domenica 21 agosto 2011

TQ, un’ipotesi messianica


TQ, vediamo se ho capito bene. Un gruppo di scrittori, intellettuali, operatori culturali e più specificamente dell’editoria, si trova, un paio di mesi fa circa, nella sede romana dell’editore Laterza. Oltre alla professione, l’altra condizione di appartenenza è di tipo anagrafico: i partecipanti devono essere compresi tra i trenta e i quarant’anni, da cui la sigla TQ.

Gli scrittori e gli editori trenta e quarantenni discutono quindi sulle questioni decisive della loro attività. E lo fanno con fervore, spesso anche con acume intellettuale, umana generosità e qualche trascurabile vezzo. Tutto ciò ha un risvolto politico evidente: non si scrive solamente per sé, ma, c’è da sperarlo, per una comunità umana di cui si ha viva percezione. Dunque anche il lavoro editoriale possiede un risvolto politico, intercettando la narrazione che un Paese produce spontaneamente.

Tale implicazione politica del lavoro editoriale in TQ mi pare però che lieviti fino a diventare totalizzante. In fondo è naturale, direi addirittura saggio, che una categoria professionale (categoria spesso divisa per prassi individuale di lavoro) avverta il desiderio di incontrarsi. E dall’incontro il confronto su temi specifici o, appunto, e all’opposto, sulla generalità del proprio fare.

E’ viceversa una condizione atipica quella di un gruppo particolare – perché di questo si tratta – che si assegni un ruolo universale. Atipica ma non impossibile, e narrativamente documentata. Ritornano alla memoria quei racconti mitologici dove un eroe, o perfino un intero popolo, vengono investiti da una Forza superiore (in questo caso potrebbe trattarsi del Talento), che con stigma battesimale gli assegna un ruolo salvifico per l’umanità. Le successive azioni mirabolanti e perfino sacrificali non saranno quindi nel nome proprio dell'eroe: ma della Forza, che ne informa i gesti e tramanda la memoria.

Se ci pensiamo, tale schema sta alla polarità opposta di una logica corporativa, dove un gruppo limitato di persone si preoccupa – e unicamente si occupa – di tutelare i propri interessi privati, spesso a danno dei più.

Ciò che ho più apprezzato nei TQ è dunque e proprio l'impostazione “anti-corporativa”, se così la possiamo chiamare. Ma mi ha pure inquietato un po'. Qui infatti non si tratta solo di fare il proprio lavoro con perizia e responsabilità, come è stato suggerito da qualche scettico, tra cui spicca l’assennato intervento di Giulio Mozzi. Oppure, con una passione che tradisce il suo ruolo defilato, da Giorgia Fontana: che minaccia addirittura di incazzarsi “sul serio”, se i propositi operativi del manifesto dei TQ non verranno rispettati.

Eppure, a me sembra evidente che non ci troviamo al cospetto di una semplice espressione, benché opportunamente formalizzata, di intenti pragmatici e funzionali. Piuttosto qualcosa che ricorda l’ipotesi messianica appena descritta: l’eroe giovane e illibato che salva non solo la società letteraria vecchia e corrotta, ma la società tutta, il mondo intero.

O detta in altre parole: questa è mitopoiesi, prosecuzione del lavoro letterario con altri mezzi, non la normale pratica di una gilda professionale equilibrata e responsabile.

Da gruppo particolare ed esclusivo, i TQ si propongono così di salvare l’Italia dal berlusconismo, emendare la decadenza diffusa dei tempi, sconfiggere la barbarie morale. Senza voler aggiungere la mia gocciolina al mare già troppo agitato della polemica, mi limito a constatare che c’è qualcosa di avventuroso, se non di equivoco, in questa supplenza dell’azione politica da parte di un consesso virtuoso, ma comunque caratterizzato per anagrafe e professione.

Insomma, mi sentirei molto più rassicurato se fosse il solito eroe efebo e biondo a trafiggere il drago. O, in una più mesta alternativa, vorrei continuare a essere rappresentato da una normale dialettica democratica. Dove l’età non fa da discrimine a una partecipazione attiva, e ancor meno l’occupazione.

lunedì 15 agosto 2011

Brutta fine, o su come andare a ramengo col sorriso sulla bocca


Forse finire male, pensavo questa sera, ferragosto, la ribollita Arnaboldi che borbotta in un pentolino troppo piccolo, forse finire male o fare una brutta fine non è lo stesso che morire, sono cose profondamente diverse. Perché morire, oltre a essere un fatto naturale, prima cucchiata di ribollita in quest'estate già autunnale, morire è anche o soprattutto una tragedia. Ossia un evento intimamente paradossale, un dover essere – morti – che si contrappone a un dover essere altrettanto urgente: vivi, essere ma soprattutto rimanere vivi; almeno in quella parte di noi che non riesce a pensarsi se non come presenza, eternità concentrata in puntino che dice io. Nemmeno il linguaggio, riflesso sedimentale dei processi cognitivi, dispone di strumenti per render conto di questa condizione scissa: esprimere soggettivamente l'inconsistenza del soggetto, indipendentemente dal tempo in cui si voglia coniugare l'evento tragico. Da ciò deriva che anche l'inesistenza anteriore, la vita prima della nostra vita, è impensabile e dunque indicibile, qualcosa di scandaloso. Ma finir male, fare una brutta fine, andare a ramengo o a scatafascio, sono espressioni che rimandano a tutt'altro orizzonte di senso. E in effetti, si finisce male non quando si finisca letteralmente qualcosa – la vita, nella fattispecie – ma per così dire la si pre-finisca, ritrovandosi confinati in un limbo che dell’esistenza individuale falsifichi la premesse ideali, scaturite dal suo fondo sommerso e desiderante. In altre parole, fare una brutta fine corrisponde a smentire il proprio inizio, a tradire l'immagine di sé simbolizzata in una fase precedente. Eppure, in questo diffuso declinare delle attese giovanili, il più delle volte non si consuma una vera tragedia. Anzi è tutto all'opposto della tragedia (che come abbiamo visto nasce da una biforcazione delle istanze vitali), e cioè un processo dialettico di adeguamento alle condizioni esistenti, alla contingenza della vita quand'anche dolorosa o meschina. Mentre vivere in un orizzonte tragico equivale a rifiutarsi, intimamente sottrarsi alla scorciatoia di far necessità virtù, come si usa dire come monito virtuoso. Deve essere questo il motivo per cui attorno a me, tra i miei conoscenti, gli amici e fino al riflesso dello specchio che restituisce il mio profilo dentro una nebbia soffusa, non vedo esistenze realmente tragiche o disperate. Semmai mi ritrovo in un girone di ignavi, ma in fondo conciliati con la vita, se non mai con se stessi. L'immagine potrebbe essere quella di un vecchio carrozzone, affollato degli interpreti di un circo itinerante e sgangherato: ammaestratori di pulci, donne barbute e pagliaccetti che conducono esistenze contraffatte. Ma quando si accendono i riflettori e si ritrova al centro della pista, la combriccola diviene esuberante e festosa, si fan scherzi l'uno con l'altro e perfino le puzzette, incolpando poi quello più magrolino o con l'abito da Pierrot. Sì, tutta gente che va a finire male, malissimo e anzi già ci sono finiti: una mala vita, una vita che non è quella su cui avevano appuntato il loro distintivo scintillante. Eppure hanno, anzi abbiamo un sorriso appena accennato sulla bocca, mentre mangiamo la zuppa Arnaboldi in ampie e ricche cucchiaiate. Un sorriso, sì, un sorrisino come quello del monaco Zen, che muore sognando di vivere nel migliore dei mondi possibili...

domenica 14 agosto 2011

Noona, o sull'infinita reversibilità dell'esperienza


Uno dei rimproveri più frequenti che mi faceva mia madre, da bambino, era di non aver arrotolato bene il tubetto del dentifricio. Ma anche quello della maionese. Ma anche quello del latte condensato. Ora che ci penso, il mondo si presentava con un’incidenza maggiore di adesso nella forma di tubetto, quando ero bambino, intorno alla metà degli anni settanta.

Negli anni settanta lasciare del dentifricio – e della maionese e del latte condensato – in un tubetto mal arrotolato equivaleva certamente ad uno spreco. Ma non solo. Mi accorgo infatti che, nel rimbrotto ricorrente e non sempre affettuoso di mia madre, ci stava una sfumatura di carattere che potremmo definire simbolico, e in ogni caso non semplicemente economico. E cioè prima di passare a un nuovo tubetto – dimenticavo: anche i tubetti del pomodoro Star a doppia concentrazione hanno avuto un ruolo decisivo nella mia infanzia, specie quando era mio nonno Pinin a spremerli dentro i toast con prosciutto cotto e bustine Kraft, con gran cura successiva nell’arrotolarli – prima di passare a un nuovo tubetto dicevo, come faceva Pinin, nemmeno una goccia di pomodoro Star da consegnare al bidone dell'immondizia, è necessario terminare l’esperienza del tubetto che abbiamo in corso.

Sì, ho parlato proprio di esperienza, non di utilizzo. E ciò perché, o almeno questa è la mia impressione, negli anni settanta si tendeva ad avere un rapporto diverso con la quantità di merci che iniziavano a riversarsi nelle nostre vite: un rapporto antropomorfizzato, potremmo dire, o comunque vitale, significativo. Acquistare un nuovo elettrodomestico – mettiamo un frigorifero o una lavatrice, per non dire un televisore a colori! – si trasformava infatti in un rituale festoso, a cui partecipava l’intera famiglia. Si usciva di casa il sabato pomeriggio, qualcuno ti vedeva vestito per bene, magari un tuo compagno di dottrina, Guido oggi non vieni all'oratorio, c'è un torneo di ping pong? Ma il compagno di dottrina non doveva nemmeno aspettare la tua risposta, perché dal modo in cui sorridevi già lo capiva: quel pomeriggio non potevi andare all'oratorio come al solito, era un giorno diverso, importante, eccezionale, perfino "più eccezionale" del torneo di ping pong: quello era il giorno in cui stavi andando a prendere il frullatore nuovo, insieme a mamma e papà...

Poi il frullatore veniva posato con delicatezza al centro del tavolo di soggiorno, come un cucciolo appena adottato e ancora tremante di paura; quindi scartato, traguardato prima da lontano e poi sempre più da vicino; infine veniva compulsato il libretto delle istruzioni, commentando tutti assieme e perfino sottolineando, con un evidenziatore Satabilo Boss. E ciò non solo per un'obiettiva ingenuità tecnologica, dei padri quanto dei figli, ma perché quel frullatore doveva funzionare fino a che non si guastava, si spera il più tardi possibile. Gli oggetti andavano cioè vissuti fino in fondo, non consumati come ora vogliono farci credere con lo spregiativo termine di "consumismo", e arriverei perfino a suggerire che bisognava ultimare qualcosa come una parabola esistenziale delle merci, che è cosa ben diversa dalla semplice funzione.

Ecco, lo stesso rapporto riguardoso e deferente lo si aveva anche nei confronti di un modesto tubetto di dentifricio Acquafresh, oppure di pasta d'acciughe Balena, di tempere Giotto. Quella era infatti pura esperienza del mondo, mica solo acciughine triturate, vampe di colore, onde bianche, azzurre e rosse di mineralsmalto al fluoro.

Mi sono ritrovato avvinto in queste tenere memorie di cose, robe, realtà tangibili ma non per questo meno astratte e affettive, ripensando alle recenti discussioni sulla differenza tra Twitter e Facebook. La forma di Facebook, si diceva, privilegia più l’elemento emotivo, di comunità espressiva e umorale, mentre Twitter favorisce l’emergere di contenuti razionali, lo scambio di informazioni. A tali network sociali numericamente più consistenti, bisogna poi aggiungere l’abbondanza di altre comunità che nascono e prosperano sul web, tra cui i siti, di cui ho già scritto diffusamente su questo blog, in cui è possibile ricercare l’anima gemella o l’amore di una sera. In ogni caso, e senza voler riprendere nel merito l’intera discussione, a me sembra che tutte le comunità su internet somiglino a dei tubetti mal piegati, e presto gettati via.

Intendo dire: uno degli effetti più rilevanti di queste nuove forme di relazione è che si tende a passare ad altro, a una nuova informazione su Twitter, uno scintillante e inatteso amico su Facebook, senza però aver strizzato il contenuto di esperienza che aveva da offrici l’amico precedente, o trasformato l'informazione in cultura per mezzo del decantare critico dell'esperienza. Anche con Meetic funziona a questo modo. Si passa da un potenziale amante al successivo, di promessa erotica in promessa, senza perlopiù esporci ad alcuna esperienza reale dell’Altro, in preda alla più moderna mitologia che è quella della reversibilità: tutto è sostituibile, rinnovabile, al punto che viene il sospetto che sia proprio tale condizione di eterna possibilità (una cornucopia obesa che erutta occasioni a getto continuo) a costituire il cuore umido del piacere tardo moderno.

L’esperienza è un vincolo, in altre parole, già che l’esperienza si fa memoria e la memoria limita l’eternarsi della possibilità, andando a definire il futuro entro le strutture costrette della ripetizione (possiamo chiamarla anche reciprocità, che è ripetizione simmetrica e volontaria). L’intelligenza dei tempi nuovi ha però saputo smarcarsi dall’agguato della ripetizione attraverso la mossa scacchistica dell’arrocco: al posto dell’esperienza, su Twitter, su Facebook e su Meetic, viene così celebrata la figura neo-mitologica dell'indefinita novità. Potremmo chiamarla Noona, sorta di musa contemporanea ma senza nome: perché il nome è il graffio formale dell'esperienza, e Noona non possiede alcuna esperienza del mondo, è senza passato ma nemmeno futuro, tutta compresa in un presente germinale e desiderante.

L’unica accortezza che dobbiamo usare per mantenerci dentro l'eterno, ma allo stesso tempo inaudito, mai verificato canto di Noona, è dunque quello di cambiare continuamente lo stimolo, prima che si traduca in esperienza. Ciò comporta l'urgenza di gettare il tubetto di dentifricio, l’amico, l’amante molto prima che sia terminato. E così all’infinito: di tubetto in tubetto, di flirt in flirt, di notizia in notizia in un viaggio che per definizione non può avere termine, quando la meta è il permanere in una condizione di eterna equidistanza da ogni compimento, ogni esperienza e infine anche ogni responsabilità. Responsabilità che in fondo non è altro che il debito significativo di una risposta, avvertito nel passato nei confronti di un interlocutore anche occasionale, e ora degradato a funzione plastica di ornamento.

Ci troviamo insomma dentro un guado storico, che muove dal terreno solido dell'esperienza significativa – potremmo chiamarlo il tempo pesante del giudizio morale – a quello mobile e fluttuante dell'inesperienza espressiva: lo spiluccare mai sazi, gli assaggini sul bancone dell'happy hour, e che potremmo battezzare di converso il nuovo tempo leggero, anzi light, del pregiudizio estetico. Ma in questa progressiva perdita di zavorra e consistenza delle nostre vite, siamo scortati da almeno un'utopia residua: che il nostro prossimo, in senso cronologico, sarà sempre meglio del prossimo evangelico e spaziale. O detta in una sola battuta: avanti un altro!

PS - Sul tema, consiglio la lettura di questo libro straordinario: L'autoreverse dell'esperienza. Euforie e abbagli della vita flessibile (Saggi. Arte e letteratura)

martedì 2 agosto 2011

Borghezio, o sulla polenta come fattore politico


Ecco, io pensavo, ma se Breivik scriveva invece che gli piace la polenta, sul suo blog o sito internet o dove cavolo scriveva, se Breivik scriveva questa cosa qui e non che bisogna difendere l’Europa cristiana, e bionda e con gli occhi azzurri non dimentichiamoci alta, anzi grande! , difenderla dall’invasione mussulmana, una razza piccola che di grande ha giusto i cammelli e le piramidi, per le quali in verità non ha fatto molto, se le è trovate lì già belle e fatte, e anche i cammelli, dal buon Allah, che a ben vedere poteva farli un po' meglio e con un po' di impegno e senza tutte quelle gobbe, poi deve aver fatto i dromedari, appena un filo più riusciti, perlomeno di gobba ne hanno una soltanto nel mezzo, non sta mica male, da cui deriva che quello sul pacchetto delle Camel è certamente un dromedario, non un cammello come vogliono farci credere, i mussulmani dicevo che sono molto ma molto più piccoli delle piramidi, con gli occhi neri e, pare, almeno così mi hanno riferito, svariati tra loro mostrano i segni inequivocabili di una cifosi dorsale, più comunemente detta gobba etc etc... No, semplicemente la polenta: Breivik scriveva che gli piace la polenta. E così Borghezio rispondeva l'intervistatore domanda e lui risponde, di solito funziona così che la polenta è un piatto condivisibile, usava proprio e ancora l'aggettivo condivisibile, specie quella con il formaggio fuso, la polenta taragna, che è addirittura altamente condivisibile, anzi ottima, come piatto, in particolare d'inverno per il suo alto valore nutritivo e calorico, a cui far seguire una bella grappetta e una sigarettina, magari una Camel, che è quella con il dromedario stampato sul pacchetto, ricordate, ecco, io pensavo, ma succedeva lo stesso tutto 'sto casino?

Voglio dire, e questa volta lo dico chiaramente: le idee di Borghezio sono oscene di per sé, per quel che dicono e si propongono di fare. Non per l'occasionale coincidenza con le idee espresse da altri, e nella fattispecie da Breivik, verso le quali ha manifestato il suo in fondo ovvio favore (Breivik scrive cose che Borghezio va ripetendo da anni...) durante un'intervista radiofonica. E cioè le idee di Borghezio sono oscene, stupide, aggressive, mortifere indipendentemente dal fatto che uno schifoso assassino le propugni pubblicamente, e viceversa. O detta in termini filosofici, proviamo a seguire questo sillogismo:

1) Anders Behring Breivik è un pericoloso pluriomicida, premessa maggiore.

2) Anders Behring Breivik ha dei pensieri, premessa minore.

3) Dunque, chiunque condivida i pensieri di Anders Behring Breivik è un potenziale e pericoloso pluriomicida, conclusione.

No, questo non era un sillogismo, era un falso sillogismo. Perché la presenza contemporanea, in Breivik come in chiunque, di comportamenti e di idee, non istituisce immediatamente un rapporto di consequenzialità diretta tra i due ambiti; che per altro neppure si escludono, sono per così dire compatibili. E in ogni caso se un criminale esprimesse il suo gradimento per la polenta o la pizza o qualsiasi altra cosa, non squalificherebbe automaticamente la polenta o la pizza o qualsiasi altra cosa. E ciò perché sono circostanze parallele, non verticalmente legate.

Sarebbe dunque utile non perdere il senso logico della concatenazione dei pensieri con i fatti, specie in questi drammatici momenti. E se stiamo a quelli, ai pensieri così come si mostrano, indipendentemente dalla contingenza dei fatti, ne abbiamo già a sufficienza per dire quanto sia scandaloso quel che pensano e affermano entrambi: Anders Breivike e Mario Borghezio. Che, per pura coincidenza, lo pensano e affermano assieme, ma che rappresentano due nemici assai diversi (sì, ho scritto proprio nemici).