lunedì 30 agosto 2021

Pietà l'è morta

Caleb Wallace, un nome che sulle prime non mi dice nulla. Sarebbe come, penso, in Italia Mario Rossi, oppure Giovanni Bianchi. Anche l'aspetto lo rende simile a centinaia di altri trentenni texani, cresciuti ad hamburger e patatine e rodei; più che altro hamburger e patatine, a giudicare dalla stazza. È qui, a San Angelo, capoluogo della contea di Tom Green, che Caleb Wallace ha fondato un movimento chiamato Freedom Fighters. La "libertà" per cui combattere è quella contro le misure (tiranniche, viene aggiunto) di contrasto alla diffusione e agli effetti del Covid, tra cui il vaccino e l'uso della mascherina. E di Covid, leggo, è morto ieri, trasformando in notizia una delle tante anonime morti che si registrano al mondo; in media sono 165.000, come se Perugia continuasse a scomparire dalla faccia della terra, senza tregua, ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno...

Un orrendo termine giornalistico la definisce notiziabilità, e in questo caso corrisponde al principio di retroazione delle scelte; c'è chi lo chiama karma, contrappasso, effetto boomerang; anche i bambini l'hanno già presente quando dicono: chi la fa, l'aspetti. Tutte espressioni per significare che i nostri comportamenti possiedono un'ombra di segno uguale e contrario. I greci attribuivano a quest'ombra le forme alate di una divinità, Nemesi, la cui evocazione non era mai disgiunta dalla pietà.

Ettore muore combattendo con Achille proprio a causa di Nemesi. Sconta, per contaminazione di stirpe, la colpa del fratello Paride, il quale aveva sottratto a Menelao la legittima sposa, a sua volta figlia di Nemesi. Ma quanta pietà in Omero nel raccontare la fine di Ettore, lo strazio del cadavere trascinato dal carro del vincitore attorno alle mura di Troia, dopo averne reciso i tendini simbolo di forza e vitalità. Nei confronti di Caleb Wallace, che lascia tre figli e una moglie incinta all’ottavo mese, colgo invece un sotto testo quasi compiaciuto: "embè, in fondo se l'è cercata". Così sembrano adombrare certi commenti nell'informazione ufficiale, un fiume carsico (si dice e non si dice, meglio lo si fa intuire) che zampilla infine sui social network dilagando senza più argini e ritegno, a formare una poltiglia in cui lo sberleffo è ancora più gustoso. Manca solo il gesto dell'ombrello e l'espressione "tiè!", a completare un quadro simile a una tela di Fontana con didascalia di Francesco Ferruccio, nel mentre in cui Maramaldo alza il suo pugnale per conficcarlo nella carne di un uomo già morto.

Si potrebbe obiettare che dal mondo degli eroi omerici, la tragedia, nel ripetersi sempre uguale della storia, è nel frattempo divenuta farsa, come vuole una celebre massima di Karl Marx. Ma quale farsa?! Un giovane intubato per tre settimane, l'arresto cardiocircolatorio sopravviene lento per asfissia, un evento nei confronti del quale si dovrebbe sempre abbassare il capo, anche se le sue idee ci risultavano indigeste – e diciamolo pure, quelle Wallace non erano neppure idee, ma un cumulo di sciocchezze orecchiate alla bell'e meglio su Internet, che l'avevano portato ad affrontare i primi sintomi della malattia solo con Aspirina, vitamina C e Ivermectina, un farmaco antiparassitario destinato agli animali.

È possibile non condividere alcuna sua scelta, di certo io me ne guardo bene, nemmeno il cappellino da baseball e gli occhiali a specchio con cui è ritratto nelle foto che circolano sul web, da cui si ricava il sospetto di un QI non da primo della classe, ma comunque provare un’immensa pietà nei confronti di quest'omone figlio del suo tempo. Riposa in pace Caleb, qui pietà l'è morta anche per via delle cazzate a cui non solo avevi finito col credere, ma avevi creduto che potessero darti un posto nel mondo, un senso con cui inchiodare al suolo il più sdrucciolevole dei pronomi: io. In questo eri uguale alla maggior parte di noi, nel confondere i fiocchi dell'involucro con il dono.

venerdì 27 agosto 2021

Lo specchio di Grimilde, o su Facebook e l'amore e la scrittura



Lo scrittore Giulio Mozzi, in un'intervista di molti anni fa, disse che "scrivere senza leggere è come pretendere di essere amati senza amare".

Mi è tornata in mente questa bellissima istantanea verbale a proposito di Facebook. Confesso di averlo fatto anche io: richiedere l'amicizia solo perché me lo suggeriva il famigerato algoritmo. Magari la persona in testa all'elenco dei papabili possedeva una biografia professionale da primo della classe, interessi e amici comuni, bastava in taluni casi un bel musino. Ma poi finiva lì, dopo una prima distratta scorsa al profilo si esauriva il mio interesse. Io non leggevo lui, o lei, insomma loro, e loro non leggevano me.

Il più delle volte non c'era nemmeno bisogno di imbattermi in proclami contro la "dittatura politico-sanitaria", oppure foto del figlio palestrato di fronte all'ingresso di Casa Pound, il gattino che fa le fusa, cose così, ma era il semplice effetto di un fisiologico processo di erranza della curiosità, che fa il paio con quella del desiderio. Desideravo, in altre parole, che i miei post venissero letti e magari amati nella forma infantile di un like, senza ricambiare la lettura e l'amore. E come me, sospetto la maggior parte degli utenti di un social network – in numero ancora maggiore, ho ricevuto richieste di amicizia destinate al medesimo reciproco oblio.

Tutto ciò, più che un’indicazione sulla natura della tecnologia, mi suggerisce un dubbio su quella umana: forse davvero siamo una specie che desidera essere amata senza amare, come adombra la frase di Giulio Mozzi. Perciò scriviamo con sempre maggiore accanimento di ogni cosa, ma pochi diventano scrittori, o meglio bravi scrittori e cioè lettori. "Sono più orgoglioso dei libri che ho letto che di quelli che ho scritto", aggiungeva un altro famoso scrittore. Gli altri, scrittori o semplici scriventi, sono impegnati a interrogare lo specchio di Grimilde: "Specchio specchio delle mie brame, chi è il più amabile del reame?” La risposta, amico mio di Facebook, is blowin' in the wind.

In qualche modo, da qualche parte, a volte


Nei giorni scorsi ho iniziato a seguire Dark, una serie televisiva tedesca con molti meriti, tra cui quello di avermi ricordato di quanto sia brava Nena. Cantante pop rock di Hagen, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, nel 1983 raggiunse una fugace notorietà internazionale (in Germania è ancora molto famosa) con la canzone 99 Luftballons. Ma il brano che preferisco esce l'anno successivo, anno bisestile in cui Orwell ambienta il suo celebre romanzo e la Apple presenta il primo computer della serie Macintosh. Si intitola Irgendwie, Irgendwo, Irgendwann e fa da colonna sonora alla bella serie su Netflix.

La traduzione del titolo, ottenuta con Google, è In qualche modo, da qualche parte, a volte. Una sfilza di complementi senza soggetto né verbo. Quest'ultimo lo possiamo però intuire, e corrisponderà verosimilmente ad accadere, succedere, qualcosa con cui stabilire un primo incerto contatto, mentre il soggetto ci viene svelato nella seconda strofa: "Irgendwie fängt irgendwann (in qualche modo a un certo punto inizia) / Irgendwo die Zukunft an (da qualche parte il futuro) / Ich warte nicht mehr lang (non posso più aspettare) / Liebe wird aus Mut gemacht (l'amore è creato dal coraggio) / Denk nicht lange nach (non pensarci troppo a lungo)".

Finalmente l'ha detto! Nena sta parlando del futuro, ci abbiamo messo un po' ma alla fine si è capito, e in sottotraccia alle due dimensioni già individuate da Einstein (spazio e tempo) andrebbe aggiunta anche quella del coraggio, per manifestare l'amore e dall'amore il futuro. Un processo carico di urgenza nella voce che dice io nella canzone, non posso più aspettare.

Se e quando passerà la pandemia  se e quando, dunque, ci sarà un futuro , non credo che ne manterrò l'immagine sotto forma di lenzuola stese con la scritta "andrà tutto bene", oppure il suono, quello dei cori dalle finestre a cui fanno eco altre finestre, la sensazione sul viso delle mascherine con la loro acquisita conoscenza tecnica (chirurgiche, FFP2, FFP3 ecc.), sulle mani gel igienizzanti prima e dopo essere entrati al supermercato, a cui fa seguito la prossemica dilatata nelle diradate relazioni umane. Sarà piuttosto l'esperienza dell'implosione del futuro a tatuarne il ricordo. In qualche modo, da qualche parte, a volte non inizia più nulla, il futuro ha smesso di lanciarsi nel vuoto come avviene a chi fa bungee jumping, ma per poi tornare indietro appeso a una lunga corda elastica, a offrirci motivazioni per fare di nuovo una cosa tanto scema. Un tira e molla tutto batticuore e adrenalina in cui il vettore del tempo sembra non possedere una sola direzione, i protagonisti di Dark lo percorrono in un disinvolto doppio senso di marcia, oppure lo estendono alla maniera di un gatto quando si leva e stira le zampe. La vita, sotto l’ombra invisibile e minacciosa del virus, somiglia a quel gatto nel momento in cui si acciambella prima di dormire: un loop in cui le giornate si ripropongono tutte uguali, la conta dei morti mentre si imbocca il cucchiaio colmo di minestrina la sera.

Ma senza futuro non c'è nemmeno amore. L'amore, prendiamo pure alla lettera Nena, è creato dal coraggio, non pensarci troppo a lungo! Lungo, lange, è però nel testo una sinestesia applicata alla sfuggente dimensione temporale, che è proprio ciò che qui è venuta meno. Dove trovarlo mi chiedo allora, in quale futuro prefigurato che retroagisca sul presente, il coraggio per volgersi a un tempo e a un luogo e soprattutto a un sentimento diversi dall'adesso? Un'alterità cronospaziale verso cui dirigersi con fermezza e determinazione, o se si preferisce, ancora, con coraggio. Massì, possiamo anche dirlo con semplicità, nel suo significato più immediato e letterale: una mano da stringere e due labbra a cui accostarsi con trepidazione.

La paura di essere infettati, oltre al futuro, si è così mangiata anche il presente, che mancando di uno slancio amoroso nella direzione di qualcosa, qualcuno, prima o poi e da qualche parte un nuovo inizio, somiglia a un buco nero, una smagliatura nello spazio-tempo che davvero possiamo definire dark. Non ci resta che accomodarci davanti a un televisore da 55 pollici, e guardare la prossima serie su Netflix.

giovedì 26 agosto 2021

Vedi alla voce comunità

Il 23 agosto 1793 uno dei membri più eruditi della Convenzione Nazionale, Lazare Carnot, pose le basi per la legge sulla coscrizione, riprendendo il principio del cittadino soldato espresso da Dubois-Crancé: tutti i cittadini non sposati, tra i 18 e i 25 anni di età, dovevano prestare servizio militare. Un provvedimento adottato sull'onda dello spirito rivoluzionario giacobino, attraverso cui i neo cittadini francesi avevano il privilegio – sì, ho scritto privilegio, non è un errore di battitura il privilegio di combattere ed eventualmente morire per la Patria, subentrando alle armate mercenarie di Luigi XVI. Un grande consenso popolare accolse il provvedimento.

Il 23 luglio del 2021, in Italia, viene approvata per decreto della Presidenza del Consiglio una misura chiamata Green Pass, che diviene effettiva a partire da un torrido 6 agosto, in cui in Sicilia si sfiorano i 50 gradi di temperatura e in Siberia arde un territorio grande come il Molise. Si chiedeva anche in quel testo di morire per la Patria?

Ehm, non proprio...

Allora ciò che si imponeva era la vaccinazione, già che in quel tempo era in corso una grave pandemia che aveva già causato nel mondo quasi cinque milioni di morti; secondo alcuni osservatori un numero che andrebbe moltiplicato per tre, se si contano anche le vittime connesse e non direttamente causate da un virus che fu chiamato Covid-19?

Macché.

Con Green Pass veniva definito un documento che certificava l'avvenuta vaccinazione (facoltativa, nonostante da decenni già fossero previste d'ufficio numerose vaccinazioni), oppure un recente tampone per verificare se si fosse stati contagiati. Esibito all’ingresso, serviva quale lasciapassare per un numero limitato, anzi limitatissimo di luoghi pubblici: bar, ristoranti, cinema, teatri, palestre e poco altro. La delibera fu accolta da buona parte della popolazione, oltre che da alcuni noti intellettuali e giuristi, come altamente lesiva delle libertà personali. Lo stigma che gli fu attribuito in chiassose manifestazioni e sui social network: dittatura politico sanitaria.

Credo che in tali condizioni si debba mettere mano ai dizionari, non possiamo continuare a chiamare allo stesso modo aggregati umani così distanti nello spirito, prima ancora che nel tempo. La storia, in questo caso, non siamo noi, come cantava Francesco De Gregori in una bellissima canzone, il significato del termine comunità va rivisto e corretto. O era una comunità la Francia rivoluzionaria, quella che sventolava il tricolore sulla Bastiglia accompagnando il gesto con le parole, gridate, LIBERTÈ, EGALITÈ, FRATERNITÈ, o è una comunità il pugno di mosche anarchiche che chiamiamo Occidente, dove si attuano simili e capricciose forme di ripulsa a qualsiasi timida richiesta da parte della collettività. Delle due l’una, altrimenti non ci capiamo più nulla.

Nel frattempo, suggerisco di ammainare le bandiere nazionali e, al loro posto, issare i vessilli delle squadre calcistiche locali, le uniche forme residue di appartenenza comunitaria.

mercoledì 25 agosto 2021

Dioverde, o sul cromatismo teologico

Io credo che la terra sia rotonda, non piatta, su un giornale ho letto di un tizio che addirittura credeva fosse quadrata, ma pur credendovi non provo verso la rotondità in cui confido alcun sentimento, né positivo né negativo. Mentre credo che il blu sia un colore molto elegante, e difatti ho molti pullover blu, blu marino in particolare, ma anche il blu Klein (una variante più intensa del blu Cina) mi piace molto. Al contrario, credo che il verde mi stia male, dunque evito indumenti di questo orrendo colore, lasciandoli volentieri ai seguaci di un importante partito politico italiano. Ma perché, allora, quando si dice di qualcuno che crede in Dio, si dà per scontato che gli voglia anche bene, che ami Dio perfino più di quanto io ami il blu? E il guaio è che gli stessi che lo affermano, che credono, sviluppano tale convinzione affettiva, trasformando la credenza in devozione. Per quel che mi riguarda e vale, anche io credo in Dio, ma mi fa più schifo del verde. Non vedo nessuna ragione per stabilire un'equivalenza tra amore e credenza, a maggior ragione quando l'oggetto – o meglio ancora il presunto artefice dell'oggetto  coincida con questa galleria cromatica degli orrori che chiamiamo vita. Da qui la mia bestemmia preferita: Dioverde!

martedì 24 agosto 2021

Il culo è la figa del 2000, o sul politicamente corretto

 

"Il culo è la figa del 2000." Lo affermava ridacchiando un barbiere con i capelli rossicci, ogni volta che entrava al Bar Piero faceva questa stupida battuta. Aggiungendo dopo una pausa: "L'ha detto Pasolini."

L'effetto della sua prevedibile sortita era qualche sorrisetto, sempre più stanco e stiracchiato, ma non la riprovazione, il biasimo civile. Ora otterrebbe invece l'espulsione da tutti i social, avendo infranto a un tempo due tabù: i diritti LGBT, una comunità seriosissima con un'infiammabile coda di paglia, e il grande poeta e regista di Casarsa, divenuto nel frattempo un feticcio per il ceto medio riflessivo di Sinistra, che l'ha scoperto in un lungo (e bellissimo) piano sequenza di un film di Nanni Moretti.

Ma torniamo con l'immaginazione al Bar Piero, era la fine degli anni ottanta o giù di lì, e il nostro barbiere – per tagliare i capelli ai più piccoli possedeva una poltrona a forma di cavalluccio, odore di lozioni alla lavanda – si compiaceva della sua ottusa sigla d'ingresso. Torniamo in tutti i sensi, provando a fare un percorso inverso tra l'adesso in cui regna l'occhiuto sguardo del politically correct, Michela Murgia e il suo schwa, e le becere sregolatezze di allora.

Non dico, attenzione, di trovare divertente la battuta del barbiere, ma lo specchio è già castigo alla maggior parte dei vizi verbali – e ho scritto maggior parte, il negazionismo sulle camere a gas è altra cosa. Dunque guardati! Sì, sei proprio tu. Credi di essere simpatico e invece sei solo volgare e patetico. E bon, finita lì.

Oppure arriviamoci attraverso un'altra via, andando a vedere ciò che Pasolini ha detto davvero. No, che il culo è la figa del 2000 non l'ha detto mai, ma in una sua canzone scritta per Modugno gli faceva pronunciare le seguenti parole, sono una rielaborazione dall'Otello di Shakespeare: "il derubato che ride ruba qualcosa al ladro, / mentre il derubato che piange ruba qualcosa a sé stesso."

Se invece d'indignarci, di piangere e battere i piedi per richiamare l'attenzione della mamma, imparassimo allora a sorridere, non tanto, del politicamente scorretto, ma dei suoi esiti più grossolani e rozzi, sorridere con un velo di commiserazione come quando entrava il barbiere fulvo al Bar Piero... Non è nemmeno tanto importante che capisca la differenza: stiamo ridendo di lui, non per ciò che ha detto.

In tal caso ruberemmo anche noi qualcosa al ladro, e non invece a noi stessi. Nella fattispecie, un piccolo veniale furto, la serenità per dire pane al pane e scemenza e alla scemenza, e non farla assurgere a crimine verso l'umanità. Ché i problemi dell'umano stanno altrove, e ognuno si affidi pure all'umorismo o alla figa che preferisce.

domenica 22 agosto 2021

Flipper, o sulle cose ultime per gesti e figure

I subparlanti sono persone che hanno bisogno di immagini concrete per esprimere concetti astratti. Metafore, paragoni, correlativi oggettivi. Lo scriveva Tullio De Mauro in un libro di tanti anni fa. Quando l'ho letto, ho pensato come prima cosa: sono un subparlante. E come seconda che quando muoio non mi piacerebbe reincarnarmi. La reincarnazione è come la pallina di un flipper, ho continuato a pensare per immagini concrete, da quel subparlante che sono. Una pallina che viene sbattuta di qui e di là, traversa tunnel lampeggianti, abbatte le tessere di un domino forsennato e fracassone. Quindi scivola verso il basso, no, voglio ritornare in alto, fare girare i rulli del punteggio, magari stabilire il record del bar. Ma si vince qualcosa, che so un prosciutto? Macché, nulla. Ugualmente si ricaccia indietro la sfera, the show must go on, due alette simili alle chele di un granchio sono l'unico strumento che abbiamo per catapultarla verso il bonus. Alla fine, viene inghiottita da un buco nero, prima o poi succede anche ai giocatori più esperti, quelli che dimenano il sedere mentre pigiano sui tasti laterali, un buco al centro come l'ombelico, a cui l'inclinazione del piano unita alla gravitazione terrestre la condannano. Bene, è finita, concludi con un misto di rammarico e soddisfazione, dopo avere compreso che è un gioco un po' troppo da americani. Ma se provi a renderlo più levantino (ogni cosa si aggiusta con una piccola infrazione alle regole...) scatta implacabile il tilt, e implacabile anche la pallina viene risputata subito dopo. Adesso si trova in un lungo sottile canale, dove un pignone avvolto da una molla le dà un calcetto nel culo, e si ricomincia tutto da capo. Lo stesso di Pinocchio quando finisce nel ventre del pescecane, si potrebbe dire. No, non si può. In quel caso si tratta di una vita nuova, in cui Pinocchio, il burattino, diviene finalmente fanciullo. Mentre per la pallina ogni cosa resta uguale, ciò che mutano sono i ghirigori del percorso, le peripezie. A cui si presta un'attenzione ipnotica distogliendo lo sguardo dall’imbuto che l'attende. Ed è come se a ogni lancio successivo si fosse scordata delle botte, i rimbalzi, gli scossoni che si è presa nelle giocate precedenti: una stupida ostinata biglia di metallo imprigionata in un'enorme scatola piena di lucine, con la pietra tombale di una lastra di vetro temperato. Nemmeno il Paradiso cattolico però mi piace tanto, ricorda un po' troppo il pensionamento. Non fai un cazzo tutto il giorno, nemmeno giocare a flipper è consentito, solo osservare i cantieri stradali e dare suggerimenti che nessuno ascolta, la bocca si muove ma non esce alcun suono, non ti possono vedere né sentire. Un incubo, più che un sogno. Al limite, si può bere una tazza di caffè – ma solo se di un famoso marchio italiano – di tanto in tanto. Meglio allora l'eterno ritorno di Nietzsche, c'è un tempo e un luogo in cui vorrei essere di nuovo. Venezia, 1980, tiepidi e lunghi giorni di maggio. Mi trovavo lì per la gita scolastica al termine delle medie, le canzoni di Lucio Battisti (oh mare nero mare nero mare...) massacrate sul pullman partito dallo slargo di fronte al Monumento ai caduti. Credo ci sia un monumento ai caduti in qualsiasi città, la mia non è poi così importante. Alla sera, dopo avere riposto nel borsone i souvenir per i genitori e soprattutto i nonni (bastava ribaltarli per vedere fioccare la neve su San Marco), si andava a dormire in una pensione di Mestre. Come una talpa d'albergo con segno invertito, dal fuori al dentro, ero riuscito a trafugare una bottiglia di Amaretto di Saronno, che serviva per trovare il coraggio di raggiungere la camera dell'Acquistapace. Stava all'ultimo piano di una palazzina liberty, in fondo al corridoio a sinistra, anzi a destra, anche quella volta sbagliai e mi ritrovai davanti due turisti neozelandesi in mutante. L'Acquistapace era la compagna più intelligente e graziosa, prima della classe in tutto, ma come avvolta dallo stesso velo di neve dei souvenir, ti veniva voglia di rompere il vetro e poi ricoprirla con uno scialle di lana, Somigliava a un'annunciatrice televisiva che chiamavano fatina bionda. Mi sono innamorato di lei, della fatina bionda della sezione F – prima seconda terza, un amore inespresso che mi ha accompagnato per tutto il corso delle medie –, quando l'ho vista allo squillare della campanella che rendeva l'infanzia irrevocabile e conclusa. Ora iniziava una nuova stagione della vita, in cui veniva abbattuto il dio unico costituito dalla maestra, lasciando spazio a un pantheon didattico dai nomi vagamente bizzarri, tipo Educazione tecnica; il professore aveva il riporto e balbettava ogni volta che pronunciava la parola ca... ca... ca... catodo. Stesi sul letto a una sola piazza guardavo la muffa agli angoli del soffitto, e dopo un tempo che mi appare interminabile sono riuscito, balbettando anch'io per il liquore, a farle solo una domanda: "Ma secondo te era una bara, la bara di un bambino morto, quella piccola ca... ca... cassa bianca che abbiamo intravisto su una gondola, le siamo passati accanto col vaporetto per andare a Murano?" Non ho però sentito la risposta, avevo sbagliato le dosi di Amaretto di Saronno. Mentre questa volta vorrei poter udire, comprendere, vedere svelato un enigma che mi assilla da quarant’anni, specie nelle notti invernali congestionate dal raffreddore, la Tachipirina non riesce a placare la febbre. Tra le lenzuola sudate, ecco apparire una gondola nera. Segue una bara bianca. Un bambino. Ma l'Acquistapace dischiude le sue labbra bellissime, e dice: "No, non era un bambino. Non era una bara. Come al solito ti sei immaginato tutto. Ora però dormi Guido, dormi tranquillo, ci sono qui io accanto a te."

sabato 21 agosto 2021

La coscienza infelice, o sul rave di Viterbo e la società affluente, che tanto affluente non è

Sono stato a pochissimi rave, ma mi sono sempre divertito – alle nostre latitudini, gli unici luoghi in cui puoi ancora imbatterti in Shiva e Dioniso, magari in forme un po' caricaturali. Non ho dunque alcun pregiudizio al riguardo, ma trovo fuori fuoco l'ennesimo contrapporsi per fazioni (ringhianti) che segue al rave di Viterbo.

Le critiche sono note e diffuse – i raver brutti sporchi e cattivi, semplificando. Ma soprattutto molto, mooolto drogati –, e mi concentrerò sulle apologetiche. Ha alimentato la discussione un post su Facebook di Loredana Lipperini, che affianca al suo svelto commento un reportage documentato e puntuale, è possibile trovarlo qui. Un testo che possiede molti meriti, primo fra tutti evidenziare un vizio diffuso nell'informazione al tempo di Internet, sempre più di frequente solo pettegolezzo travestito. 

Nel finale inciampa però nelle stesse manchevolezze che denuncia, facendo coincidere, con uno sciatto cliché, i due stupri lì forse avvenuti (un reato penale odioso) con il patriarcato (un retaggio antropologico certamente deprecabile, ma non di rado alimentato dalle donne che quella sottocultura hanno introiettato e quindi trasmesso), e collocando infine l'equivalenza spuria in un contesto che viene definito "libero". E perché mai un rave dovrebbe essere più libero di un circolo scacchistico, o di un dopolavoro ferroviario?

Da simpatizzante dei rave party, a me sembrano semplicemente un giochino estetico, che fa cioè leva, letteralmente, sui sensi, da disarticolare e accendere nella forma di un godimento che non ammette dilazioni prospettiche, solo presente e svago tipico di quella società che un tempo si sarebbe detta affluente. Ma ora va progressivamente impoverendosi, trasformando la perdita in rancore perbenista o rimozione edonista – e cos'è un rave, se non un collettivo e sovraeccitato standby, una sospensione adrenalinica in ciò che Hegel chiamava coscienza infelice? I termini libero, libertà, liberazione, li lascerei dunque ad altri aspetti dell'umano.

venerdì 20 agosto 2021

Paralimpiadi, o sull'agonismo come sopraffazione

Si aprono martedì 24 agosto i Giochi paralimpici di Tokyo. Non è possibile, e forse nemmeno utile, avere un’opinione su tutto, ma sugli sport agonistici per disabili ho sempre provato un certo imbarazzo, non riuscendo a formarmi un giudizio definitivo.

Da una parte mi sembra una cosa bellissima. Una persona subisce la vita, cade, viene abbattuta dalla sventura. Ma reagisce. Si rialza. E attraverso l’attività sportiva, che della vita è una celebrazione, rientra nel respiro primordiale; quel fiatone che certifica l’esistenza nello spazio e nel tempo accelerato di sistole e diastole, che gli fa da contrappunto ritmico.

Sarà forse l’aggettivo, agonistici, sport agonistici, a frenare una mia adesione piena. Nell’agone viene infatti premiato il più forte, o, in una prospettiva darwiniana, il più adatto – ma adatto a cosa? Di nuovo alla vita, mi appare evidente.

Come nei giochi tra i cuccioli degli animali, gli sport si sviluppano nella forma di apprendistato e ricapitolazione. E sono le qualità essenziali alla sopravvivenza a essere collaudate: picchiare il nemico, correre per scappare o cacciare, saltare in alto, più in alto di tutti, per cogliere un frutto che agli altri sfugge, o sottrarsi all’assalto di una belva feroce. In sintesi: affermazione di sé a danno di un altro, anzi molti altri, gli sconfitti.

Ma il termine giusto non sarà allora sopraffazione? Secondo la psicanalisi, sopraffazione sublimata per non essere agita. Da qui la sospensione di ogni conflitto durante i giochi di Olimpia – ci sarà tempo per scannarsi di nuovo, l'arrotino accosta alla mola la xiphos dell'atleta per quando tornerà a essere oplita.

Chi vince è colui che per analogia si riproduce – le femmine si offrono all’accoppiamento con il cervo uscito vincitore dallo scontro, quello che ha sferrato le cornate più robuste e tenaci – e una famosa canzone degli Abba lo rimarca nel refrain: the winner takes it all, tutto si prende e, al secondo classificato, resta solo il desiderio di riprovarci. Riprova e sarai più fortunato, come stava scritto nella cartina del chewing gum.

Ma qual è il tutto, mi chiedo, che una persona portatrice di handicap si prende, potrà mai essere il maschio alfa e non la surroga di una rimozione collettiva, in cui a essere oscurata è la radice animale dello sport? La nudità del re viene così rivestita con l’abito delle buone e solidali intenzioni. Come a dire senza dirlo: poverini, hanno diritto a essere anche loro come noi. Facciamo finta che.

Viene insomma attuata una pratica mimetica non meno che volontaristica. Anche in questo caso la lingua anglosassone offre la sintesi migliore: yes you can. If you want, you can. Peccato non sia vero. Se hai perso l’uso delle gambe non puoi camminare, e al limite solo mostrare, a chi si trova nelle tue condizioni, di essere più vicino di lui alla "normalità", a quel cuore oscuro della vita per cui l’animale azzoppato viene abbandonato dal branco.

Ma della due l’una: o si è solidali e accoglienti verso chi si trova in uno stato fisico di minorità, o ci si affida a leggi non tanto immorali ma premorali, ossia anteriori al processo di civilizzazione, e si volge infine il pollice in basso nei confronti del perdente. Avanti i leoni del Colosseo!

Le paralimpiadi, come tutti gli sport agonistici per persone disabili, si offrono così nella figura linguistica dell’ossimoro, o se si preferisce nella struttura della tragedia greca. Un dover essere che si contrappone a un non poter essere. Domanda. Nel nostro moderno caso, ci è data una via di uscita al vincolo tragico, o siamo condannati a ripeterne lo scacco in eterno?

A me sembra di sì, ma a patto, appunto, di liberarci dall’atteggiamento agonistico, una controfigurazione della gerarchia evolutiva in cui disporre l’umano per gradi di potenza, watt. Più sei potente e più ti sentono e guardano tutti, come le Golf ferme al semaforo con i finestrini abbassati, l'autoradio a palla.

Che sia allora lo sport unicamente sport, senza gara, competizione, senza sommersi e salvati. Solo il piacere di una persona offesa dalla vita di tornare alla vita nella sua forma incarnata. Non mancherà per questo la nostra attenzione partecipe, non abbiamo bisogno di essere sedotti da alcuna prodezza. L'importante è partecipare. Ma non alla gara, bensì al gesto di esistere al netto della simbolica di sopraffazione.

Diversamente, sarà inevitabile ripensare alla sequenza conclusiva di un film della serie Amici miei. Il conte Mascetti, interpretato da un ormai anziano Ugo Tognazzi, è condannato sulla sedia a rotelle per via di un ictus, e viene iscritto a una gara per persone nella sua stessa condizione. Gli amici di sempre sono sugli spalti a fare il tifo: “Oh dai Mascetti, che codesti bischeri te l’inculi tutti!”.

Ecco il colpo di pistola, si parte! Il conte decaduto smanaccia sulle ruote di gomma piena, fa del suo meglio, arranca, il cappellino da baseball e la bocca tirata da una parte; ma il divario tra lui e gli altri concorrenti continua ad aumentare, è ultimo. La regia di Monicelli fa ora un primo piano, anzi primissimo sui suoi begli occhi nocciola, da cui iniziano a sgorgare lacrime. Perché anche tra chi la vita ha lasciato indietro, c’è chi è più indietro degli altri.

Conti, o su vaccini ed economia politica


Bassetti, il virologo, non il piumone, ha appena dichiarato una cosa a cui non avevo mai pensato: le case farmaceutiche guadagnano un sacco di soldi dalla circolazione del Covid, molti di più che non dalla vendita dei vaccini.

Un vaccino costa mediamente quindici euro  quelli a RNA messaggero almeno, AstraZeneca quasi un quarto , cifra da raddoppiare già che è quasi sempre previsto un richiamo. Una persona che si ammala produce esborsi infinitamente più alti, fino ad arrivare ai sessantamila euro di un ricovero in terapia intensiva; pagati come giusto dai contribuenti, anche se si tratta di una persona che ha rifiutato il vaccino.

Ma chi incassa buona parte di quel denaro per ventilatori polmonari, cateteri venosi, anestetici, medicinali? Big Pharma, ovviamente.

Non che abbia mai dato credito alle argomentazioni complottistiche che vedono nei vaccini un magna magna generale, con tanto di microchip per controllarci con le reti 5G, ma sarebbe interessante se prendesse piede questa consapevolezza economica. Economica ma anche politica, ossia con importanti risvolti morali.

I recalcitranti all'immunizzazione indotta, per fare dispetto alle multinazionali farmaceutiche avrebbero così due opzioni: 1) se e quando si ammalassero rifiutare ogni cura, morire eroicamente e come eroi civili noi li ricorderemo, senza che venga versato un solo euro alle case farmaceutiche; 2) prendersi una laurea in biologia e una in medicina, creare dei nuovi vaccini con lo zucchero di canna e senza glutammato, vaccini "bio" deliziosi anche per correggere una tisana alla melissa e frutti di bosco, quindi produrseli da soli e così evitare d'ingrassare Big Pharma. Ma anche di gravare sull'erario.

Ho fatto due conti: un mesetto d'ospedale per avere sfidato il virus, monetizzati, equivalgono a sette anni di sussidi di disoccupazione versati a un poveraccio. Sette anni, sì.

Quando si parla di libertà fondamentali conculcate, ricordiamoci allora anche di questo: un commercialista no vax che si piglia il Covid in vacanza a Porto Rotondo, costa alla comunità duemila volte più della famigerata casalinga di Voghera  il conto è presto fatto: 60.000 (costo medio terapia intensiva) : 30 (costo due dosi vaccino) = 2000. Casalinga che si fa fare la sua punturina e non rompe tanto i coglioni.

martedì 17 agosto 2021

Strappa da te la vanità, o sui talebani a Kabul

Sull'entrata dei Talebani a Kabul non ho nulla da dire. Ma lo dico lo stesso, alla vezzosa maniera di John Cage esprimo il mio niente di niente, partecipo al banchetto di parole che presenta questo menu del giorno, è a prezzo fisso di una manciata di dati da versare a Mr. Zuckerberg.

Mi piace però credere che sugli archivi che mi profilano rimanga traccia anche di pochi versi, appartengono ai Canti pisani di Ezra Pound: "Strappa da te la vanità, / ti dico strappala. / Ma avere fatto in luogo di non avere fatto / questa non è vanità... "

Mi chiedo quindi se fosse giusta la presenza degli americani in Afghanistan, e non so rispondere neppure a ciò. Inizio invece a intuire la natura della profusione di parole che mi assediano – a volte indignate, altre accorate, disperate, rabbiose  e che chiamiamo la democrazia social. Parole, parole, parole, come nella canzone di Mina.

John Langshaw Austin, con una conferenza ad Harvard nel 1955, inaugura la teoria degli atti linguistici. Anche le parole sono atti egli dice, con una precisa ricaduta sul reale. Il mondo sarebbe diverso senza le parole di Gesù, che non lavorò un solo giorno in vita sua; l'unico gesto concreto che mi viene in mente è quello di lavare i piedi agli apostoli, profondamente sorpresi dalla novità.

Gli disse Simon Pietro: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo». Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi!» Ma poi, parzialmente convinto dalle parole di Gesù  che ancora una volta si traducono in atto , Giovanni fa pronunciare a Pietro una frase di splendida ironia: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!».

Oggi è come se in molti chiedessero all'America lo stesso: non solo di lavare i piedi all'Afghanistan per ricacciare indietro i talebani, ma di lavare le mani e il capo a tutti i problemi che ci affliggono, dopo aver marciato per anni per rivendicare il contrario. Via dall'Iraq, dal Vietnam, dalla Corea, via l'America da tutto ciò che non sia un campo da baseball o una lunga pista di legno, il suono dolce dei birilli che si fanno lo sgambetto. Un atto linguistico anche l'insegna luminosa con cui comporre la parola bowling.

Ma questo dire dal ciglio dell'abisso di Facebook, possiamo ancora considerarlo un gesto, abbiamo una reazione tangibile (anche dilazionata) che consegua all'azione? Qualcosa da toccare con mano come il bambino dopo aver fatto la cacca.

A me sembra che venga smentita, almeno in parte, la teoria Austin. Non è un atto linguistico, e piuttosto traccia grafica che ritorna in forma di eco visuale, per restituirci, se siamo fortunati, una manciata di like: bravo, avo, avo, avo... Il tutto senza che il mondo ne esca minimamente scalfito.

Ma allora, direbbe Pound, se non è fare è vanità, anche queste mie parole lo sono. Negli anni trenta la meglio gioventù si arruolava nelle Brigate Internazionali, per contrastare la presa del potere da parte di Franco. Un gesto che, come sappiamo, non cambiò la storia, ma non fu ugualmente vanità. Fu un fare in luogo di non avere fatto.

Cosa facciamo invece noi, a parte un'inesausta geremiade del tutto priva di ricaduta sul mondo, e che si arresta alla superficie dello specchio? È a lei che allora mi rivolgo, la sagoma riflessa e stempiata e con una t-shirt color prugna, mi osserva mentre digito le parole che state leggendo, e le dico: strappa da te la vanità, ti dico strappala!

domenica 15 agosto 2021

Un fischio

Richiamando il cane con un fischio, mi accorgo che non so più fischiare come un tempo. Sono sempre stato orgoglioso di questa mia capacità: fischi potenti, squillanti, senza neppure bisogno d'inserire due dita dentro la bocca – chi utilizza la stessa mano inarcando pollice e indice, chi entrambe per poi tendere simmetriche le dita; possono essere tutte quelle non opponibili, con l'esclusione degli anulari. Ed erano lunghi, i fischi che emettevo, sia in estensione temporale che spaziale, si potevano udire a centinaia di metri di distanza, fischi come l'acuto di Claudio Villa nel finale di Granada. Mi uscivano dalle labbra anche senza una necessità impellente, ad esempio per attirare l’attenzione dell’amico che stava montando in Vespa per ritornare a casa, non avendo trovato nessuno con cui dividere una Chesterfield al Bar Sole. Lo vedevo allora fermarsi, rimettere la moto sul cavalletto, e girarsi in mia direzione. Sorridendo. Il fischio di oggi somigliava invece a un petardo guasto, che risolve il suo impeto in un suono fioco e disarmonico; provando a darne conto in forma lessicale, sarebbero solo consonanti buttate lì a casaccio: fszzssfsx. Anche il cane mi ha guardato con un'espressione un po' stupita, piegando il capo di lato come fanno i cani quando non comprendono qualcosa. Forse, ho riflettuto, negli anni è cambiata la cassa armonica, un dente si è sbrecciato, o magari non avevo messo la lingua nel punto esatto del palato. Ma non credo sia questo, perché ho riprovato più e più volte ottenendo sempre il petardo loffio. A quel punto il cane ha smesso di badarvi, la sua testa pelosa ha riacquistato una postura retta e vagamente english – tutti lo scambiano per un Gordon Setter, ma in realtà si tratta di un Hovawart, razza proveniente dalla Foresta Nera in cui Heidegger amava passeggiare con le braghette corte della Hitler-Jugend –, considerando normale quell'atto sonoro mancato, la forma che nel frattempo aveva acquisito il possibile. Gli animali si abituano in fretta al mutare delle cose, e quando invecchiano non giocano più a barattolo e pallina, non vanno a correre ai giardinetti con le scarpe tecniche e i fuseaux fosforescenti, come fanno i pensionati. Sonnecchiano, semplicemente, ogni tanto aprono un occhio per richiuderlo subito dopo. Ed è quello che ho fatto anch’io quando mi sono accorto che non so più fischiare.

Amok, o sulle metamorfosi quotidiane

Camminando, come tutti i giorni, nel bosco dei Bordighi, ho calpestato un ramo scuro che ha cominciato a dimenarsi. Non era un vero ramo naturalmente, ma una biscia d'acqua da me confusa per distrazione. Stavo perlustrando tra le fronde delle robinie con in sottofondo il primo album degli Atoms for Peace. È una strana esperienza osservare l'inanimato prendere vita, come una pellicola proiettata in senso inverso, come se si potesse ritornate dalla morte. Quella, mettiamo, di un passero raccolto sul marciapiede: cuoricino che batte all'impazzata, cuoricino, un attimo dopo, che si arresta tra le dita. Non è morto a causa delle ferite, ma di spavento per le mani che cercavano di soccorrerlo, offrendogli una culla che si è trasforma in sepolcro. Ma perché, in questo caso, anche il nostro cuore accelera, si colma di tristezza, e invece per la biscia non gioiamo, avremmo preferito che anche il ramo fosse ricacciato nella fissità della morte? Esiste un simile episodio nel capitolo sette dell'Esodo, quando Dio manda Mosè e Aronne dal Faraone. Il Faraone chiederà un miracolo, dice Dio ad Aronne, in quel momento dovrai gettare a terra il tuo bastone, che diventerà un serpente. Ciò fatto, gli incantatori del Faraone replicarono gettando anche i loro bastoni, che pure divennero serpenti. Ma il bastone-serpente di Aronne li ingoiò tutti. Nel frattempo, la biscia d'acqua – lunga, nera, i movimenti sinuosi dei rettili quando strisciano – si era rifugiata dietro un cespuglio di sambuco, accompagnata dalla nona traccia che dà il titolo all'intero album. Amok. Lo stavo ascoltando con enormi cuffie bianche, associate alla mascherina mi rendevano simile a un esperimento post umano. Nelle regioni del Sud-est asiatico, della Malaysia, dell'Indonesia e della Nuova Guinea, con il termine amok ci si riferisce a una condizione temporanea di perdita di coscienza. Il soggetto colpito dalla sindrome, recita Wikipedia, dopo una breve fase di ritiro relazionale, aggredisce dapprima i familiari e poi gli estranei, in un crescendo incontrollabile di furia omicida. Nell'accesso di violenza corre velocissimo per le strade e tra i campi per poi, infine, accasciarsi. La manifestazione di violenza è poi seguita da amnesia e malinconico esaurimento.

sabato 14 agosto 2021

Io e noi, o su vaccini e filosofia


Un famoso scrittore mio coetaneo ha dichiarato che si suiciderà se dovessero introdurre l'obbligo dei vaccini, e in particolare di quello per prevenire il Covid. In realtà, in Italia già esiste l'obbligo per alcuni vaccini – con la Legge di conversione numero 119 del 3 luglio 2017, da quattro sono stati portati a dieci – ma non riguardano gli adulti, oltre a non essere previste azioni coercitive in caso di rifiuto da parte dei genitori.

Ho molto apprezzato alcune opere dello scrittore in questione, e anche lui mi sembra una persona carica di umanità. Mi rifaccio dunque a un esempio alto, a una persona che stimo, per fare alcune considerazioni generali sull'argomento.

Se addirittura viene preferito il suicidio all'essere vaccinati, la salute del corpo smette di essere il motivo che sottende all'opposizione – con il vaccino esistono remote probabilità di avere effetti collaterali anche gravi, mentre, con il suicidio, gli effetti esiziali sono certi – e a essere chiamata in causa è piuttosto l'inviolabilità del corpo.

Appaiono così del tutto inutili gli appelli alla ragione sanitaria dei no vax, quando le motivazioni si collocano su un piano simbolico, emotivo, in taluni casi possiamo azzardare la psicopatologia. Ma sarebbe sbagliato liquidare la cosa a questo modo, e mi sembra utile aprire il campo anche ad altri sguardi. Ad esempio quello della filosofia. 

Ciò che ci sta dicendo il bravo scrittore è che un numero rilevante di persone vive ora il corpo come qualcosa di estraneo alla sfera comunitaria (ci si vaccina anche per non contagiare gli altri), e viceversa un luogo che non può essere violato, un luogo sacro.

Per gli antichi romani, chi trasgrediva le leggi che regolavano il rapporto tra la città e gli dei veniva chiamato a questo modo: sacer, sacro. Un titolo che revocava automaticamente lo status di civis, confinando il reprobo in un limbo pregiuridico, in cui poteva essere ammazzato da chiunque ma non perseguito. Nessuna relazione era consentita con il suo corpo vivo, anticipando curiosamente uno scenario pandemico: carne infettata dal peccatum, da non sfiorare neppure per non essere contaminati, come nella casta indiana degli intoccabili. Perciò il sacro andava posto fuori, reso o-sceno, sciolto dai vincoli ma anche dai diritti comunitari. Tra cui, appunto, diremmo ora, quello di essere vaccinati.

Una pratica superata con l'affermarsi del cristianesimo, in cui il corpo diventa il tempio dell'anima, ma soprattutto attraverso la formazione del pensiero giuridico moderno, che viene fatto risalire all'Habeas Corpus act., approvato in Inghilterra nel 1679. Fu un documento di grande emancipazione civile, in cui veniva sottratto il potere – potere sul corpo, ancora – ai signorotti locali, per restituirlo all'autorità centrale che poteva invocare la presenza fisica dell'imputato in un regolare processo, consentendogli di difendersi dalle accuse. Il corpo diviene così la sede del diritto, è questa la novità introdotta dall'Habeas Corpus. Ma quel diritto si gioca in una sottile dialettica tra corpo e legge.

In un sentire nuovo e contagioso (mai aggettivo fu più funestamente appropriato...) a nessuna autorità è però consentito di "avere il corpo" di un libero cittadino, se non al corpo stesso. Se ne ricava che il sentimento di comunità con la sua formalizzazione statuale, in un clima che potremmo chiamare di "sacralità" diffusa viene meno, e bisogna iniziare a prefigurare un mondo di corpi irrelati, sacrum homini che vagolano come bandiere a garrire per il mondo – ma bandiere pirata, senza tetto né legge.

Oppure, come nelle fantasie complottistiche più lugubri, immaginare un colpo di mano da parte di un potere che intenda riprendere possesso dei corpi, e imporre non solamente i vaccini ma un controllo capillare del vivente, Michel Foucault chiamava questa torsione del potere biopolitica.

Gli scenari evocati dal romanzo di Orwell e rilanciati dalla lettera di Giorgio Agamben e Massimo Cacciari contro il Green Pass, non sono così del tutto estranei alla dimensione del possibile. Ma bisogna aggiungere che tale possibilità è suggerita, anzi e per paradosso promossa, da atteggiamenti non compromissori come quello del bravo scrittore, che intende interdire il proprio corpo a qualsiasi interferenza, chimica ma anche umana, ossia stabilire un confine invalicabile tra sé e ciò che percepisce come altro. Meglio della mescolanza con l'altro perfino la morte. In cui a essere cancellato è l'io, per non lasciare spazio al noi.

venerdì 13 agosto 2021

Pianti e rimpianti

Non sempre ho condiviso le posizioni di Gino Strada. Mi sembrava che la sua intransigenza morale gli impedisse, a volte, di cogliere le sfumature, ossia la complessità dei problemi. A posteriori, mi accorgo però che senza il filtro di un principio etico forte (e l'etica è sempre discrezionale) anche la complessità può facilmente trasformarsi in caos, confusione, nei casi più lieti baldoria. Non c'è insomma neppure conoscenza senza una morale che la orienti. E disorientati come siamo, più che il grigio che sta tra il bianco e il nero – con cui il fondatore di Emergency divideva il mondo, è inutile negarlo – finiamo col cercare un accomodamento in cui le cose smettono di offrirsi come insieme, alla maniera delle foto scattate alla terra dai satelliti. Piuttosto quello sguardo dal basso, da topolini spaventati, alla ricerca di un buco in cui fare tana, e accumulare le croste di formaggio che si sono riuscite a sottrarre alla cucina. Per questo, oggi, piango e già rimpiango Gino Strada.

giovedì 12 agosto 2021

Overton window, o sui dunque inespressi

Overton window, la finestra di Overton. Mi capita sempre più di frequente di imbattermi nel concetto elaborato dal filosofo e attivista statunitense John Overton, Wikipedia lo riassume a questo modo: “La finestra di Overton è un approccio per identificare le idee che definiscono lo spettro di accettabilità delle politiche governative.”

Chi ne parla, su giornali e social network, lo fa a ragion veduta in relazione alla pandemia, ma mi sembra che questi scritti contengano un elemento inespresso, una sorta di dunque in forma interrogativa: e dunque, cosa fare?

Non è un quiz, le risposte possibili sono molteplici. Ma gli stessi testi, in maniera altrettanto implicita, appaiono sbilanciati verso un’unica direzione, che semplificando potremmo far coincidere con l’appello contro il Green Pass di Giorgio Agamben e Massimo Cacciari.

Il dunque smette così di essere una domanda rivolta al lettore, e assume piuttosto la forma di un'esortazione sillogistica. Del tipo: sulla base di ciò che ti ho appena detto e, ancora di più, alluso, ci stiamo abituando a rinunciare ai nostri diritti fondamentali, libertà del corpo entro lo spazio fisico e sociale che lo ospita (tra cui quello, decisivo, di sputacchiare sulle olivette dell’happy hour), addirittura a farci infilare nella carne degli intrugli che modificheranno il nostro DNA, rendendoci simili a creature di Star Trek. Dunque, finestra di Overton, ribelliamoci ai politici impiccioni!

Ma esiste anche un altro dunque, e questa interpretazione lo richiama quale sua ombra arrischiata, doppio psichico. Dunque me ne frego di ciò che cercano di spacciarci come realtà esterna mutevole, a cui siamo chiamati ad adattarci. Continuo a vivere come se fossimo nel 2018, come se non esistesse, non solo, la pandemia, ma anche ciò che i filosofi del diritto chiamano stato d'eccezione. E fu proprio in virtù dello stato d'eccezione che, nella Londra bombardata dagli Stuka nazisti, fu stabilito il coprifuoco, senza suscitare alcuna rivolta popolare. Dunque non si poteva uscire a ballare la sera? No, non si poteva. E nemmeno mettere le lucine all'albero di Natale.

Dunque, seguendo lo stesso filo paralogico, che del sillogismo rappresenta un’ingannevole perversione, in Gran Bretagna ancora vivono in un regime poliziesco? La teoria della finestra di Overton suggerisce infatti un'assuefazione alle limitazioni della libertà, le abbiamo già incontrate nella forma di “accettabilità delle politiche governative”.

Beh, non proprio... Terminata la guerra la finestra si spalancò con un colpo di vento, e, come in una celebre canzone, si ricominciò a cogliere i funghi dietro la collina finalmente sgombra dal nemico, e a farci fare l’amore, l’amore dalle infermiere. Detto in altre parole, una democrazia con salde radici istituzionali è anche elastica, e sa distinguere tra costitutivo e provvisorio, tra stato di diritto e stato d’eccezione.

Ma la canzone che ora va per la maggiore è un’altra, appartiene allo stesso periodo ma il refrain recita l'adesso della vita, la vita è adesso, e ogni dilazione al piacere viene vissuta quale intollerabile ingerenza, secondo ciò che il filosofo Romano Madera ha battezzato con un felice neologismo dantesco: “licitazionismo”. Ossia tutto deve essere lecito, disponibile, consentito. Proprio come nel canto V dell’Inferno, versi 55-57, in cui parlando della regina degli Assiri Semiramide così viene descritta: “A vizio di lussuria fu sì rotta \ che libito fè licito in sua legge, \ per torre il biasmo in che era condotta.”

L’invito, dunque, sempre un dunque va scovato tra le righe, è a vivere come se quella accanto a Pompei fosse solo una montagnola senza punta, correva l’anno 79 dell'era volgare. Poco importa se invece è un vulcano che continua a vomitare lava e lapilli.


La Taunus del signor Pittino


Nelle mattine invernali che seguivano un’intensa nevica notturna, i due palazzi, affiancati, al civico 10 e 8 e di via Parolo, si popolavano di sguardi dalle finestre e dai balconi. Erano puntati al cortile ancora coperto da un velo bianco e soffice e intonso, in attesa della Ford Taunus del signor Pittino. Chi non aveva ancora fatto colazione si affrettava, poi raggiungeva gli altri dopo avere indossato un indumento pesante.

Il signor Pittino era il padre di un mio amico, nel salutarli sotto la pensilina dove si trovava il bar della Pelosa, ci si andava solo in estate a prendere i ghiaccioli rossi, ciò che li differenziava era l'attributo nominale: signore, via il signore ed ecco il mio amico, il Pittino; tanto lungo e secco quanto il padre era espanso, ne sembrava la radiografia. Completavano la famiglia la Pittino, l'altra figlia con i capelli a caschetto e quei tre o quattro anni più di noi, a renderla desiderabile e misteriosa, e la moglie che si risolveva in quel vincolo benedetto dal parroco, o in alternativa nella funzione di madre. Madre dei Pittino, nessuno ha mai conosciuto i loro nomi di battesimo.

Intanto, qualcuno diceva di aver sentito rombare un motore nei garage. Il più delle volte si trattava di un'anticipazione illusoria, ma prima o poi compariva l'automobile con alla guida un omone serissimo, quasi corrucciato, che tentava di risalire le due rampe che separano dal cancello d'entrata, condiviso dagli edifici. Parallelepipedi un po’ anonimi, funzionali li si definiva per nobilitarli, sbocciati da un giorno con l’altro attraverso l’impollinazione del boom economico, e abitati da quella piccola borghesia per cui la parola futuro possedeva ancora un senso.

Due rampe solamente, dicevamo. Un'operazione semplice montando delle normalissime catene da neve, tutti gli altri condòmini lo facevano, o i più laboriosi e altruisti scendevano a spalare e poi spargevano il sale in grani, in un gesto identico alla semina di cui rappresenta il corrispettivo mutato di segno: generare la vita e cancellarne la possibilità, curiosamente la stessa figura. Una figura da cui veniva esonerato il signor Pittino, che forse considerava entrambi i gesti poco virili, le cose si ottengono in un agone senza dilazioni e strategie, muso a muso con gli intralci del fato. Uomo asburgico, dai baffetti rossicci e il riporto dello stesso colore, parlare non era il suo forte. Iniziava così lo spettacolo.

Arrivato a metà della prima rampa o, nei tentativi più fortunati, alla seconda o perfino al culmine, il veicolo cominciava a scivolare indietro piano piano, l'effetto di una pellicola cinematografica a cui venga invertita la rotazione delle bobine. Si diffondevano allora mormorii di disappunto, ma i più cinici non nascondevano un sorrisetto divertito. "Dai Pittino, la prossima volta ce la fai!" gli urlava il ragionier Flematti sporgendosi pericolosamente, e lui ripartiva sempre più paonazzo in viso.

Non ricordo se sia mai riuscito nell'impresa, solo il bicipite sinistro dell'uomo; per via di una ferita di guerra si era gonfiato a dismisura e somigliava alle braccia di Hulk. L'unica differenza è che non era verde ma leggermente brunito, lo stesso colore della sua Taunus TC1 XL – però quella era metallizzata, un optional ancora poco diffuso e distintivo – a intrattenere i miei inverni quando i calendari cominciavano con il prefisso dell'Azerbaigian, e alla radio comunicavano che era scoppiata una bomba da qualche parte lontana, confusa, ricordava lo schermo del televisore prima dell'inizio di Zorro alle 16 in punto. La vita vera era quel cortiletto imbiancato, come lo zucchero a velo sul pandoro.

mercoledì 11 agosto 2021

Muhammad Ali come Maria Callas




Muhammad Ali come Maria Callas. Un'equivalenza che ho realizzato osservando un vecchio cane giocare ai giardinetti; era il più piccolo e acciaccato, ma si imponeva sugli altri cani. Entrambi nascono con una diversa iscrizione anagrafica: Cassius Clay e Cecilia Sofia Kalos. Non so se conoscessero il pensiero di Nietzsche, ma per diventare ciò che si è, sembrano pensare, il primo passo è quello di congedarsi dal nome di battesimo, e assumerne uno diverso come fanno i monaci nel prendere i voti. Con quel nome nuovo di zecca possono tutto, ma per breve tempo. Poi inizia un lunghissimo declino, in cui alla voce della Callas sfuggono note che fino a un attimo prima erano grappoli d'uva su una pergola, bastava allungare la mano e afferrarle, mentre il corpo di Ali incassa colpi pesantissimi, si piega, barcolla, utilizza le corde come rifugio da una sconfitta che appare inevitabile e imminente. Ma c'è sempre un momento, negli spettacoli della prima e negli incontri del secondo, in cui la volontà subentra al destino, e lo ribalta. È la rapida serie con cui Ali atterra Foreman nel match del secolo, Rumble in The Jungle, dopo avere fatto da pungiball per sette interminabili round, o la commozione istrionica, il timbro, la gestualità con cui la Callas riesce a superare (e vincere) i subentrati limiti vocali, causati da una malattia degenerativa dei muscoli che la consuma da dentro. Tutto il resto li divide: gli yacht di Onassis; le battaglie civili a fianco di Malcolm X; le vacanze e l'amore impossibile per Pasolini; le smorfie e le sbruffonate futuriste. Al netto del setaccio della cronaca, rimane la farina purissima di due figure, fin troppo umane, che vengono trasformate dal talento in divinità; ma allo svanire progressivo di quel talento precipitano dalle pendici dell'Olimpo in mezzo agli uomini, alle donne, ai cagnetti acciaccati, diventando finalmente e per sempre ciò che sono. E per questo li rimpiangiamo.