sabato 23 febbraio 2019

C'era una volta la zitella, o sull'amore surrogato

Un tempo esisteva una parola bruttissima per dirlo. Zitella. Lo stereotipo popolare la voleva già anziana e col barboncino, su cui riversare i bisbigli amorosi o le cure materne (il pelo, ricciuto e vaporoso, tosato nelle forme più bizzarre, le mille sollecitudini), non avendo relazioni umane con cui ingaggiare le stesse emozioni.
Di alcune si narra fossero state lasciate alla soglia dell'altare; altre si percepivano troppo preziose per un uomo comune; altre ancora avevano patito l'ostracismo maschile, vissuto come la colpa più infamante: non essere abbastanza belle. Ma alla fine, la condizione di zitella ne faceva un unico popolo con un'unica legge. Quella del desiderio – negato.
Un tipo umano che, prima che nel cinema e nella letteratura, l'esperienza ripresentava puntualmente. Eppure ho sempre trovato qualcosa di meschino e di liquidatorio: non tanto nel fenomeno in sé (e le zitelle sono sempre esistite, è inutile nasconderlo) ma nel giudizio implicito che ne veniva dato, a far coincidere la zitella con una condizione imperfetta.
Come se esistesse una forma giusta per il sentimento, e questa rettitudine affettiva dovesse scorrere dentro gli argini di una famiglia e di un uomo solo; meglio se accolto con un bacio, odore di bergamotto e lavanda del dopobarba, la camicia azzurra in popeline, bacio da scoccare sopra a uno zerbino con la scritta welcome.
Tutto ciò che si discostava dal modello era motivo di riprovazione, come "l'arte degradata" di cui berciano i regimi totalitari.
Lo stesso spregio giudicante lo trovo ora nei confronti delle relazioni virtuali. È vero, c'è molto di immaginario e fantasmatico nei rapporti che si stabiliscono sul web tra sconosciuti, non di rado effimero, ma le emozioni che stanno dietro io le trovo autentiche. Di più: vere, come è vero l'abbraccio della zitella al suo barboncino.
In fondo già Freud aveva intuito, dietro l'amore, la perversione di un istinto naturale, che nel genere in cui apparteniamo prende la forma storicizzata della pulsione. Non una direttiva meccanica ma un'inclinazione a cui possiamo aderire oppure no, ma sempre in forma obliqua, unica, discreta, allo stesso modo della lingua con la metonimia.
Più che un'eresia sociale e più ancora dell'omosessualità, che pure rappresenta una delle numerose digressioni pulsionali, io guardo dunque alla zitella come all'inveramento della nostra natura, non a un suo errore. E gli amori sul web saranno allora una nuova forma di nubilato, potremmo chiamarla zitella 2.0.
In questi, quanto in quella, è infatti sintetizzata la disposizione infinitamente umana alla surroga; al mondo si consumano molte più uova di lompo che caviale, musica dallo smartphone che concerti. E così anche amori, amori surrogati o dipinti sul velo dell'immaginazione, amori in chat o su Facebook, amori irreali, almeno per chi ancora si ostini a considerare la realtà una materia che si tocca, e non questa mimetica evaporazione della cosa in segno, di cui facciamo esperienza quotidiana.
Ma la pienezza del sentimento sta proprio in tale mobilità del suo oggetto che, ridotto a un'essenza rarefatta, da sempre ci sfugge, rendendoci simili a un gatto che insegue la propria ombra. Prima ancora della psicanalisi l'aveva compreso Lorenzo Da Ponte, il quale, nei pochi versi di una della più belle opere di Mozart, ha scritto quella che potrebbe essere considerata l'epigrafe del genere umano.
Dovrebbero mandarla insieme ai dischi dei Beatles e il teorema di Gödel tra le galassie, alla ricerca di un orecchio alieno o anche solo di un barboncino, a cui sussurrare mentre lo pettiniamo amorevolmente:

Ricerco un bene
fuori di me
non so chi il tiene,
non so cos'è.

giovedì 14 febbraio 2019

Burattini, o sul passo breve tra Bar Piero e politica internazionale


Nel paesotto dove sono nato e cresciuto io, a pochi passi dalla Svizzera, incastrato tra due file aguzze di montagne, proprio di fronte all'ingresso della chiesa ci sta un bar piccino piccino. Sta scritto sull'insegna, miniaturizzata come tutto il resto: Bar Piero.
Quando mi capita di essere qui ci vado per l'aperitivo, contendendomi i pochi centimetri del bancone con quelli che, con un certo slancio iperbolico, potrei chiamare amici. I miei amici del Bar Piero, ecco.
Tra questi c'è un uomo, avrà circa la mia età ma le fattezze sono ancora da ragazzo, i capelli folti e scuri e un sorrisetto perennemente stampato sulla bocca, da cui spicca un dente d'oro, come certi pugili con cui non condivide altro. Lo chiamano Siro.
Se incontro Siro con un prosecchino in mano al Bar Piero, grandi pacche sulle spalle, come va e come non va, e poi subito vuole parlare di filosofia. Di filosofia?! Proprio così, avete letto bene: Platone, Schopenhauer, Nietzsche, mentre gli altri clienti si scannano sull'ultimo rigore concesso o negato alla Juventus.
Tutto pare abbia avuto inizio una trentina di anni fa, quando, dopo aver assistito a una puntata del Maurizio Costanzo Show in cui era ospite Umberto Galimberti, Siro si convinse di avere la passione per la filosofia. Non che sia andato molto oltre, ma gli piace pensarlo. Intuendo in me un possibile sparring partner, mi ingaggia allora in interminabili dispute filosofiche, i cui dubbi vengono risolti con un categorico: "L'ha detto Galimberti da Costanzo."
Il problema è quando ci spostiamo all'esterno del bar. In quelle occasioni, ogni volta che Siro vede una donna – basta sia giovane, se è carina tanto meglio, ma non è essenziale – perde il filo del discorso. Anche dando le spalle alla piazza, posso indovinarne la presenza dal fatto che Siro smette di ascoltarmi, ripete le stesse cose, si impappina. A quel punto mi giro e, puntualmente, vedo i suoi occhi convergere su un sedere femminile.
La vera passione di Siro sono insomma le donne, non la filosofia. Ma, per qualche ragione che mi sfugge, ha iniziato a costruire questa inverosimile immagine di sé, arrivando al punto di crederci. E fin qui niente di male, intendiamoci. Il guaio è che ora vorrebbe che tutti lo chiamassero filosofo...
Pensavo a Siro seguendo le polemiche che hanno accompagnato la presenza del Presidente del Consiglio italiano al Parlamento europeo di Strasburgo, con 
Guy Verhofstadt che gli ha dato del burattino. Titolo per il quale, prima ancora che offeso, Conte si è stupido. Io un burattino – e perché mai?!
Il fatto è che lui davvero si percepisce come un politico autonomo, addirittura un europeista, come traspare dal suo discorso di fronte all'assemblea parlamentare, e non si capacita delle critiche. Ma su scala più ampia, anche le perplessità degli europei giungono agli italiani con sorpresa. Noi razzisti, noi intolleranti, noi velleitari e populisti?
Macché. Siamo semplicemente un popolo a cui piace tanto la filosofia, come a Siro. E se poi per strada passa una donna, che ci volete fare, l'occhio casca. Per questo non riusciamo più a vedere oltre i confini di un baretto di periferia, mentre il mare si fa color del vino.

Il cappello di Bastianich, o sulla rivincita della realtà sull'immaginario

Sanremo è tante cose assieme – musica, show, pettegolezzo, intrattenimento leggero e non di rado noia – ma soprattutto il sintomo di qualcosa che sentiamo premere da sotto, come un foruncolo che vorrebbe esplodere. C’è ma non sappiamo esattamente dove.
Nella sua sessantanovesima edizione un barlume di senso, se non ancora il bandolo della matassa, a me è parso di coglierlo proprio all’inizio dell’ultima serata, quando Claudio Bisio ha presentato la giuria di qualità.
Tra gli altri vi era il noto chef Joe Bastianich, che, oltre a degli occhiali da sole decisamente incongrui, sfoggiava un cappellaccio nero dalle larghe tese; un indumento considerato a teatro assoluto tabù, impendendo la vista a chi succede.
Seduta dietro di lui si contorceva infatti una donna, prima allungava il collo a destra, poi a sinistra, nella speranza di scorgere qualcosa al di là di quella cortina di feltro calata tra lei il mondo, o perlomeno il surrogato di mondo per cui aveva pagato un biglietto che si può immaginare salato.
Potremmo liquidare il tutto come l’atteggiamento scortese di un personaggio pubblico un po’ pieno di sé, ma non credo sia solo questo. Nella trascurabile e stonata frazione di uno spettacolo nel complesso coerente, visualizziamo piuttosto il mattoncino metaforico da cui ogni opera prova a elevarsi, poco importa se poi si concluda in cattedrale o macerie.
Lo intuiamo dalla professione di Bastianich, che è appunto quella di cuoco, e lasciando provvisoriamente da parte le numerose stelle di cui si ammanta la sua cucina. In sintesi: un cuoco è una persona che produce cibo; il cibo dà piacere alla gola, al palato, al corpo; il piacere del corpo ha da alcuni anni invaso i palinsesti televisivi e il costume degli italiani.
Un’epoca all’insegna del piacere, dunque. O ancora più precisamente del godimento, come lo chiamava Lacan attraverso un sinonimo che ci avvicina al codice segreto di questa edizione di Sanremo. Già, perché il godimento, per il grande psicanalista francese, più che un’esperienza tangibile – il corpo è solo una delle tante maschere, una stazione di passaggio ma non di approdo – sta nel regime immaginario delle attese, che fa da velo alla realtà concreta quanto a quella simbolica, a concludere la tripartizione con cui egli divideva l’esperienza psichica.
Ma non è proprio ciò a cui abbiamo appena assistito?
Un cuoco, e cioè un artefice del godimento immaginario e, di conseguenza, illimitato da qualsiasi vincolo, con il suo cappello oscura lo sguardo di chi sta seduto alle sue spalle, ponendosi quale unico oggetto della rappresentazione. Una dinamica, su scala più ampia, a cui stiamo assistendo da diversi anni, in televisione come nella vita di tutti i giorni: l’immaginario che si prende tutta la scena, confinando la realtà a sintomo e delegittimando il simbolo da ogni autorità. Tra cui quella paterna.
Poi però succede qualcosa, probabilmente imprevista…
Succede che vince una canzone trascurata anche dai bookmaker, forse imperfetta, grezza come tutte le cose vere, in cui la realtà squarcia la tela immaginaria, senza che Penelope riesca a metterci una pezza.
No, non si tratta del ritorno di Ulisse ma di suo figlio Telemaco, che ha le fattezze di un bel ragazzone italo-egiziano di nome Mahmood. Con il ritmo rappato e un po’ stereotipo dei nostri giorni, si rivolge a un padre defilato, forse fuggito, certamente assente: Papà, dove sei, dove sei stato in tutti questi anni, anche tu a inseguire il godimento corpo e i fantasmi della mente (“champagne sotto Ramadan, alla TV danno Jackie Chan”), oppure i soldi, soldi, soldi, per pagarti le cenette al ristornate di Bastianich?
Io, tuo figlio, chiedo però che i padri tornino a fare i padri, si assumano la responsabilità di gesti che siano simbolici e non solo immaginari, togliendosi il cappello come si conviene davanti a una donna, e a maggior ragione quando stia dietro.
Ma questo compito i padri occidentali non sono più in grado di assolverlo, Bisio l’ha ammesso chiaramente nel suo monologo, tanto meno la madri o le nonne, che hanno la chioma fluente e blu della Bertè. Solo un figlio poteva allora perforare questa grande finzione immaginaria che è Sanremo, far volare la toque blanche a tutti gli chef stellati che ci assillano, facendo per una volta vincere la realtà. E chissà che non sia l’inizio della riscossa...

sabato 2 febbraio 2019

Studia l'arte e mettiti da parte, o sulla bellezza dell'inutile

Lo dico senza ironia né, tanto meno, spirito di provocazione, ma a me sembra una bellissima notizia che non esista più alcuna scuola ad assicurare il lavoro ai ragazzi, e sono pochissime anche le università che raggiungono lo scopo; forse solo Medicina e, in parte, Ingegneria, mentre tra gli istituti secondari mi viene in mente l'Alberghiera, o ancora più precisamente l'indirizzo per diventare cuochi. Che per fare il cameriere, almeno nei ristoranti che frequento io, bastano un paio di scarpe nere e una camicia bianca. E se ci scappa una macchia di sugo non ci scandalizziamo mica.  
Quando ero ragazzo si diceva: fai Ragionieria e ti assumono in banca, vai tranquillo, ci mette una buona parola l'amico dell'amico di papà, o se preferisci Geometra e un posto al Catasto non te lo leva nessuno. Negli anni successivi, a spanne dai Novanta in poi, sono venuti di moda gli studi in informatica e turismo, quindi è stata la volta di web design, marketing, comunicazioni, per non dire delle scuole steineriane frequentate anche dai figli del Grande Capo.
Tutte esche su cui i ragazzi privi di un'autentica vocazione (e forse anche desideri) si buttavano come pescetti in banchi compatti, le reti venivano disposte da istituti perlopiù privati e molto costosi. Il sotto testo era: vieni da noi e un posticino, da qualche parte, vedrai che salta fuori. Magari un'attività dove non ci si spacchi la schiena e sia bella da pronunciare quando all'happy hour ti domandano: Che lavoro fai? Websticazziqualcosa, e ci fai pure la tua porca figura. 
Non che adesso questi tentativi di seduzione siano cessati, ma mi sembra che i giovani, non so se più cinici o rassegnati, non se li bevano più. È in questa chiave che leggo il recentissimo boom di iscrizioni ai licei, che nel frattempo hanno moltiplicato le sigle 
(classico, scientifico, linguistico, artistico, socio-psico-pedagogico e ora mi dicono anche musicale) ma si propongono comunque tutti come studi rivolti alla formazione della persona, più che catene di montaggio per piccoli Stachanov.
Si dirà: ma che te ne fai della conoscenza della filosofia, di Dante, Michelangelo, per non dire del greco e del latino, quando già sai che non ti serviranno a nulla, non concretamente almeno? E mai come ora mi sembra tornata attuale la risposta di Aristotele: la filosofia non serve perché non è serva di nessuno.
Che è solo un modo per rimandare il problema del lavoro 
 "chi ti dà i soldi per l'affitto, e per questa sigaretta qui?" chiedeva Nanni Moretti in una celebre sequenza di Ecce Bombo, rivolgendosi a un'amica che dichiarava di "fare cose e vedere gente" , ma per adesso incassiamo un po' di cose inutili e belle. È dunque questa la buona notizia, non certo la penuria di lavoro (per giunta mal pagato). 
Ci sono addirittura alcuni studi che dimostrerebbero come una testa agganciata a una tradizione che ha sé stessa quale oggetto, un sapere ineffettuale, come si dice, giri meglio anche quando mortificata con le professioni del presente; un po' come le Ferrari vendute negli Stati Uniti, la cui potenza, successivamente, viene limitata per non superare un centinaio di miglia. 
Se poi avete un figlio che si ostina a voler studiare marketing o turismo o, peggio, si iscrive a una fashion look academy, fatevene una ragione. Nella migliore delle ipotesi è gay, e nella seconda non è figlio vostro ma dello spirito dei tempi, che da sempre detiene un'ipoteca paterna sui più giovani. D'altronde lo stesso Socrate non ha mai capito cosa frullasse nella zucca dei suoi quattro figli un poco grulli, per non dire della moglie...