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sabato 21 giugno 2025

Il viaggio del criceto (mi ricordo 32)

 

Mi ricordo che a ogni primavera c’era un oggetto, perlopiù si trattava di un capo di abbigliamento, come un dio moderno e un po' fru fru emergeva da coltri di nubi vaporose, imponendosi abbagliante alla vista per richiedere il tributo dei fedeli, che prontamente si genuflettevano nell'offertorio laico degli acquisti. Il battage pubblicitario, versione aggiornata del catechismo, a posteriori mi appare minimo, e con eccezione dei jeans Jesus (“chi mi ama mi segua” stava scritto sopra un bel culo di femmina) era davvero il fato a stabilire quale dovesse essere l’epifania stagionale del sacro, che solo per eufemismo veniva chiamata moda. Faccio fatica a individuare una cronologia, ma nella memoria fa capolino, da principio, la t-shirt del film di Celentano Yuppi-Du, a cui associo le magliette Fiorucci con due putti che campeggiavano sul petto di ragazzi un poco più grandi di noi; quale surrogato, ci restavano le Fruit of the Loom: rigorosamente bianche, potevano avere l’effige grande – un paniere di frutta di stagione, come recita la formula inglese del brand – oppure più piccola e discreta, stampata proprio sopra al cuore. Quindi, in ordine sparso, le scarpe sportive Tepa oppure Mecap; la spessa suola in materiale plastico veniva percepita come morbida, a conferma che una potente fede riesce a modificare anche le informazioni dei sensi. Si continua con giacche a vento leggere ripiegabili a marsupio, il marchio è tornato in auge e si distingue per il cromatismo della fettuccina su cui scorre la cerniera; ancora jeans, ma questa volta Wrangler, Levi’s, Lee, Roy Roger’s, Jean's West; nelle sere estive si indossavano gilet di cotone Benetton color pastello anche se si schiantava dal caldo; un camicione dai colori sgargianti e disegni geometrici spopolava sulle spiagge, dove veniva venduto da africani itineranti (allora non li si chiamava ancora “vu’ cumprà”, ma non era ritenuto offensivo il termine negr@), mentre tra noi bambini si convenne che fosse la blusa di Sandokan; il Montgomery, o Duffle Coat, segnò l'irruzione dell'abbigliamento militare nel cazzeggio sul corso, più tardi replicato dai bomber degli aviatori americani, giacconi camouflage, bermuda con le tasche laterali; si distinguevano i compagni dall’eskimo verde e i camerati dal giubbetto di renna con i polsini a calza; negli inverni innevati erano i Moon Boot a tenere banco, nella doppia versione plastificata e pelosa; l'egemonia dei Ray Ban venne brevemente contesa da occhialoni da sole giganteschi e neri, a cui seguì una più smilza versione a specchio da sci: al centro della montatura in celluloide il galletto tricolore, simbolo della Francia; rientrati dal mare si continuavano a calzare le ciabatte infradito e quelle in lattice semitrasparenti, da scoglio, che effettivamente erano molto comode per cercare i granchi negli anfratti calcari, meno per giocare a calcetto all'oratorio Don Bosco; gli zoccoloni olandesi e gli stivaletti con la cerniera e le espadrillas e le Clarck’s, a suddividere nuovamente la mistica del consumo in categorie antropologiche alternative, ma tutto sommato complementari; i pantaloni a zampa di elefante non hanno bisogno di commento; la minigonna la minigonna la minigonna, bisogna ripeterlo almeno tre volte per sottolineare quanto quel fazzoletto di tessuto fu dirompente; i più desiderabili erano però gli indumenti ottenuti con i buoni di altri acquisti, io e mia cugina avevamo la maglietta gialla del formaggino Tigre, mentre mio cugino più grande gli aveva preferito quella di Yuppi-Du, da cui siamo partiti. Ed era davvero un partire per ritornare, una circolarità scandita da mode che avevano la puntualità ricorsiva delle rondini, dove l’abbigliamento non serviva a distinguere ma a farti sentire come gli altri, incorporava in una trascendenza incarnata e totalmente democratica. Fu con gli anni Ottanta che le cose cominciarono a mutare: la promiscuità festosa delle vesti, senza darlo a vedere alla maniera del trucco di Silvan, venne sostituita dalla versione pop del concetto junghiano di individuazione; a garanzia di unicità, la firma dei sarti che cominciavano a venire chiamati stilisti, brutto segno... Si affermò così una disposizione elitaria: non indosso, come negli anni Cinquanta, la giacca grigia e la camicia azzurra perché lo fanno tutti, ma esibisco l’aquilotto Armani per essere diverso dal branco. In realtà, fu una mutazione gattopardesca, e continuammo a vestirci allo stesso modo, solo spendendo il quadruplo per avere la pecetta Stone Island a fare da bandiera sulla manica sinistra, sorta di proto tatuaggio indolore del conformismo balneare. A conforto, l’illusione dei criceti che questo muoversi da fermi rappresentasse un viaggio: verso il vertice sociale, il top, il privé del Billionaire, e non più rannicchiati nel tiepido ventre della storia.

giovedì 23 novembre 2023

Inappropriate, o sull'ordine simbolico e la meraviglia

La differenza tra la vita e il cinema, ti dicono, è che nella prima il male accade, così, semplicemente e senza un senso, mentre nel secondo è un segno, rimanda quasi sempre a un'idea di mondo. Un mondo ammalorato, appunto, che grazie a quel segno lo spettatore si presume possa riconoscere, prendendone le distanze.

Eppure, a volte anche le storie della vita insinuano dei segni, ma per intenderli dobbiamo guardarli come se fosse un film, puntellato da reconditi messaggi creati ad arte dal regista, dallo sceneggiatore e perfino dal costumista.

Immaginiamo allora per un istante che la sorella della povera Giulia Cecchettin, Elena, sia un'attrice, e che l'orrenda felpa con la quale ha rilasciato le interviste fosse un abito di scena, si è addirittura parlato di satanismo. Il commento più ricorrente è però stato di inappropriatezza: non ci si presenta in pubblico conciate a quella maniera, a maggior ragione quando tua sorella è appena morta.

Nell'ipotetico film che interpreta, non si potrebbe trovare migliore aggettivo per commentare l'intera vicenda: inappropriata, che sta a significare di non proprietà, ciò che si porge non contiene l'ipoteca di nessuno, e perciò lo si può anche revocare.

Elena Cecchettin è dunque stata davvero inappropriata, almeno in senso letterale, come lo era la sorella Giulia: entrambe fuori dal possesso di un solo uomo o di un'intera benpensante comunità. Di più. Tutte le donne, ma in fondo tutti senza distinzione di genere, dovrebbero essere inappropriati, sia nel lasciare la persona che non si ama più, sia nell'indossare indumenti di discutibile gusto. O meglio: il proprio gusto.

L'unica proprietà che un'altra persona ha su di noi è quella di inviare segni, a cui, a nostra volta, abbiamo proprietà di corrispondere o meno. Quando si realizza la corrispondenza abbiamo amore, amicizia, comunità. Diversamente, quei tizi che stanno al bancone a bere da soli, nei pub inglesi li chiamano sad bastard.

Possiamo anche intendere l'ordine simbolico come il codice del gruppo, e la meraviglia un'inattesa singolarità che non nuoce, ma disorienta e fa pensare. Forse per questo Aristotele sosteneva che la filosofia proviene dalla meraviglia. L'abbigliamento di Elena Cecchettin diviene così un gesto filosofico meraviglioso, in cui l'abituale – andare in tivù compunti e contriti a esibire il lutto – viene rielaborato in nuova forma. E dopo il primo stordimento, le sono grato per avermi arruffato i pensieri.

martedì 30 ottobre 2018

Le cose che parlano, o sul farsi taciturno delle cose


Tema: pensa ai momenti di maggiore appagamento della tua infanzia. Cerco così nella memoria, perlustro recessi segreti o poco frequentati, ma alla fine scorgo solamente degli oggetti. Non un tramonto sul mare, mio nonno che munge la mucca Carluccia, il primo canestro segnato a mini basket… Tutte esperienze bellissime, ma vuoi mettere entrare in un negozio chiamato Piccola Città e uscirne con una confezione nuova fiammante di Lego?
Ci furono in seguito le scarpe da ginnastica Mecap, prime ad avere la voluminosa suola bianca in polimeri; la giacca a vento azzurra della K-Way – mi vedo correre nel cortile della scuola sotto il sole di maggio, toglila dice la maestra, sudi, e io che sudavo e correvo e non l’ho tolta –; il Big Jim che a un preciso tocco sulla schiena sferrava il micidiale colpo di karate; un castello medievale per i cavalieri teutonici della Airfix, il ricordo qui è vago, grigio come il suo colore; l'autopista Polistil con la replica della Lancia Fulvia di Munari e Mannucci; e che dire della pistola Oklahoma, nascosta in solaio per non essere scoperta dai miei genitori; il Subbuteo però non sono mai riuscito ad ottenerlo, al contrario di Federico che possedeva anche la bicicletta Saltafoss tutta cromata d'oro purissimo; e poi una t-shirt Fiorucci con gli angioletti e una Fruit of the Loom con, appunto, la variopinta immagine della frutta di stagione, in quella cornucopia che si apprestava ad essere la mia vita, o per lo meno così pensavo. Per finire – si fa per dire, perché gli esempi sarebbero numerosi – ci furono i jeans della Jesus, con il blasfemo invito “chi mi ama mi segua” che tanto fece infuriare Pasolini.
Semplici cose, si dirà, merci, a sancire la mia piena appartenenza alla stirpe dei baby boomer, figli di quella che fu definita la deriva consumista; un termine che faceva storcere il naso ai vecchi filosofi tedeschi quanto ai giovani marxisti, accomunati dallo spregio per la cultura americana dei consumi. Eppure non è vero che le cose non hanno un'anima, come tutti questi uomini dotti ripetevano un po’ a macchinetta. Gli oggetti di quel tempo remoto non solo avevano un’anima – un soffio leggero ma percepibile, il respiro di un gatto sul cuscino – ma anche una voce chiara e forte, che sapeva raccontarci delle storie. E sono le cose che parlano, come recitava il verso di una canzone di Battisti.
A prendere sul serio i racconti delle cose, primo fra tutti fu Roland Barthes, che si esercitò in una felice traduzione dal linguaggio "cosese" a quello nostro; linguaggio che la psiche profonda ha sempre parlato, senza che nessuno l’istruisse al riguardo. Più tardi arrivarono gli stralunati racconti di Aldo Nove, dove, anche lì, veniva offerto il microfono direttamente alle merci, per rintracciar
e l'eco sulle persone che ne venivano ammaliate, come Ulisse al canto delle sirene. Discorsi semplificati e vagamente paraculi, intendiamoci, ma pur sempre una narrazione che tentava di dar forma al trascorrere dei giorni; che in sé non hanno proprio nulla da dire se non l'implacabile cadenza del sorgere e decadere, prima di svanire.
Da qualche anno ho però l'impressione che le merci si siano fatte più taciturne, continuano a mostrarsi, ad offrirsi ammiccanti, ma parlano di meno. L'ultimo grande fenomeno di eloquenza di un oggetto è forse stato quello di Apple, per cui venne sdoganato il termine anglosassone di story telling: think different, e in effetti i prodotti della mela morsicata parlavano una lingua diversa e originale. Che era poi il vecchio alfabeto della seduzione o, meglio ancora, della proiezione seduttiva, che genera identità con sempre nuovi travestimenti.
I pubblicitari naturalmente continuano a imbeccare i prodotti con i loro slogan, ma quella voce si è fatta flebile, fatica ad arrivare, gli fanno il massaggio cardiaco ma non va oltre un debole rantolo. Niente a che vedere con quel vero e proprio coro che fu la moda degli eskimo e della Lambretta, o, nemmeno un decennio dopo che sembra un secolo, le Timberland arancioni dei boscaioli del Montana, per cui tutti accorrevano ad acquistarle per riconoscersi in un racconto collettivo, in cui la mia generazione procedeva fiduciosa camminando sulle suole a carrarmato antishock, che facevano superare gli ostacoli come gli stivaletti a molla di Paperinik.
Adesso invece solamente raccontini, cosettine, senza che nessun oggetto riesca davvero a imporsi come icona del nostro tempo, Andy Warhol andrebbe ora in bianco come la sua zazzera fluente. Magari abbiamo guadagnato qualcosa, siamo più liberi e non condizionati dal tanto deprecato consumismo, che entrava nella nostra anima per mezzo del cavallo di Troia offerto dagli oggetti. O forse qualcosa l’abbiamo persa: storie, miti in cui una comunità possa riconoscersi, che avevano il volto pacioso di Calindri mentre sorseggia un Cynar in mezzo al traffico dell'ora di punta. Miti davvero piccini piccini se paragonati a quelli di Orfeo e Euridice, Re Artù e i suoi cavalieri, Odino, e però sempre miti...
Non so, io una risposta non riesco a darmela. Ma se ancora vedo in giro una K-Way azzurra – pare che stiano tornando di moda, secondo quel principio ricorsivo a imitazione della digestione dei vitelli, per cui il nuovo è sempre una ruminazione del noto – auguro a chi l’indossa di non levarsela mai. Nemmeno quando corre, quando suda, quando fa l’amore. Uno scudo di tela sottile ma impermeabile e tenace, per dimenticare che prima poi l’intervallo finisce.

venerdì 21 maggio 2010

Grazie Fulvio, o sulla riconoscenza


La Fontana con soldino leisure wear, by Guido Hauser design, ringrazia di cuore lo scrittore Fulvio Abbate, testimonial della collezione primavera estate 2012 del nostro brand. Teniamo botta Fulvio, che a quelli della Fred Perry gli facciamo il culo!

A questo link è possibile vedere il video in cui Fulvio Abbate parla di noi.

giovedì 15 aprile 2010

Defilè, o sul defilarsi della vita dalle parole


Nei giorni scorsi ho pubblicato una collezione di magliette con la sigla di questo blog. Vecchie fotografie, perlopiù. Divi del cinema vampirizzati nell'ennesima attualizzazione a scopo di merchandising. Tutto vero, intendiamoci: le magliette sono state effettivamente realizzate. Ma anche tutto finto. Si trattava infatti e con evidenza di satira. La quale agisce per mezzo di un'adesione estrema all'oggetto che in tal modo si intende dubitare. Ecco, da qualche tempo io ho iniziato a maturare un dubbio sempre più insinuante: essere diventato qualcosa di assimilabile a un sarto, uno di quelli con le erre moscia e la cui massima aspirazione è farsi amico Simona Ventura.

Stiamo parlando di moda, insomma.

Il meccanismo della moda è semplice. Si prenda uno stile tradizionale dell'abbigliamento, uno qualsiasi, e lo si scorpori dal significato originario, il galateo sociale, lo schema antropologico o anche solo dalla funzione termica che aveva accompagnato la manifestazione di quella maniera dell'abbigliarsi. Quindi lo si ricomponga con altre citazioni estetiche, mescolanze ornamentali ed eccentriche, esercizi anche estremamente accurati della forma. O detta in altre parole, la moda trasforma un segno collegato a un codice umano precedente, cioè una testualità anche se solamente allusiva, ma riconosciuta, in un elemento di pura evidenza spettacolare, in competizione con altri segni ugualmente privi di una qualsiasi referenza all'esperienza vissuta.

Jean Baudrillard, uno tra i più acuti osservatori del sistema della moda, già aveva intuito come sulle passerelle si defili il segno da ogni significato residuo. Bene, la mia adesione satirica al medesimo meccanismo, per quanto nella pratica anch'essa seria e reale, contiene allora un sospetto ulteriore. Chiamiamola circolarità viziosa, tautologia. Come se il diffondersi del fenomeno contemporaneo dei blog celasse al fondo una contesa quasi primitiva, meglio animale, cani che orinano sopra allo schizzo altrui per affermare il proprio, depositando segni a casaccio in un universo testuale che tende all'irrilevanza comunicativa...

I blog rappresenterebbero in tal caso l'estensione del sistema della moda all'unico enclave che fino ad ora aveva provato a resistervi, l'antico gioco combinatorio dei Sumeri quale luogo che ancora rivendicava la presenza di un senso, di un rapporto vivo tra cose e simulacri; ma anche tra persone che quei segni si scambiano nel mercato dell'esperienza.

La scrittura che capitola, dunque, la scrittura che si arrende e corre in soccorso del nuovo sovrano della rappresentazione fine a se stessa...

E' solo un dubbio, ripeto. Una domanda. La quale paventa una sorta di grado zero della relazione umana. Dove la composizione di un testo, che pure si accorda a una tradizione e a una regola sintattica e grammaticale sempre più lasca, finisce con l'esaurirsi in un esercizio di arredamento delle proprie stanze; o al limite all'ammiccamento dentro i codici di un clan che approva in via preventiva, come le firme che in banca ti chiedono di scarabocchiare sopra a interminabili protocolli.

In questa prospettiva si spigherebbe anche la consistenza quantitativa dei contatti dentro i blog, compreso il mio, senza che ciò produca un effetto di realtà. Si tratterebbe infatti di numeri che non fanno mondo, ma fanno moda. E perciò percepiti come il ticchettio dell'orologio che di notte ci rassicura sull'ostinarsi del tempo, carillon musicale da un'infanzia soffusa e presente. Contatti che cessano di produrre relazione quanto cognizione: solo flusso, alternanza delle maree. Che si mescolano e confondono come la birra e il piscio tiepido e suadente, dentro l'infinito budello degli orinatoi dell'Oktoberfest.

O come gli strass, i pon pon, gli allure e i glamour e i tres jolie che bijou: abbigliamento linguistico del nulla che connota una blatera ormai definitivamente priva di relazione con la vita, ma anche o soprattutto con la morte.

Io di questa potente macchina di insignificanza globale ne faccio parte a tutti gli effetti. E così, con la mestizia scanzonata di un'orchestrina nella sala da ballo del Titanic, ho voluto trarne le conseguenze più esplicite. Realizzando la mia personale collezione primavera-estate, la mia pisciatina su un paracarro senza polvere né agguato di trifoglio. Ma tanto trendy.

martedì 6 aprile 2010

Collezione primavera-estate by Fontana con soldino


















Di fronte a un plaudente parterre composto da calciatori, modelle, calciatori calciatori, modelle, calciatori... insomma, più che altro calciatori e modelle e Ignazio, che è un tipo che conosco, è stata presentata oggi la nuova collezione primavera-estate di Fontana con soldino.

Se da un lato i capi delineano un chiaro segno di continuità con la migliore tradizione sartoriale del bel paese - i vari Caraceni, Brioni, Borrelli - al contempo contengono quell'elemento in più di glamour e cool e trendy che ha suscitato un sussulto di gradita sorpresa nella folta delegazione della stampa di settore. Sono stati spesi aggettivi quali civettuolo, stiloso, giusnaturale, apotropaico, fenotipico.

Ignazio giura di aver sentito anche un ipersupercazzolare denaturato.

Una giornalista di una prestigiosa testata dell'underground uzbeko, in preda a una crisi di allergia al caviale delle numerose tartine distribuite al prestigioso evento milanese, ha commentato con "dabrilodova zupa curga anfraga daboba". Quindi ha starnutito, si è soffiata il naso e ha concluso: "Stik azzovsksij".

Ma a noi piace ricordare anche le belle parole di una modella, stava sotto l'ala possente di un calciatore in grisaglia Rocco Barocco e canottiera fucsia, che intervistata da una truppe televisiva di Teleradioallure, a ha così risposto: Guido Hauser... who is cacchio è?

Oh, yes, the stylist: he's very molto fico!

Quindi ha proseguito rivolta al giornalista della prestigiosa testata radiotelevisiva, But lui è even, how you say in Italy, finoccio...?


La giornalista Anna Piangi, dell'altrettanto prestigioso mensile Io sono ok tu sei ok, è subito intervenuta per sviare l'imbarazzo dei presenti, aggiungendo che questo Hauser è un outsider da tenere sott'occhio, lo aspettiamo al checking della collezione autunno-inverno. Se sarà un bear out a questi livelli di glamorosa excellence, di certo, attraverso un know how che non può che corroborarsi nel time after time, sarà lui l'interprete del post-macho 2012.

In quei già prestigiosi momenti, è arrivato anche un sms da una prestigiosa collega, già nota per altre occorrenze mondane ai lettori di questo prestigioso blog. Stava scritto: Sei prestigioso, caro Guido. Nostra nonna sarebbe orgogliosa di te. Di più, sei chicchissimo.

Lusingati per tanta unanime benevolenza, in anteprima per i nostri affezionati lettori pubblichiamo l'immagine di alcuni tra i modelli più apprezzati della serata. Ricordiamo inoltre che è possibile acquistare tutta la merce esposta attraverso la comune pratica finanziaria del baratto, anch'essa ispirata al trend che già si delinea per il 2012.

In pratica voi mi inviate qualcosa che ritenete bello, buono, congruo o semplicemente a cui tenete particolarmente, e io vi spedisco una o più magliette della collezione Dress yourself by Fontana con soldino, a vostra scelta.

E' sufficiente che voi mi indichiate l'immagine che compare sul fronte della maglietta che desiderate, la taglia (sono disponibili small; medium; large; x-large; xx-large) e infine il vostro indirizzo; o naturalmente quello della persona a cui intendete regalarla. A quel punto sarà mia cura farvela recapitare in un paio di settimane circa.

E se pensate che sia uno scherzo, no, non lo è. Fontana con soldino, da mercoledì 6 aprile 2010 e con una mossa di inconsulta autarchia sartoriale, ha deciso di muovere alla conquista di nuovi spazi espressivi, nel senso concreto della parola: luoghi fisici in cui incidere sogni, parole e sintomi del presente narrativo di questo paese.

Chi l'ha detto che il web si ferma al web, o che gli scrittori debbano stare al calduccio dentro le pagine magari finemente rilegate di un libro?

We are the world, we are the children...

Chiunque desiderasse dunque fare da superficie riflettente alla nostra nuova avventura (da medium, insomma, da dazibao), non ha che da mettersi in contatto direttamente con lo stilista Guido Hauser all'indirizzo di posta elettronica che segue:


In futuro verranno create anche nuove collezioni con testi, prose, poesie sempre by Fontana con Soldino design. Che è orgoglioso di essere ufficialmente un brand della penisola del sole e della moda e di Ignazio, che magari un'altra volta vi spiego chi è.

(ps -nelle fotografie figura solo una piccola parte della collezione primavera-estate. per l'intero catalogo rivolgersi allo stilista Guido Hauser)