biglietto per l'ultimo film di Marina Lothar, la moglie del giornalista televisivo Paolo Frajese specializzata in giochetti con i cavalli.

Che rabbia vedere il manifesto "Marina e la sua bestia" e non poter entrare! E che rabbia, alla stessa età, dover attendere ancora un anno per guidare il Ciao bianco di mio nonno. Quindi, raggiunto quel traguardo, altri due anni per la Vespa; oltretutto era previsto anche il conseguimento di un patentino: doppia discriminazione dunque, che si ripeté con l'automobile. Per la patente nautica e quella di volo ho desistito, avevo già subito troppe discriminazioni. E così un po' per tutto.

Curioso che trecento docenti universitari non l'abbiano ancora inteso, e siano convinti di vivere nello stato aurorale di natura decantato da Rousseau. Discriminazioni dettate dallo spirito dei tempi, e perciò mutevoli e strampalate se osservate a distanza di anni; il suffragio femminile fu introdotto in Italia nel 1945, nemmeno un secolo fa. Oltre che frutto di calcoli utilitaristici che ogni comunità umana elabora per proteggere sé stessa.

Se, verosimilmente, ci saranno meno incidenti con le persone in grado di certificare elementari nozioni di guida e meno morti con i vaccini – tutti quelli già obbligatori, oltre a quello per il Covid che obbligatorio non è –, non altrettanto immediata l'utilità nel distinguere i bagni delle donne da quelli degli uomini, o l'obbligo di indossare giacca e cravatta al casinò.

Perché, mi chiedevo leggendo la notizia, Barbero e i suoi colleghi non avevano alzato le loro penne stilografiche anche contro queste anacronistiche misure, e già che ci siamo io rivendicherei pure la libertà di pisciare sopra i copertoni come fanno i cani – il bagno stesso, con quelle pareti piccine e soffocanti, è una forma di discriminazione, un grave argine alla sacrosanta libertà di minzione.

Il Green Pass è dunque solo una piccola goccia nel grande mare dei diritti e dei doveri, o, cambiando di metafora, una pagliuzza dentro l'occhio in cui si nascondono travi ben più grandi. Non è di moda ricordarlo, ma a me continua ad apparire più discriminatorio il patrimonio ereditato da Gianluca Vacchi, da confrontare con solenne retorica operaista alle condizioni di lavoro (e santa grazia che c'è l'ha, un lavoro) di un dipendente dell'Ilva di Taranto, o la sperequazione tra un salario africano e quello di un idraulico di Montecarlo; e ho detto un idraulico, non un tennista che lì ha portato la residenza per pagare meno tasse.

Tutte questioni non pervenute, come le indicazioni meteorologiche di Potenza, per i trecento cattedratici, forse più preoccupati per il loro deltoide che non dalla ricaduta dei gesti individuali sulla comunità; anche questo un argomento che ha perduto di appeal, un tempo la si chiamava etica.

E allora facciamo così, aboliamole pure, per quelli che smaniano e manifestano e firmano, queste benedette discriminazioni: i vaccini, le mascherine, il Green Pass... Tutto quanto. Lasciamogli fare quel cazzo che gli pare e piace. Ma in un luogo circoscritto, una sorta di nuova Terra promessa da concedergli di buon grado, in cui trasferirsi dopo aver traversato deserti d'incomprensione.

Li potranno finalmente guardare tutti i film porno che gli abbiamo negato da cuccioli, votare a dodici anni, anzi dieci, ma che dico non votare proprio – a che serve la rappresentanza politica, ennesima discriminazione costituita da uomini che esercitano un potere su altri uomini? Meglio dedicarsi allo studio dell'araldica medievale, o a cose più libere e svagate, tipo guidare elicotteri senza patente e passaporto e ogni altro oppressivo documento d'identità; come cantava Lucio Dalla, anche i preti in quel luogo potranno sposarsi, ma soltanto a una certa età.

Fosse per me, gli concederei immediatamente anche la luna: così stanno più larghi e li vediamo solo col telescopio, mentre ci fanno ciao ciao da lassù.

martedì 7 settembre 2021

Tutta colpa delle figurine


È tutta colpa delle figurine. Alla fine mi sono fatto questa idea: le figurine, meglio la loro mancanza, sono il principale responsabile della confusione che ci attanaglia. Quando andavo all'oratorio si passavano ore nello scambio delle figurine con impressi i giocatori delle squadre di calcio di serie A. Le più difficili da trovare erano Cuccureddu, un difensore della Juventus che ricordava un po' le foto dei latitanti, e Pizzaballa, portiere di Milan e Atalanta che al contrario ricordava quelle dei poliziotti.

Due nomi certamente non comuni e buffi, che ne alimentavano il mito negli scambi: "Hai mica Pizzaballa? Ti do Riva, Facchetti e Burgnich per Pizzaballa." Chi faceva la proposta aveva compreso, forse inconsciamente, i principi della statistica, che tanto utili sarebbero adesso. Ad esempio: l'obiezione per cui anche i vaccinati sono vettori di contagio. È verissimo, l'ha riconosciuto pure Anthony Fauci. Ma chiunque si sia cimentato in questa postrema forma occidentale di baratto, avrebbe gli strumenti per ricavare che la figurina di un vaccinato non vale quella di un no vax.

Nel secondo caso, infatti, il rischio di essere contagiati è ventitre volte superiore, e dunque nello stesso rapporto anche quello di contagiare. E così per tutto quanto. I vaccini hanno effetti collaterali, sì, certo, ma in che proporzione (sia quantitativa che qualitativa) rispetto al rischio di ammalarsi e magari morire? Ed è ancora statistica, baratto, figurine.

La scienza medica al tempo del Covid-19 è solo questo: un compromesso, non nascondiamoci dietro il dito dell'utopia positivista. Tra cinquant'anni, probabilmente anche prima, trenta, forse perfino venti, i rimedi attualmente approntati ci faranno sorridere, superati da terapie più sicure ed efficaci. Ma noi siamo vivi adesso, tra venti o trent'anni chissà...

Per restarlo, vivi e possibilmente in buona salute, conviene allora mediare, magari non avremo Pizzaballa ma ci assicureremo Cuccureddu; ci costerà qualcosa (dovremo ad esempio cedere Mazzola e Chinaglia, che abbiamo doppi) ma va bene così.

Il baratto delle figurine non è però più praticato, e l'idea che sta passando in larghi strati della popolazione, anche colta, corrisponde alla metafora della botte piena e la moglie ubriaca; o se si preferisce Pizzaballa in porta e Cuccureddu in difesa, economia fiorente e assenza di tutele, salute e libertà, tutto e subito. Li si vuole entrambi. Senza cedere nulla. Cosa che a un bambino degli anni settanta sarebbe apparso un'assurdità.

venerdì 3 settembre 2021

Lei è un cretino! Si informi


Che cos’è un cretino? E come funziona, quali i suoi meccanismi interni, le sue rotelle? Immagino che la cosa migliore sia domandarlo direttamente a un cretino. Io, ad esempio.

In seconda media, per unanime e solido consenso, si stabilì che io fossi un cretino. La prima ad averne avuto sentore fu una certa Mevio; giovane e bionda insegnante di matematica, forse tinta, nella giornate in cui nevicava indossava degli enormi Moon Boot pelosi. Quando ci spiegò i numeri negativi, fui l’unico a non capire. Ma come, obiettavo, non si può numerare qualcosa che non c’è, addirittura dei segni grafici con cui marcare l’inesistente! Se avessi masticato un po’ di filosofia avrei aggiunto: il non essere non è, al limite, con i numeri negativi, possiamo esprimere una sorta di debito; in quanto debito è anch’esso positivo, viene incluso nel cono di luce dell’Essere. Ma ero solo un cretino di dodici anni, un cretinetti, e mi limitavo a impuntarmi come un mulo, o meglio un somaro matematico che non vuole riconoscere i numeri negativi.

Poco tempo dopo venne organizzato lo studio per gruppi di livello, e quel precedente mi portò a essere incluso nel gruppo più basso; il gruppo dei cretini, appunto. Ne facevano parte due ragazze handicappate, il figlio del meccanico da cui andava mio padre che veniva a scuola con le unghie nere e il pugnale della Decima MAS, un pluriripetente di cui non si udiva mai la voce, se non per chiedere “hai mica una Marlboro”, e infine io. Perfino il mio amico Mascarini, a cui fino a quel giorno avevo passato i compiti in classe sottobanco, stava in un gruppo superiore, e cominciò a guardarmi con un certo distaccato sussiego. Come lui tutti gli altri compagni, disposti in una gerarchia piramidale che culminava nel gruppo capeggiato dall’Acquistapace, vertice estetico e intellettuale della seconda F.

Insomma, ero proprio un cretino, non solo avevo finito per crederlo; tra convinzione e identità non vi è alcuna differenza, una continua circolarità rimodula percezione collettiva e coscienza di sé. In genere viene spiegato con l'effetto Rosenthal, altri lo chiamano Pigmalione, ma i più intellettuali e snob possono affidarsi allo schema Z di Lacan, oppure a Emanuel Lévinas, Jean-Paul Sartre; tutti nomi che allora non avevo mai sentito nominare. Ma in fondo lo si poteva intuire già dai fumetti di Zagor, di cui allora mi nutrivo. Zagor, lo Spirito con la scure, diviene un eroe nel momento in cui gli indiani della foresta di Darkwood pensano a lui come eroe, gli è bastato indossare un ridicolo costume per ottenere quell'effetto. E devo dire che non mi trovavo male neppure io col mio nuovo costume da cretino: camminavo con una postura da cretino, guardavo programmi televisivi cretini, e, naturalmente, a parte Zagor, non leggevo nulla.

Passarono molti anni, più di dieci, in cui lo Zeitgeist degli anni ottanta faceva da spensierata colonna sonora, puntello acustico al mio status di cretino. Concluse le medie, fui naturalmente dissuaso dal frequentare il Liceo – io volevo iscrivermi al Liceo classico solo per rivedere l’Acquistapace, mica per altro – e venni dirottato verso Ragioneria; una scuola per cretini, sì, certo, ma con l’astuzia di convertirli in utili idioti, un’alchimia che trasforma in oro (per le banche) la stupidità (propria).

Il cambio di prospettiva avvenne all’università. Avevo scelto, con slancio naif e in fin dei conti ancora cretino, la facoltà di Filosofia, forse allettato dal prefisso nominale: filo, a ricordarmi il termine figo. Al termine di una lezione sulla filosofia del linguaggio, in cui il professore aveva esposto la teoria che aveva a lungo elaborato con il suo gruppo di studio, lo accostati in corridoio e gli dissi: “Professore, scusi, ma c'è qualcosa che non mi torna. Intendo. Per questa ragione e per quest’altra, lo vede, c'è un passaggio, da lì in poi diventa tutto arbitrario…”

Lui mi guardò a lungo, serissimo, quasi minaccioso, e poi rispose: “Ma sai che mi ha detto le stesse cose John Searle? Bravo! Facciamo così: la prossima lezione la tieni tu, e ripeti le obiezioni ai tuoi compagni. La filosofia funziona a questo modo, vince chi possiede gli argomenti più convincenti. E, stavolta, avete vinto tu e Searle,” che al tempo era un filosofo molto di moda. Sì, anche in filosofia ci sono le mode, come per l'orlo dei pantaloni.

Alla fine la tenni per davvero, una lezione di fronte a oltre centocinquanta matricole. Non proprio per tutta l’ora, non ne avevo il coraggio né gli argomenti, ma per una ventina di minuti fui sospinto dall’adrenalina, a gonfiare parole, concetti ma soprattutto la coda del pavone. Mi guadagnai così la fama di genietto della facoltà. Lo capivo da come gli altri studenti avevano iniziato a relazionarsi con me: lo stesso modo in cui mi relazionavo io, in seconda media, con l’Acquistapace.

Ovviamente, anche questa mutazione percettiva comportò un corrispettivo nel corpo, che come quando ero cretino – non pensavo di esserlo, ripeto, lo ero proprio – si trasformò in un rapporto più impettito e statuario con lo spazio, gli oggetti, prima ancora che con le persone. Avendo provato entrambe le condizioni, devo dire che tra essere intelligenti o cretini non cambia molto: si tratta d'interpretare un copione sociale, aderirvi con la cocciuta immedesimazione di chi si affida al metodo Stanislavskij.

Per concludere, sono un genio oppure un cretino?

A me sembra tutte e due le cose. E non perché io sia effettivamente qualcosa, je est un autre, come tutti un passo in là rispetto a identificazioni sempre provvisorie, e l’Acquistapace più in là di tutti: perfetta e intangibile e a volte un po’ spietata. Direi piuttosto il riflesso, anch'esso mobile e incerto, di un agglutinato di pensiero che prima ancora che dentro sta fuori, e a cui possiamo sottometterci come fanno i cani quando si sdraiano al suolo (avete ragione voi, sono proprio cretino) oppure alzare la zampetta e dire: “Scusatemi, ma non sono d’accordo.”

Se riesci ad abbattere il maschio o la femmina alfa, che è uno ma rappresenta il branco, si cambia di gruppo, la Mevio ti promuove a un livello superiore e con i suoi Moon Boot ti dà un calcetto nel culo, a renderti più prossimo alla cima. La prima volta che ci ho provato non ci sono riuscito, e sono ruzzolato al fondo della piramide (in realtà, sotto sotto, sono ancora convinto della mia ragione, e trovo i numeri negativi uno strampalato cortocircuito logico…), mentre la seconda sì. Si trattava sempre di me, la mia intelligenza un uguale fagottino di neuroni, a essere mutato era lo specchio del mondo. Ché alla fine aveva ragione Totò: “Lei è un cretino! Si informi.”

mercoledì 1 settembre 2021

Eros e Thanatos

È sempre interessante osservare al lavoro la figura retorica della similitudine. Proviamo, ad esempio, ad applicarla alle tesi di Diego Fusaro sul Covid, per cui la pandemia rappresenta l'estremo inganno del neo-turbo-finanz-capitalismo – le sue collane aggettivali ricordano gli attributi dei dirigenti in Fantozzi: Gran Farabutt Lup Mannar ecc. In sintesi, procurando vantaggio alle case farmaceutiche, il Covid deve per forza essere un artefatto, e cioè un evento privo di una sostanza propria (fatto) al netto della sua subdola intenzione (arte). Ma se una cosa, per la semplice e unica ragione di generare profitti, è solo l’ombra del soggetto economico che ne trae vantaggio, o portando il ragionamento alle sue logiche ed estreme conseguenze: non esiste fuori dall'orbita del beneficiario (per Fusaro il caso non esiste), allora devono esserlo tutte. È appunto il principio della similitudine, che sta alla base del sillogismo. Prendiamo la morte. La morte è una bugia creata per ingrassare le multinazionali della sepoltura, mi appare evidente. Oppure l'amore, ah l'amore, questa subdola invenzione dei fioristi. Cacciatevelo dunque ben in testa, amore e morte non esistono! Parola di filosofo.