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sabato 23 novembre 2024

Mi ricordo 23

Mi ricordo di Orvieto, non la città, si tratta in questo caso di un cognome, appartiene a un mio compagno di classe delle medie. Di altri compagni ho memorie definite, di lui solo l'immagine del cespuglio nero e crespo dei capelli; spiccava nella fila dei banchi alla mia sinistra, verso i finestroni da cui si scorgeva il cubo di cemento della palestra e, più dietro, l'arco dell'Adamello. Le cime rimanevano innevate fino a tarda primavera.

Il suo anonimato si rifletteva negli studi, in cui non brillava di certo, ma nemmeno collezionava note sul registro come me. Una via di mezzo, una media leggermente al ribasso, con tutte le premesse per diventare un uomo altrettanto medio, abbozzi di vita in cui la cornice si ingoia piano piano il ritratto. O perlomeno così appariva, e bisogna sempre diffidare delle apparenze.

In ogni caso, quella brava era l'Acquistapace. Piccolina, occhi azzurri, capelli lunghi e lisci e biondi. Talmente bella che scommetterei sia stata utilizzata come calco nel realizzare la statuina della Madonna, da adagiare con cura nel muschio del presepe. Di lei naturalmente ricordo tutto, tra cui il nome, Simona, e l'odore di marzapane che emanava quando si alzava per andare alla cattedra a ritirare il suo tema, dopo che la professoressa Cozzini ne aveva letto uno stralcio a voce alta.

Trascorsi pochi giorni dal compito in classe di italiano, era una prassi a cui avevamo preso l'abitudine: sia la lettura di qualche passaggio dal tema con il voto più alto, sia che quel tema appartenesse all'Acquistapace. Fu dunque grande lo stupore, una mattina in cui il sole tardava a manifestarsi e l'Adamello era più innevato del solito, nel non udire un levigato estratto dal tema dell'Acquistapace, ma per intero quello di Orvieto. Titolo: Parla di tuo padre.

A un certo punto la Cozzini si commosse pure un po'. Fu quando, con parole semplici e sentite, descriveva il ritorno dal Belgio del padre, dopo anni in miniera. La gratitudine per quest'uomo che sentiva tossire nel letto, la nominazione di ogni sfinita parte del suo corpo (a volte i termini erano dialettali, Orvieto non conosceva tutte le sfumature della lingua inventata da Dante e resa popolare da Mike Bongiorno, evidentemente poco parlata in famiglia), soffermandosi sulle mani. E poi quella brutta parola: silicosi, qui trasformata in forma concreta, correlativo dell'affetto di un padre per il figlio. Il quale lo ricambiava con l'uguale concretezza dell'inchiostro.

Non sto dicendo che fosse un capolavoro, ma per la prima volta intuivo la differenza tra sentimento e sentimentalismo. Se i miei temi erano pieni di sarcasmo per sfuggire la trappola del glucosio in forma verbale – avevo una fama da bullo da mantenere –, non la grande letteratura ma il tema di Orvieto mi mostrava ora il mondo da una prospettiva diversa: essere porosi, assorbire, non avere fretta di restituire l'esperienza. Il sentimento somiglia piuttosto a un alambicco, bisogna lasciare ebollire prima di vedere sgorgare una goccia preziosa.

Ecco, quella era una possibilità che non avevo considerato, come nello stesso periodo il triangolo cantato da Renato Zero. Per me scrivere era invece una partita a tennis, la pallina andava ributtata subito dall'altra parte, e l'eventuale bellezza era costituita dalla veronica di Panatta, il gesto plastico e virtuoso che strappa l'applauso al pubblico del Foro Italico.

Una contrapposizione che vedo riproporsi anche adesso: chi si esalta per lo stile, gli sperimentalisti, i gaddiani, chi per le belle storie che toccano il cuore. Non mi interessa sapere da quale lato inclini la ragione, ma proseguire nella storia di Orvieto. Non finisce in quell'inverno nevoso, in cui Gustavo Thoeni non ce l'aveva fatta, per un soffio, a vincere la Coppa del Mondo di sci, mentre gli anni Settanta sfumavano cedendo il loro piombo a sabati sera infebbrati; le luci stroboscopiche delle discoteche non saranno state il massimo, ma preferibili al lampeggiante blu sopra al blindato della Celere. Devono passare altri tre decenni.

Posso solo immaginarlo nel presentarsi di fronte all'armeria gestita dai genitori dell'Acquistapace, ormai Orvieto è un uomo di mezza età. È lei ad avermelo raccontato, sono state di nuovo le parole scritte a farci ritrovare, non c'eravamo più visti da allora, ma andrei fuori tema se spiegassi tutto per filo e per segno. Basta un'ellissi. Nel salutarci con un bacino sulla guancia mi sono accorto che odorava sempre di marzapane.

Orvieto prima si guarda in giro, legge bene l’insegna, esita… Poi entra nel negozio, continua l'Acquistapace, e posa un fucile sul bancone. È avvolto nella carta marroncina come fanno nei film americani con la bottiglia del whisky.

– Posso lasciarlo qui? – chiede l’uomo dai capelli ancora folti e crespi, solo un poco ingrigiti.

– Mi dispiace, non trattiamo armi usate – risponde la madre dell’Acquistapace.

Poi però lo scarta, soppesa il calcio in legno di ontano, verifica se siano presenti graffi sulle due canne sovrapposte, controlla che non ci siano munizioni inserite prima di scorrere le dita sul cane, quindi preme con delicatezza il grilletto: – Comunque sembra in buono stato, può farci ancora qualche centinaio di euro.

– Mi scusi, c'è un equivoco. Non sono qui per i soldi: mi basta liberarmene, non voglio più vedere questo fucile!

– Non capisco...

– Ero compagno di scuola di sua figlia, me la saluti, a proposito, mi chiamo Orvieto. Lo consideri un regalo.

Tocca ora fare una pausa e ricordarsi del tema delle medie. Il padre che tossisce nella camera accanto, i calli sulle mani a cui non basta il sapone di Marsiglia per recuperare candore, adesso stringono la tazza con il brodo di verdura cucinato dal figlio. Amore, diciamolo pure senza girarci attorno.

Show, don't tell insegnano nei corsi di scrittura. E noi invece lo diciamo, non vogliamo mica essere i primi della classe, dei sotuttoio come l'Acquistapace. Piuttosto degli Orvieto, persone che si barcamenano tra concetti spesso troppo difficili per loro – la crisi climatica, il PNNR, la geopolitica – ma almeno una cosa l'hanno imparata, anzi lui la possedeva al massimo grado e senza bisogno di studio. La capacità di percepire la vita dentro le cose.

– Con questo fucile – conclude Orvieto –, mio padre la settimana scorsa si è sparato.

mercoledì 28 agosto 2024

Quasi tutti

Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. È da anni che mi risuona questa frase – il vuoto lasciato dall’uomo è grande, a noi rimane lo scrittore. L'abilità di sintesi ne conferma la maestria, basterebbe il commiato: è difficile ottenere una resa estetica migliore, il botto finale dei fuochi d’artificio che lascia i bimbi con la bocca spalancata, o il coniglio bianco nel preciso momento in cui esce dal cilindro. Ma quando c’è un mago abbiamo imparato esserci anche un trucco. Forse l’inghippo sta nel doppio complemento: tutti. Come si fa a perdonare tutti, tutti tutti dico, ci sarà pure qualcuno che te l’ha fatta grossa, e non riesci a mandare giù?

La storia linguistica del termine sembra confermare i sospetti, accoppiando la particella intensiva per con il verbo donare, qui sostantivizzato. E se qualcuno non provasse interesse al mio dono, mi chiedo, come quando regaliamo una pipa a chi ha smesso di fumare? C’è inoltre una disposizione asimmetrica nel perdono, concessiva – un SUV ti tampona, tu scendi e rivolto al conducente: “Oh tapino, va’ va’… ti perdono!” Se alla guida trovi Ibrahimovic, due schiaffoni non te li leva nessuno.

L’asimmetria viene ribaltata di prospettiva nella domanda di perdono: chi lo richiede (una richiesta che spesso prende il nome di supplica) viene immaginato a un livello più basso, siamo totalmente ipotecati dal dono che l’altro ha da offrirci – se vuole sarà lui, o lei, ad alzare il pollice alla maniera degli imperatori romani; la richiesta è arrischiata, il dito potrebbe anche volgere verso il basso. Non è questo il caso di Pavese, lo scrittore di Santo Stefano Belbo offre e, a un tempo, si dispone a ricevere il suo perdono già dall’altrove dei morti, dove non è presente alcuna geometria spaziale: si è finalmente fatti a immagine e somiglianza del Padre.

Eppure, anche il Dio di Abramo, quando questi prova contrattare il numero di giusti presenti nella città di Sodoma – si inizia con cinquanta, poi si scende a quarantacinque, quaranta, trenta, venti… – alla fine si ferma a dieci, dieci giusti. Altrimenti spacco tutto, come in effetti poi fa. Il suo non è dunque un perdono incondizionato, non facciamoci fregare dal titolo di un vecchio film con Bud Spencer e Terence Hill: Dio perdona, io no. Dio perdona quasi tutti, non tutti. E così qualche sassolino dalla scarpa possiamo levarcelo pure noi.

domenica 28 gennaio 2024

Un uomo e una donna

Trovo il volto di quest'uomo di una struggente disperata bellezza. Se fossi stato una giovane donna e avessi vissuto a Ostrava a cavallo del millennio, avrei cercato di consolarlo, di amarlo, chi se ne frega se lui avrebbe o meno amato me. Noi donne immaginarie siamo fatte così, come le eroine romantiche che si trovano nelle pagine dei romanzi. Lui, Jan Balabán, di romanzi ne ha scritti un paio, entrambi notevolissimi, più svariate raccolte di racconti. Con la letteratura ceca sembra non avere niente in comune: tanto abili sono i suoi colleghi in ariose ironiche digressioni, tanto lui è determinato nell'andare dritto al punto. Si muore, questo il punto, che non si trasforma mai in due punti, principio di una nuova frase della vita. Ogni respiro contiene così quell'ipoteca finale, continuata a sondare con le sue parole non meno che con il suo volto, il corpo massiccio, da metalmeccanico, quasi un ossimoro rispetto a una sensibilità accesa e rarefatta. Fare cambiare idea a un uomo così è difficile, ma la donna che non sono ci avrebbe comunque provato, sapendo che l'amicizia tra maschi non risana certe ferite: "Dai Jan, andiamo a farci due birre" gli avrei detto, "due caraffe belle grandi con molta schiuma. Poi lasciamola depositare sulle labbra come i baffi di Babbo Natale, prima di baciarci mescolando barba e saliva." Lui forse avrebbe piegato le labbra in qualcosa che ricorda un sorriso, ma il taglio degli occhi sarebbe rimasto rivolto verso il basso, verso terra, verso la terra da cui viene e ritorna il figlio dell'uomo. Non sappiamo se davvero si sia tolto la vita come si mormora, certo è che era il 23 aprile del 2010, il giorno in cui Lubiana diventava capitale mondiale del libro e a Dubai veniva inaugurato il grattacielo più alto del mondo. Aveva quarantanove anni.

giovedì 14 dicembre 2023

Orvieto, a true sentimental story

Alle scuole medie avevo un compagno di classe che si chiamava Orvieto, come la città. È passato talmente tanto tempo che ricordo solo il cognome e il cespuglio nero e crespo dei capelli, spiccava nella fila dei banchi alla mia sinistra, verso i finestroni da cui si scorgeva il cubo di cemento della palestra e più dietro l'arco dell'Adamello dalle cime innevate fino a tarda primavera.

Il suo anonimato si rifletteva negli studi, in cui non brillava di certo, ma nemmeno collezionava note sul registro come me. Una via di mezzo, una media leggermente al ribasso, con tutte le premesse per diventare un uomo altrettanto medio, abbozzi di vita in cui la cornice si ingoia piano piano il ritratto. O perlomeno così appariva, e questa è una storia che mi ha insegnato a diffidare delle apparenze.

In ogni caso, quella brava era l'Acquistapace. Piccolina, occhi azzurri, capelli lunghi e lisci e biondi. Talmente bella che l'avrei posata nel muschio del presepe al posto della Madonna. Di lei naturalmente ricordo tutto, tra cui il nome, Simona, e l'odore di marzapane che emanava quando si alzava per andare alla cattedra a ritirare il suo tema, dopo che la professoressa Cozzini ne aveva letto uno stralcio.

Trascorsi pochi giorni dal compito in classe di italiano, era una prassi a cui avevamo preso l'abitudine: sia la lettura di qualche passaggio dal tema con il voto più alto, sia che quel tema appartenesse all'Acquistapace. Fu dunque grande lo stupore, una mattina in cui il sole tardava a manifestarsi e l'Adamello era più innevato del solito, nel non sentire leggere il solito tema dell'Acquistapace, ma per intero quello di Orvieto. Titolo: Parla di tuo padre.

A un certo punto la Cozzini si commosse pure un po'. Fu quando, con parole semplici e sentite, Orvieto descriveva il ritorno dal Belgio del padre, dopo anni in miniera. La gratitudine per quest'uomo che sentiva tossire nel letto, la silicosi come forma concreta dell'affetto di un padre per il figlio, che lo ricambiava con l'uguale concretezza dell'inchiostro.

Non sto dicendo che fosse un capolavoro, ma per la prima volta intuivo la differenza tra sentimento e sentimentalismo. Se i miei temi erano pieni di sarcasmo per sfuggire la trappola del glucosio in forma verbale – avevo una fama da bullo da mantenere –, non la grande letteratura ma il tema di Orvieto mi mostrava ora il mondo da una prospettiva diversa: essere porosi, assorbire, non avere fretta di restituire l'esperienza. Il sentimento somiglia piuttosto a un alambicco, che dalle cose distilla lentamente una goccia preziosa, possiamo anche chiamarla lacrima.

Ecco, quella era una possibilità che non avevo considerato, come nello stesso periodo il triangolo cantato da Renato Zero. Per me scrivere era invece una partita a tennis, la pallina andava ributtata subito dall'altra parte, e l'eventuale bellezza era costituita dalla veronica di Panatta, il gesto plastico e virtuoso che strappa l'applauso al pubblico del Foro italico.

Una contrapposizione che vedo riproporsi anche adesso: chi si esalta per lo stile, gli sperimentalisti, i gaddiani, chi per le belle storie che toccano il cuore. Quella di Orvieto non finisce in quell'inverno lontano, gli anni Settanta che sfumano e cedono il loro piombo ai sabati sera infebbrati, ero riuscito a vedere la pellicola con John Travolta anche se non avevo ancora compiuto i quattordici anni richiesti. Devono passare altri tre decenni.

Posso solo immaginarlo quando si presenta di fronte all'armeria gestita dai genitori dell'Acquistapace, ormai è un uomo di mezza età. È lei ad avermelo raccontato, dopo lo stesso periodo di tempo in cui neppure noi ci siamo visti, sono state di nuovo le parole scritte a farci ritrovare, questa volta da me. Nel salutarci con un bacino sulla guancia mi sono accorto che odorava sempre di marzapane.

Orvieto prima si guarda in giro, legge bene l’insegna, esita. Poi entra nel negozio, continua l'Acquistapace, e posa un fucile sul bancone. È avvolto nella carta marroncina come fanno nei film americani con la bottiglia di whisky.

– Posso lasciarlo qui? – chiede Orvieto alla madre dell'Acquistapace.

– Mi dispiace, non trattiamo armi usate – risponde lei.

Poi però lo scarta, soppesa il calcio in legno di ontano controllando che non ci siano graffi, scorre le dita sul cane, verifica che la sicura sia inserita e preme leggermente il grilletto: – Comunque sembra in buono stato, può farci ancora qualche centinaio di euro.

– Mi scusi, c'è un equivoco. Non sono qui per i soldi: mi basta liberarmene, non voglio più vedere questo fucile!

– Non capisco...

– Ero compagno di scuola di sua figlia. Me la saluti, a proposito, quando la sente. Lo consideri un regalo.

Tocca ora fare una pausa e ricordarsi del tema delle medie. Il padre che tossisce, la silicosi, fatica e dignità nel campare una famiglia, la propria famiglia. Amore, diciamolo pure senza girarci attorno. Show don't tell insegnano nei corsi di scrittura. E noi invece lo diciamo, non vogliamo mica essere i primi della classe, dei sotuttoio come l'Acquistapace. Piuttosto degli Orvieto, persone che si barcamenano tra concetti spesso troppo difficili per loro – la crisi climatica, il PNNR, la geopolitica – ma almeno una cosa l'hanno imparata, anzi lui la possedeva al massimo grado e senza bisogno di studio. I sentimenti.

– Con questo fucile – conclude Orvieto –, mio padre la settimana scorsa si è sparato.

domenica 19 novembre 2023

Relax

 

Una quindicina di anni fa si è suicidata la madre di un mio amico gettandosi nell'Adda, là dove il fiume si biforca prima del ponte che collega Sondrio ad Albosaggia. Aveva perso un figlio, Federico, il mio amico, in un incidente stradale. Da allora viveva in uno stato di dolente torpore, intervallato dai rari soprassalti che, al risveglio, le procurava l'ascolto dei nastri registrati mentre la dose notturna dei sonniferi faceva effetto, e in cui le pareva di riconoscere la voce di Federico. È questo il modo che hanno i morti di comunicare con noi, le aveva detto qualcuno.

Avrei dovuto essere in auto con lui quella notte del 1987, ma mi stavo annoiando al Vogue, la discoteca dove eravamo andati a bere un paio di Gin Tonic e vedere se riuscivamo a rimorchiare; peccato che le ragazze fossero già tutte accompagnate, nemmeno tanto belle a dirla tutta. Giudizio che, allora, si poteva pronunciare senza decorosi eufemismi, in una disposizione non troppo diversa dalla sosta di fronte alle vetrine dei negozi del centro. In quei momenti la forma è già sostanza, e a smontare il giocattolo il più delle volte si resta delusi. Poco male se, a nostra volta, finivamo con l'essere inclusi nella cornucopia degli anni Ottanta, dove l'occhio che ti scruta somiglia alla paletta dei giurati di Miss Italia.

Nonostante la base elettronica di Relax, la mia canzone preferita, stesse subentrando alla coda di It's a Sin dei Pet Shop Boys, ho così approfittato del passaggio offerto da un tizio robusto col ciuffo; quando gli cascava sui Ray-Ban lo ricacciava in alto soffiando con il labbro posto a balconcino, in un gesto che era poi diventato un tic. Potevi riconoscerlo perfino di spalle, magari mentre al bar giocavi a Pac-Land, versione aggiornata e peggiorata di Pac-Man, dal suono sibilato dell'aria che mitragliava ciuffi ormai del tutto ipotetici. Ciao Piero, gli dicevi senza girarti

Era infatti anche lui un amico, ma di quelli che vedi raramente e il più del tempo lo passi a dare e ricevere pacche sulle spalle, riproponendosi uscite poi sempre rimandate. Mentre declinavo il timbro sulla mano con cui il buttafuori  voleva marcarmi (no, non rientro) prima di varcare in senso inverso il portoncino blindato posto all'ingresso del Vogue, giusto il tempo di ascoltare: relax, don't do it / when you wanna go do it / relax, don't do it / when you wanna come...

Il giorno in cui la madre del mio primo amico ha fatto ciò che ha fatto, un terzo amico, appena terminato il lavoro, l'ha incrociata per strada. Il suo ufficio sta a un centinaio di metri dal ponte, l'acqua che scorre di sotto era quella gelida e scura dei mesi invernali, e a posteriori abbiamo intuito dove la donna fosse diretta. Pedalava con foga su una bicicletta di tipo Graziella, lo sguardo acceso fissato su un punto che vedeva solamente lei, esercitando la stessa attrazione della calamita con la limatura del ferro. Sembrava, come dire... e qui il mio amico ha un momento di esitazione – massì: sembrava finalmente felice.

Quel tipo di felicità di cui oggi colgo un prenatalizio bagliore. Lo sbaglio era stato nel collocarla all'inizio, nell'età dell'oro, nel tempo lieto delle felpe Stone Island e delle Vespe PX con l'adesivo di Radio Studio 105, dei Frankie Goes to Hollywood con la loro Relax. Invece stava alla fine, nel tempo della limatura del ferro, già si intravedono le prime tracce di ruggine. Dai Guido, una piccola pedalata ancora, il fiume è paziente, sa aspettare. Non come una madre che conta i minuti nell'attesa notturna del figlio, ma come fa il figlio con la madre. Basta cambiare solo una piccola parola nel refrain: relax, then do it...

venerdì 23 giugno 2023

Angeli


Dopo gli anni delle elementari spesi a rincorrere un pallone in campetti da calcio defilati e spontanei (la differenza con i campi veri è che quando arrivava il proprietario del prato dovevi scappare via, afferrando i maglioni appallottolati a simbolizzare i pali della porta) e un tentativo poco convinto nella Sondrio Sportiva di nuoto, lo sport a cui mi dedicai fu la pallacanestro.

Una delle attività più faticose in assoluto, non ci sono tempi morti, avanti, indietro, difesa, attacco. I ruoli si invertono di continuo senza lasciare ai polmoni il tempo di acquietarsi, mentre il cuore batte il suo tamburo come il batterista di un gruppo hard rock. Forse solo le tappe alpine del Giro d'Italia riescono a suonare una musica più forsennata. Lo strusciare fighetto del charleston è estraneo alla pallacanestro e al ciclismo, quelle sono finezze jazz da sport come il curling o il tiro con l'arco, fino ad arrivare al minimalismo bradicardico del Subbuteo.

Una fatica e un ritmo che facevano tutt'uno con l'energia dell'adolescenza, e non venivano avvertiti come costo ma come remunerazione, sfogo, piacere. Il basket davvero è un gioco e in ciò mantiene quel che promette. Sei o sette anni, divertentissimi, trascorsi in braghette di raso; per la precisione ero guardia destra della Sondrio Sportiva di basket, sempre lei. D'altronde, altre società sportive nel paese dove sono nato non ce n'erano, e lo sponsor ci aveva fornito una divisa particolarmente graziosa: bianca come il latte di cui era il principale produttore, ma solcata da righine verticali blu, quasi un gessato. Non ho mai capito cosa stessero a significare. Forse la strada dritta segnata sulle mappe – l'unica strada, la statele 36 – da imboccare per scappare via da una valle stretta e lunga, sempre scappare anche quando non arriva il proprietario del prato.

Se potessi tornare indietro, non ripeterei però la scelta per lo sport che mi ha fatto da specchio in gioventù; contro la Forti e Liberi di Monza vinsi addirittura il titolo di best scorer of the match, una formula pomposa per indicare chi infila più volte la palla nel canestro. Ma intanto (e come sempre) ci avevano messi sotto di una ventina di punti. Ogni sport restituisce un'idea di mondo implicita, e in quella del basket non mi ci sono mai riconosciuto completamente: troppo americana, troppo yeah dammi il cinque fratello. Se lo dicevano giovani uomini enormi nelle palestre di Springfield, Massachusetts, dove tutto è cominciato.

Sceglierei adesso di dedicarmi ai tuffi, ma ci sarebbe dovuto essere perlomeno un trampolino nella piscina che si trova proprio a trenta metri da casa mia – per la Sondrio Sportiva un inutile orpello, bastavano e avanzavano i blocchi di partenza in cemento grezzo per le gare di nuoto.

Poco male, mi sarei spostato a Morbegno, come ogni tanto già facevo. Venticinque chilometri di distanza e diciotto minuti se il treno è un diretto, quasi mezz'ora se locale. Altre volte ci andavo con il pulmino della Sondrio Sportiva, un Ford Transit verdino da nove posti; dunque potevamo portare solo tre riserve, l'allenatore faceva anche da autista e massaggiatore. Di fatto era un derby. Il capoluogo, noi, contro la seconda città per abitanti della Valtellina, ma prima per economia. A basket erano bravini, ce la giocavamo all'ultimo canestro, per quanto avessero in formazione un quindicenne che già misurava un metro e novantatré. Bisogna riconoscere che hanno sempre pensando più in grande: non crescevano bambini, ma giganti come a Springfield.

Dallo stesso spirito, think bigger, che nel dialetto locale diventava fa' 'l ganassa, veniva forse la presenza del trampolino nella loro piscina: tre metri soltanto, ma a cinque già inizio a provare vertigini. Scendevo dal predellino del treno, salivo sulla scaletta in acciaio del trampolino (non vestito, prima passavo dagli spogliatoi e mi mettevo il costume Diana con due bande rosse laterali, la cuffia non era ancora obbligatoria, quindi spruzzavo sui piedi il disinfettante contro le verruche) e poi cominciavo a tuffarmi e rituffarmi di testa in uno stile che definivo carpiato, replicando un termine orecchiato in tivù. Quando cominciavo sentirmi un po' stordito facevo il percorso a ritroso: spruzzata sui piedi, giù il costume e su le mutande, jeans Fiorucci, t-shirt Fruit of the Loom, Converse All Star, treno per Sondrio e allenamento serale di basket.

Giocavo a basket continuando a pensare ai tuffi. Diversamente dagli altri sport, i tuffi non si propongono come metafora della vita reale, ma di quella possibile, sono il riflesso di un'utopia. Il tuffo perfetto non è infatti costituito dal coordinamento millimetrico di ogni parte del corpo in aria, unito all'assenza di spruzzi nell'impatto con l'acqua determina il voto impresso sulla paletta dei giudici. Tutto ciò è difficilissimo ma ancora non basta, quando io non ho mai saputo se le mie gambe si piegassero leggermente, compromettendo la freccia degli arti tesi nel perforare il bersaglio, come vedevo fare a un ciccione scomposto che si alternava al trampolino con me, e prima di lanciarsi in acqua emetteva un urlaccio. Il tuffo perfetto, qual è allora il tuffo perfetto?

Me lo chiedevo osservando gli altri nuotare dall'estremo limite prima del vuoto; non consideravano l'ipotesi che avrei potuto cascargli sulla schiena, peggio ancora se fosse stato il ciccione, che se non altro veniva anticipato dall’urlo. Ognuno sembrava fare mondo a sé, pesci in un acquario che solcano l'acqua senza preoccupazioni. L'unica cura del nuotatore è quella rivolta alla sincronia tra inspirazione ed espirazione, da eseguire in movimenti esatti, sempre uguali. Prima la torsione del collo, faccia fuori, aria dentro, collo riallineato e faccia sotto a saggiare il gusto del cloro, mentre l'aria fuoriesce da dove è entrata. D'altronde anche il tuffatore si sente sempre da un'altra parte, in un limbo tra cielo terra; una terra solo un poco più liquida, ma non cambia molto. Il tuffo perfetto, di nuovo: qual è il tuffo perfetto?

È il volo, ecco la risposta che alla fine e dopo molti anni mi sono dato. Ogni tuffo è un decollo. E anche il sublime Greg Louganis, il più grande tuffatore della storia, o perlomeno per la mia generazione, nello sprofondare nell'acqua tiepida di una piscina olimpica scontava un fallimento. Tutti in piedi ad applaudire, ma lui sapeva di avere fallito. La direzione di marcia nella sua testa avrebbe dovuto essere un'altra.

Come quell'angelo che sente di essere, il tuffatore sogna – io almeno continuo a sognarlo – di prendere slancio dalla flessuosità del trampolino e poi salire in alto, ancora più in alto, non basta, il tuffatore continua nella propria ascesa, ma quanto cavolo di energia cinetica ha incorporato pensano i nuotatori, per una volta distratti da qualcosa che non sia la conta del numero delle vasche. Quindi si fermano. Tolgono gli occhialini. Osservano il corpo del tuffatore che esce da finestroni fortunatamente lasciati aperti, e si dirige verso cirri sfilacciati. In culo alla legge di gravità!

Lo stesso destino della donna cannone cantata da Francesco De Gregori, seguendo il suo esempio, quando avessi realizzato il mio tuffo perfetto, non sarei stato richiamato dalla voce della terra, torna giù non fare il pirla! Avrei continuato a volare, di questo sono certo. Volato in cielo in carne e ossa, e senza fame e senza sete, e senza ali e senza rete...

O magari le ali ci sono e nessuno le vede, nascoste sotto felpe dei Los Angeles Lakers e camicie hawaiane e lupetti neri da esistenzialista corrucciato. Voi fate un po' quel che vi pare pensa il tuffatore, riprendete pure a nuotare che fa bene alla salute e corregge la scoliosi, ma io adesso volo via, seguendo leggi fisiche diverse da quelle che stanno scritte sui libri. Tenetevi lo stile libero, il dorso, la rana e pure il delfino. Il basket non era male ma tenetevi pure quello, assieme al curling e al tiro con l'arco, il ciclismo, le partitelle a calcio con i maglioni appallottolati al posto dei pali, il contadino che ti rincorre, ragazzini andate via e non tornate mai più, mi rovinate l'erba! Il Subbuteo, se riuscite a ritrovarlo in qualche mercatino dell'usato, è il bonus del venditore di pentole. Tenetevi tutto, ciao!

Ma allora i tuffi, oltre al volo e all'utopia, sono quanto di più simile al suicidio, e viceversa. In fondo anche il suicida è un angelo mancato, sa di avere ali nascoste, poco importa che il capannello di persone adunate attorno al suo corpo schiantato al suolo continuino a non vederle. Si concentrano sul fiotto di sangue che esce dall'orecchio destro, a intermittenza, e si espande sui cubetti di porfido striato, la chiazza si allarga a disegnare una di quelle figure che gli psicologi ti mettono davanti e poi chiedono: Cosa vede? Una fica enorme viene voglia di rispondergli, ma solo per farli contenti.

Poverino dice intanto l'unica che riesce a parlare, in genere è sempre una donna, gli uomini stanno chiamando l'ambulanza con gli smartphone, vince chi prende la linea per primo. Poverino ripete la donna. Deve essere una delle prime parole italiane che ha imparato, poi aggiunge qualcosa in ucraino che nessuno comprende, forse si tratta del frammento di una preghiera ortodossa. Meglio pulire subito le fa eco un'altra donna con accento valtellinese. Quando si rapprende il sangue è difficile da lavare, ci vogliono dei detersivi speciali che costano più degli altri.

sabato 27 maggio 2023

Dopo

Da quando è subentrato un desiderio del dopo, ho cominciato a provare le vertigini. Prima non ne avevo mai sofferto. È una vocina, il mio desiderio del dopo, che sussurra all'orecchio con il tono di chi racconta pettegolezzi, ogni giorno sempre più pettegolezzi a sfondo sessuale: quello c'ha le corna, deve abbassare la testa quando passa dalle porte, lo sai, vero, come la moglie ha fatto carriera... Di notte la vocina si moltiplica in un coro di sconcezze senza ritegno. Finita anche l'ultima serie su Netflix e spento il televisore posato davanti al letto, nel dormiveglia il desiderio si precisa. Vedo il mio corpo afferrato da una forza che sono e non sono io, lo solleva da terra come fosse leggerissimo, quindi lo scaglia nel vuoto successivo a uno strapiombo, dove sosta per un tempo che mi appare irragionevolmente lungo. Il corpo che porta il mio nome non è però spaventato, semmai possiede quello spregio verso la gravitazione di Willy Coyote: per l'ennesima volta ha pasticciato con la dinamite, ed è rimasto sospeso sul cornicione di un canyon. È solo dopo, quando realizza che canyon e cornicione sono ormai definitivamente separati, che comincia a precipitare, e con lui precipito anch'io. Ma qualcuno, evidentemente non coincide con me, si è intrufolato da clandestino nella stiva del mio desiderio, e continua a vedere anche dopo, sempre dopo. Forse si tratta dello spettatore di una sequenza cinematografica girata con il dolly che si abbassa lentamente, fino sondare nel dettaglio i brani carnali sparsi al suolo – la rotula che esce dal ginocchio, lo sterno fratturato, i denti, quanti denti da frantumare ci stanno dentro una bocca? – disarticolati su una superficie da immaginare la più dura possibile. Meglio sarebbero cubetti di porfido maculati, vengono accostati stretti stretti come fanno i giocatori di basket prima di entrare in campo, e quando si sciolgono lanciano un urlo che non si capisce mai cosa dicono. Quando giocavo a pallacanestro mi inventavo ogni volta parole diverse, cuccuruccucu, ahpperò, ciapalchelghè, bastava pronunciare velocemente e mettere l'accento sull'ultima vocale. Oppure schiantarsi su bitume raffreddato dall'inverno  non gli inverni miti di adesso, ma quelli in cui si contavano i giorni che mancano a Natale. Il sangue, dopo qualche ora dall'impatto, si raggruma, ed è difficile da lavare, ci vogliono detersivi speciali e olio di gomito mal remunerato – guarda che lavori mi tocca fare… pensa la donna ucraina delle pulizie. Non è diverso dal sangue di un gatto malaccorto nel traversare la strada (il proprietario del SUV scende per vedere se la carrozzeria si è ammaccata) o un piccione colpito da un monello con la fionda, bel colpo gli dice l'amico con i capelli rossi e le lentiggini. A terra lo stesso corpo, gli stessi abiti perfino: la felpa color carta da zucchero con la cerniera da sostituire, i jeans diventati troppo larghi per via di un continuo dimagrimento, la t-shirt con la scritta "ricerco un bene / fuori di me / non so chi 'l tiene / non so cos'è"... Massì, sono proprio io, mentre mi affaccio sul balconcino al quarto piano dove vivo da sempre, ma subito dopo mi ritiro scosso da quei capogiri che dicono induca un eccesso di bellezza. È forse per questo che la sposa si aggrappa al braccio che le porge l'orgoglio di un padre: non per le foto ricordo da inserire in una cornice d'argento, ma per rimanere ritta nell'approssimarsi all'altare, evitando di afflosciarsi nella navata dove sostano le bare durante i funerali, mostrando a tutti le mutande. Un destino di obliquità che ho incontrato per la prima volta a otto anni, e giunto senza neppure affanno alla cima, dopo i proverbiali 294 gradini, salutavo la zia con un fazzoletto bianco come avevo visto fare da un giapponese; ricambiava, piccola piccola, da sotto il gesto la moglie, che non era voluta salire sulla Torre. Vai tu deve avergli detto in una lingua tutta spigoli e gargarismi, io devo fare la pipì, ci rivediamo dopo. Intanto la zia mi strillava Allontanati, allontanati!, ma delle sue parole mi arrivava solo lo sbracciarsi con cui le accompagnava, che interpretavo in forma di saluto e continuavo ad agitare il fazzoletto. Si rivolgeva allora allo zio: Franco, tira via il bambino da lì, si sta sporgendo troppo, e poi si copriva gli occhi per non guardare quello che avrebbe potuto accadere dopo. Io ridevo della sua paura delle altezze, che l'aveva fatta rimanere, senza nemmeno la scusa di una pipì, ad aspettarci sul prato di un verde innaturale, chimico, di Piazza dei Miracoli, tra la moglie del giapponese, un uomo grasso in camicia hawaiana che leccava un enorme cono di gelato, tre paracadutisti dal passo sincronizzato come cavalli viennesi e una comitiva di suore, si scambiavano con una specie di inchino una bottiglietta di Oransoda da bere a canna. La zia nel frattempo aveva riaperto gli occhi. Chissà se anche lei, in una sua parte sommersa, desiderava ciò che in superficie al contrario tutti temiamo, alla maniera dei tennisti che fanno doppio fallo arrivati al match point. Tra vincere subito e perdere dopo, non è infrequente la seconda scelta. E comunque se e quando sarà, non mi infilerò un Tampax nel buco del culo come ha fatto Mishima, per evitare la poco marziale fuoriuscita dell'ultimo fiotto di merda.

giovedì 8 dicembre 2022

Dirupi

Una cugina di mio nonno paterno, negli anni Trenta del secolo scorso, si gettò da un dirupo precipitando nel lago di Como. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Nello spensierato clima del dopoguerra, dallo stesso cornicione di rocce, nelle stesse acque gelide e scure, replicò il gesto la figlia. Anche lei morì, si suicidò come aveva fatto la madre a un'età che pure corrispondeva.

Non conosco i nomi di entrambe, la loro storia e le motivazioni che portarono a quella scelta, tanto più inquietante nella sua esatta simmetria. In famiglia non se n'è mai parlato volentieri. Tabù familiari li chiamava la psicologa e psicanalista francese Anne Ancelin Schützenberger, che ha fondato una disciplina – la psicogenealogia, sembra uno scioglilingua – nella quale vengono indagati i comportamenti familiari ricorsivi, copioni occulti a cui non basta una sola messa in scena.

Ciò che da lei ha ricevuto battesimo, oltre a un robusto supporto casistico, rientra nell'intuizione di molte tradizioni precedenti, anche spirituali. In fondo, quando Gesù esorta a lasciare la famiglia per seguirlo, di più, a odiarla, dice qualcosa di simile: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo.” (Luca 14:26.)

Conosco il passaggio evangelico solamente in traduzione, non so dunque quale sia il verbo greco con cui viene espresso l'odio nel testo – forse στυγέω, oppure μῑσέω... Mi si potrebbe rispondere: vai a cercartelo e non rompere le scatole. È vero, è quello che dovrei fare. Ma temo la verifica. Preferisco credere a un errore di traduzione, o a una vigliacca interpolazione successiva di cui sono colme le Scritture.

L'odio è infatti la forma di legame più forte, non scioglie ma incatena; addirittura, delle catene, rappresenta una malattia, come la chiamava Nietzsche. Il suo radicale anticristianesimo troverebbe così un'inaspettata convergenza con le parole di questo mio Gesù personale, ognuno ne possiede uno, lo cantavano i Depeche Mode. Per non ricalcare gli stessi passi degli antenati, compreso quelli che conducono al fondo di un lago, non basta destituirne il magistero, ma bisogna liberarsi dalle catene dell'odio che a loro continua a ricondurre, è speculare ai nastri rosa e azzurri dell'amore. Solo a tale condizione può realizzarsi l'invito del filosofo a diventare ciò che si è.

Un esito curiosamente simile a quello del Regno evangelico, che, secondo Jung, coincide con il proprio sé più profondo, e non con il paese bello e spazioso in cui scorrono fiumi di latte e miele – in realtà, in Esodo 3:8, i fiumi sono di mestruo e sperma; è anche questo un errore di traduzione dall'ebraico, un abbellimento frutto della leziosa sensibilità alessandrina che ha dato forma alla versione della Bibbia dei Settanta. Gli ebrei erano gente più schietta, con i piedi e le metafore ben piantati a terra.

Una divergenza linguistica che mi fa sentire libero di ritradurre la buona novella. Basta con l'odio, con le catene, con i sentieri familiari da ripetere passo a passo. Le colpe dei padri non solo ricadono sui figli fino alla terza e alla quarta generazione, ma li fanno a loro immagine e somiglianza. Chi è senza peccato non scagli la prima pietra, ma butti via lo specchio adulterato di vecchie fotografie, battesimi, matrimoni, in cui il posto a tavola che ci spetta è già disposto anche se non eravamo ancora nati. Diventiamo piuttosto ciò che siamo, offrendo parole nuove a vecchie storie.

Un altro filosofo, brusco e idiosincratico quanto Nietzsche, suggeriva che i confini del nostro linguaggio rappresentano i confini del nostro mondo. E chissà che la mia lontana biscugina, se avesse posseduto parole diverse dalla madre, parole sue, non avrebbe costruito una diversa narrazione; soprattutto nel finale, in cui ci si gioca gli applausi del pubblico. Ma quale pubblico, avrebbe ad esempio potuto dire. Io sono io, non la famiglia che osserva il mio corpo sprofondare, le sottovesti candide dischiudersi come danza rallentata di medusa.

Non mi sostituisco a lei nell'immaginare una biografia alternativa, la ricordo come ha voluto essere ricordata: con un tragico colpo di teatro. Ma questa minima vicenda privata mi consegna un avvertimento più generale. Non lasciamoci, noi pure, sostituire dalle madri, dai padri, nonni, perfino da quella parentela più estesa che si chiama nazione, da Putin e Xi Jinping e tutte le bandiere da onorare sull'attenti, nell'immaginare dirupi per noi!

sabato 12 novembre 2022

Il suicidio come fattore politico

Una persona che conoscevo si è gettata la settimana scorsa dalla finestra della camera d’ospedale in cui era ricoverata per esami, ed è morta.

Si trattava di un uomo di tre o quattro anni più vecchio di me, sono in buoni rapporti con il fratello – alla domanda come va risponde sempre "Splendidamente!" – ma con cui lui credo di non avere mai parlato, salvo salutarci ogni volta che ci incrociavamo per strada; cosa che avviene spesso in un piccolo paese di provincia. Non so quale fosse la ragione per cui stesse facendo degli accertamenti, mi hanno riferito alcuni pettegolezzi clinici sul suo conto che naturalmente non riporterò. Ma c'è qualcosa che mi preme aggiungere a una notizia già in sé tristissima.

Dopo questo episodio ho infatti deciso di iscrivermi all’associazione Luca Coscioni, con sede in Italia, e alla svizzera Dignitas, entrambe impegnate nell’aiuto alla persone che per ragioni serie e accertate hanno deciso di interrompere la loro vita.

NON è un’istigazione al suicidio, sia ben chiaro. Parlo unicamente a titolo personale. E l’aspetto collettivo che pure c’è – altrimenti non pubblicherei un post su Facebook – ha natura opposta a ciò che potrebbe apparire a una lettura distratta: vorrei che nessuno compisse più il gesto del mio conoscente, vorrei non dover più sentire di corpi che giacciono al suolo dopo essersi lanciati da una finestra.

Ma ci sono anche condizioni di vita obiettivamente inaccettabili. La mia è una di queste. Mi alzo al mattino sperando solo che arrivi di nuovo e presto la notte. Una notte senza risveglio, da fare seguire a una veglia più funebre della stessa morte, ha così finito con l’apparirmi il male minore.

Suggeriva un filosofo antico: pensate a come vi sentivate prima di nascere, prima ancora di essere concepiti, su, concentratevi e rendete presente quel momento... Allora, come state? Non malaccio, dai.

Ecco, la morte è quella cosa lì: un prima che viene dopo. Ed è a volte preferibile all’adesso.

Dicono che le persone del segno dell’ariete siano un poco ingenue, diciamo pure naif, ma possiedano una tenace vocazione a perseguire la verità. Mi sono sempre disinteressato di astrologia, ma, da ariete ascendente cancro, la trovo un’approssimativa fotografia che mi ritrae. Una verità politica, civile, beninteso, per cui ora ho deciso di impegnarmi: uscire da questa vita senza doversi lanciare dalla finestra. Non pensiamo dunque che sia "una questione privata", come quella del partigiano narrato da Fenoglio. È una questione che riguarda tutti.

Io almeno non lo farò. Nessuna finestra, cappio, gas di scarico dell’automobile (prima sincerarsi bene che non sia elettrica!) o fucile da infilarsi in bocca, come fece Hemingway, e poi premere il grilletto. Ma non intendo nemmeno permettere al male di sostituirsi alla vita. 

Purtroppo male e vita spesso finiscono col coincidere. È capitato a me, negli ultimi dieci anni, forse anche qualcosa di più. Capita a milioni di persone. La medicina rappresenta un tentativo, spesso efficace, per disgiungerle nuovamente, e non ho ancora smesso di sperimentare ogni mezzo per stare meglio. Ed è forse superfluo aggiungere che è quanto consiglio a tutti: valutare ogni alternativa, tentare anche le soluzioni più implausibili. 

Camus si presentò una notte a casa di un amico con un cosciotto di prosciutto. “Mangiamolo assieme” disse all’amico che si stropicciava gli occhi ancora mezzo addormentato, chiedendosi cosa ci facesse lì il grande filosofo, il premio Nobel per la letteratura, con un prosciutto! “Mangiamolo assieme” insistette Camus, “altrimenti non arrivo a mattina. Mi ammazzo prima.” Vivere, non significando nulla in sé, può significare anche un prosciutto da condividere con un amico in piena notte, per quanto forse il maiale non approverebbe.

Circoscrivendo di nuovo il discorso all'unica finestra da cui posso sporgermi senza rischiare di precipitare, ossia il mio sguardo, devo confessare che la soluzione Camus è per me impraticabile: ho smesso di mangiare carne di maiale, e i numerosi tentativi di stare meglio hanno ottenuto quale risultato il trasferimento delle mie esigue finanze a medici e psicologi. Alcuni di essi erano in buona fede, altri, inizio a sospettare, avevano le dita incrociate durante il giuramento di Ippocrate. In fondo è un gioco delle parti, per alcune persone il nostro male è la loro festa.

Esiste però anche quell’altra forma di separazione a cui accennavo: un’uscita di scena dignitosa, senza alcun messaggio simbolico (in genere punitivo, colpevolizzante) da inviare a chi resta. Secondo gli antichi gnostici il corpo rappresenta una sorta di guscio, le delizie del tuorlo sono celate al suo interno. Un’immagine che mi fa tornare alla mente quando mia nonna mi inviava in missione nei luoghi più impervi del fienile, dove le galline, da lei lasciate razzolare in libertà, deponevano le uova.

Ora le galline e la nonna non ci sono più, il fienile, insieme alla fattoria tutta, è stato venduto a un’asta fallimentare, e se anche non ci fosse più chi dice io in questo testo un po' finto e un po' vero, come tutti i testi, sono certo che non vi perdereste molto. Io invece ci guadagnerei la fine di una sottrazione quotidiana e dolorosa e implacabile, come gocce d’acqua (plinc... plinc... plinc...) che sfuggono a un rubinetto rotto. Ma la remissione di una passività, in matematica possiede comunque segno positivo.

domenica 10 luglio 2022

Rospi veri e giardini immaginari, un collaudo letterario

La letteratura, si è appena concluso il Premio Strega con il titolo assegnato a Mario Desiati e la consueta coda di polemiche. La letteratura... Marianne Moore, poetessa e scrittrice statunitense attiva nel secolo scorso, scriveva con icastica ironia: “la letteratura è fatta da rospi veri dentro a giardini immaginari”.

Come tutte le affermazioni perentorie è utile collaudarla, esponendola alla prova di un’esperienza vissuta. Prendiamo allora qualcosa che abbia carattere indubitabile di verità, nel mio caso corrisponde all’interesse per il suicidio, quando leggo su un giornale di qualcuno che si è suicidato corro subito a leggere: l’età, lo stato di salute, la biografia; quel poco che ne viene accennato, perlomeno. Ma soprattutto la procedura, e in che modo questa possa essere convertita in segno, un messaggio infilato dentro una bottiglia a cui non è prevista alcuna risposta.

Eppure anche nella morte, o più propriamente nel gesto di morire per propria scelta, è racchiuso un supplemento di vita (vita sottratta allo sguardo che si nasconde per essere scoperta, come avviene nel gioco del nascondino), se è vero almeno quanto scrive Pasolini che “morire è smettere di comunicare”. E se ci pensiamo, la comunicazione contenuta nel suicidio è massima, disperata la ricerca di un contatto con gli altri ma, anche, con parti interne e non comunicanti di sé.

La modalità di suicidio lambito dalle mie fantasie sempre più frequenti – sì, l’ho anticipato che il tema mi tocca personalmente, ne sono totalmente irretito – è quella del precipitare, lanciare il corpo dalla finestra come si faceva un tempo con le sigarette consumate, per vederlo infine e finalmente schiantare al suolo; le viscere che si diffondono sul selciato mescolandosi al sangue, la bile, i denti frantumati e la merda che esce dal buco del culo, quando gli sfinteri si allentano nel prendere concedo dalla vita. Un corpo che non è un corpo qualunque: è il mio corpo, posso vedermi nel disfacimento carnale.

Trovando quest’ultima parte poco estetica, Yukio Mishima si era infilato un tampone di cotone dentro l'ano, prima di afferrare un’affilatissima spada da samurai e premerla con forza contro i muscoli del ventre; muscoli addominali ispessiti da ore e ore di esercizi ginnici, nella speranza di resistere, in tal modo, alla modernità e convertirsi in scultura antica. Ma non ci era riuscito, e così il suicidio rituale giapponese, il seppuku, gli apparve come l'unico modo per riaffermare la sua ossessione. Era questo il rospo vero che lo abitava, di cui aveva scritto in decine di libri di finzione. Mancava solo un explicit che ne fosse all'altezza.

E invece no, mi accorgo adesso componendo il pensiero in parole, tra le tante funzioni della scrittura c'è anche quella di scoprire ciò che si pensa, prima ancora di comunicarlo ad altri. Il suicidio non conclude un bel niente, almeno nella percezione di quel suicida potenziale che sento di essere. Piuttosto dispone – illusoriamente, beninteso – a un capitolo nuovo della propria vita: un inizio, un esordio, certamente una liberazione. Questo è invece il mio, di rospo vero.

Ma ci sono anche i giardini immaginari. Nella fattispecie, quando pochi giorni fa ho scritto pubblicamente della mia fantasia di suicidio – e scrivendone diventava automaticamente fiction, mi era da subito chiaro –, ho aggiunto i fiori del campo santo per passaggi successivi, pennellate di colore che si integravano alla macchia di sangue centrale. In tal modo la scrittura si precisa in chiave narrativa attraverso una lieve dilazione, dopo averne offerto, come sempre faccio, una prima e goffa versione su Facebook – il mio modello di scrittura è l’happening musicale: pubblico di getto così come viene, buona la prima. Poi faccio l’editing ottenendo che lettori diversi abbiano esperienze diverse. Della serie, beati gli ultimi.

Ciò che è successo in seguito l’ho trovato molto interessante. I lettori della stesura originaria, chiamiamola “la brutta”, hanno in buona parte lasciato un like o un cuoricino, mostrando di apprezzare con una partecipazione nei commenti che davvero non mi aspettavo e ho avvertito come autentica (un altro rospo vero), in taluni casi mi ha commosso. Ma appena si è iniziato, nelle versioni successive, a scorgere una certa cura per la forma, il ritmo, gli accostamenti onirici tra memoria e presente, insomma una cornice narrativa che ricomponeva l'urlo sconnesso di dolore, quel testo ha immediatamente perso di interesse.

Attenzione: non sto dicendo che i miei pochi lettori abbiano torto, anzi hanno certamente ragione loro, ma mi pare che in questa preferenza per i rospi veri sui giardini immaginari sia contenuta un’istantanea più allargata della nostra epoca, a rendere ormai quasi del tutto pleonastica la letteratura così come è stata sperimentata nel passato, e cioè nella forma ibrida suggerita da Marianne Moore.

Le possibilità associative offerte dai social, a cui si accompagna l’offerta di media narrativi molto più accurati nel rimodulare l’immaginazione – cinema e televisione su tutti, ma anche videogiochi –, richiedono alla letteratura un approccio molto più osceno e immediato, un tutto e subito di sentimenti intimi come quelli esibiti da Fedez nel pubblicare gli audio delle sue sedute con uno psicologo. Il termine, ormai ampiamente datato, di autofiction, non corrisponde a questa urgenza di realtà senza tanti fronzoli e abbellimenti. E’ un’approssimazione per difetto.

Un gesto letterario pienamente compiuto e all’altezza dei nuovi tempi, sarebbe dunque stato realizzare il mio suicidio in diretta Instagram. Cosa che però non ho nessuna intenzione di fare, mi dispiace, sto comunicandovi una brutta notizia. E se un giorno darò seguito agli incitamenti del mio demone – dai, fallo, fallo, buttati... , sarà senza anticipazioni social, spoiler, ammiccamenti in direzione di camera. Sarà un suicidio vintage, ecco. In cui anche un rospo spiattellato su una strada provinciale viene ricoperto con il lenzuolo bianco del pudore.

mercoledì 6 luglio 2022

Un uccellino


Ieri notte, per pochi secondi, ho avuto chiara la sensazione che potevo farlo, non avevo più paura. Poi è tornata la paura. Non la paura della paura, come avviene negli attacchi di panico, ma la paura di quell'istante (sudaticcio stavo nel letto a seguire una serie TV); mi ha fatto pensare a quei film in cui il carcerato si accorge che la porta della cella è stata dimenticata aperta, basta tirare il catenaccio e uscire. Ma il carcerato si gira dall'altra parte e torna a stendersi sulla branda. Sono stati pochi secondi, l'ho già detto, o forse meno, la percezione del tempo era sfumata mentre tutto il resto si precisava, un unico affannato respiro le teneva assieme; affannato ma non disperato, forse perfino felice. A comprendere ogni cosa era infatti una sensazione, quasi euforica, di bellezza, della specie particolare che possiedono le vetrine dei negozi di giocattoli poco prima di Natale. Ne ricordo uno dove il 16 dicembre, giorno in cui nell'anno liturgico prende avvio la novena, veniva svelata un'enorme cattedrale di Lego, si chiamava Piccola Città. Io ci andavo con la mamma dopo essere uscito dal dentista, potevo scegliere qualsiasi balocco – qualsiasi inferiore alle duemila lire, beninteso – per avere sopportato da vero ometto l'infierire del trapano o le viti con cui mi veniva fissato l'apparecchio, ma prendevo sempre la miniatura di un automezzo industriale: escavatori, betoniere, caterpillar... Poi il cuore ha cominciato a battere forte, cosa sto facendo qui? La finestra è spalancata. Ecco la paura. Un corpo non più giovane che si sporge dal davanzale in piena notte, i suoi denti sono perfettamente allineati e nessuno potrebbe più chiamarlo Castoro; osservo una Panda verde quattro piani più sotto, quattro e mezzo se considero anche il mezzanino, qualche coglione l'ha parcheggiata sbilenca a invadere la rampa che conduce al garage; sono io quello che di solito parcheggia l'auto a quel modo. Il porfido del minimo cortile condominiale è sconnesso, dove manca un cubetto affiora la sabbia dello strato di allettamento, i fori ricordano le parti delle navi colpite (ma non affondate) in una partita a battaglia navale, fanno acqua dentro a una striscia di mare prosciugato che immagino sporca di sangue; quale sostanza chimica si deve usare per lavare il sangue dai cubetti di porfido? Proseguendo per bruschi scarti di visione, come in una pellicola sgranata dei fratelli Lumière, lo sguardo raggiunge la sponda opposta, dove si arresta a un condominio di poco più recente che conosco da quando sono nato; ora si è trasformato in un'istallazione di Cristò per via dei lavori di rifacimento delle facciate, si scorgono solo le vetrine spente del negozio di Anna, la parrucchiera cinese che naturalmente non si chiama così. Se la incontro quando scendo a portare il cane ai giardinetti, o rientrando con in mano il sacchettino nero colmo di merda, mi dice italiani blavi, italiani blavi, chissà perché continua a ripeterlo ogni volta che mi vede, chissà perché mi sporgo sempre di più... Adesso dovrei solo scavallare, l'ho fatto decine di volte, da ragazzo, per entrare gratis in discoteca; non mi piaceva nemmeno tanto perché tutti fumavano compreso me, e la musica era bellissima ma troppo alta. Però non lo faccio, non che non voglia più farlo – volevo davvero fare qualcosa, e cosa?, ora non me lo ricordo più – ma ho sentito uno sparo provenire dal televisore, sono curioso di sapere cos'è successo. Socchiudo così la finestra e torno a letto. Non vedo pistole ma è certamente accaduto un fatto importante, si capisce da come lui guarda lei, lei guarda lui, e lo spettatore dovrebbe provare un sentimento complice e solidale. Il battito del cuore comincia intanto a regolarizzarsi, posso sentirne il riflesso attutito dal cuscino infilato in una federa bianca, il colore delle spose e delle lenzuola con cui si ricoprono i morti. Sembrava il cuore di un uccellino.

venerdì 14 gennaio 2022

Parliamone...


Anni fa avevo il grilletto facile. Bastava che qualcuno mi guardasse storto, o mi mormorasse qualcosa di sbagliato. Dici a me? rispondevo io, parli con me? sibilavo come De Niro in Taxi Driver, e poi bum bum, due pallottole nella pancia, oppure in testa, in bocca e perfino nella schiena, secondo la geometria dell’infamia. In questo non avevo un protocollo fisso, uccidevo all'impronta.

D'accordo, succedeva solamente in sogno, in fondo chi non si trasforma in killer mentre dorme, mi dicevo sbadigliando al risveglio. È normale. Poi uno mi psicanalista mi disse: “Guarda che non è proprio così, non è normale. In trent'anni che faccio questo lavoro non ho mai trovato qualcuno come te. Le persone di solito non ammazzano altre persone, nemmeno quando dormono, parliamone..." E ne parlammo.

Ora è molti anni che ho interrotto le sedute di psicanalisi, chissà se il mio vecchio analista è ancora vivo, era un uomo piccino che ricordava Perry Mason. Comunque non l'ho ucciso io, giuro! Con quelle cose ho smesso. Ci ho dato un taglio. Adesso, quando vado a letto, tiro fuori una corda, ci faccio un bel nodo e zac; oppure mi lancio dal balcone; ingollo una scatola di pilloline rosa; lascio aperto il gas e cose così, anche in questo caso il mio inconscio trova molti modi per soddisfare il suo desiderio profondo: ammazzarmi.

Ma in realtà, in sogno, mentre dormo e ammesso che riesca a dormire, non sono proprio io a lasciarci le penne; l’impressione è che si tratti del corpo (identico al mio) e della vita di qualcun altro. La stessa persona che ritrovo nel letto al risveglio, buongiorno, buongiorno, ci salutiamo freddamente e poi ognuno per la sua strada, che curiosamente è la stessa.

La notte successiva devo allora ricominciare tutto da capo. In fondo è normale, mi dico nuovamente: chi non si suicida in sogno? Ma questa volta non c'è nessun Perry Mason a rispondermi: “Parliamone...”

sabato 14 agosto 2021

Io e noi, o su vaccini e filosofia


Un famoso scrittore mio coetaneo ha dichiarato che si suiciderà se dovessero introdurre l'obbligo dei vaccini, e in particolare di quello per prevenire il Covid. In realtà, in Italia già esiste l'obbligo per alcuni vaccini – con la Legge di conversione numero 119 del 3 luglio 2017, da quattro sono stati portati a dieci – ma non riguardano gli adulti, oltre a non essere previste azioni coercitive in caso di rifiuto da parte dei genitori.

Ho molto apprezzato alcune opere dello scrittore in questione, e anche lui mi sembra una persona carica di umanità. Mi rifaccio dunque a un esempio alto, a una persona che stimo, per fare alcune considerazioni generali sull'argomento.

Se addirittura viene preferito il suicidio all'essere vaccinati, la salute del corpo smette di essere il motivo che sottende all'opposizione – con il vaccino esistono remote probabilità di avere effetti collaterali anche gravi, mentre, con il suicidio, gli effetti esiziali sono certi – e a essere chiamata in causa è piuttosto l'inviolabilità del corpo.

Appaiono così del tutto inutili gli appelli alla ragione sanitaria dei no vax, quando le motivazioni si collocano su un piano simbolico, emotivo, in taluni casi possiamo azzardare la psicopatologia. Ma sarebbe sbagliato liquidare la cosa a questo modo, e mi sembra utile aprire il campo anche ad altri sguardi. Ad esempio quello della filosofia. 

Ciò che ci sta dicendo il bravo scrittore è che un numero rilevante di persone vive ora il corpo come qualcosa di estraneo alla sfera comunitaria (ci si vaccina anche per non contagiare gli altri), e viceversa un luogo che non può essere violato, un luogo sacro.

Per gli antichi romani, chi trasgrediva le leggi che regolavano il rapporto tra la città e gli dei veniva chiamato a questo modo: sacer, sacro. Un titolo che revocava automaticamente lo status di civis, confinando il reprobo in un limbo pregiuridico, in cui poteva essere ammazzato da chiunque ma non perseguito. Nessuna relazione era consentita con il suo corpo vivo, anticipando curiosamente uno scenario pandemico: carne infettata dal peccatum, da non sfiorare neppure per non essere contaminati, come nella casta indiana degli intoccabili. Perciò il sacro andava posto fuori, reso o-sceno, sciolto dai vincoli ma anche dai diritti comunitari. Tra cui, appunto, diremmo ora, quello di essere vaccinati.

Una pratica superata con l'affermarsi del cristianesimo, in cui il corpo diventa il tempio dell'anima, ma soprattutto attraverso la formazione del pensiero giuridico moderno, che viene fatto risalire all'Habeas Corpus act., approvato in Inghilterra nel 1679. Fu un documento di grande emancipazione civile, in cui veniva sottratto il potere – potere sul corpo, ancora – ai signorotti locali, per restituirlo all'autorità centrale che poteva invocare la presenza fisica dell'imputato in un regolare processo, consentendogli di difendersi dalle accuse. Il corpo diviene così la sede del diritto, è questa la novità introdotta dall'Habeas Corpus. Ma quel diritto si gioca in una sottile dialettica tra corpo e legge.

In un sentire nuovo e contagioso (mai aggettivo fu più funestamente appropriato...) a nessuna autorità è però consentito di "avere il corpo" di un libero cittadino, se non al corpo stesso. Se ne ricava che il sentimento di comunità con la sua formalizzazione statuale, in un clima che potremmo chiamare di "sacralità" diffusa viene meno, e bisogna iniziare a prefigurare un mondo di corpi irrelati, sacrum homini che vagolano come bandiere a garrire per il mondo – ma bandiere pirata, senza tetto né legge.

Oppure, come nelle fantasie complottistiche più lugubri, immaginare un colpo di mano da parte di un potere che intenda riprendere possesso dei corpi, e imporre non solamente i vaccini ma un controllo capillare del vivente, Michel Foucault chiamava questa torsione del potere biopolitica.

Gli scenari evocati dal romanzo di Orwell e rilanciati dalla lettera di Giorgio Agamben e Massimo Cacciari contro il Green Pass, non sono così del tutto estranei alla dimensione del possibile. Ma bisogna aggiungere che tale possibilità è suggerita, anzi e per paradosso promossa, da atteggiamenti non compromissori come quello del bravo scrittore, che intende interdire il proprio corpo a qualsiasi interferenza, chimica ma anche umana, ossia stabilire un confine invalicabile tra sé e ciò che percepisce come altro. Meglio della mescolanza con l'altro perfino la morte. In cui a essere cancellato è l'io, per non lasciare spazio al noi.