venerdì 30 ottobre 2015

Raffreddori, o sulla felicità come timone occulto della morale




Io quando sono a casa con il raffreddore guardo sempre la tivù. Non uno specifico programma, giro, faccio zapping, mi soffermo per un nulla sulle mummie di Alberto Angela o sul decolté di Mara Venier – non perché mi piacciano le sue tette, ma per controllare di quanto sono cresciute dall’ultima volta, come fossero il correlativo fisico al lievitare del suo posticcio accento romanesco –, e poi eccì, una pigiata di pulsantino accompagnata da un nuovo tonante starnuto.

Se insieme a me, in casa, ci sta qualcun altro, faccio lo stesso: guardo la tivù, starnuto, cambio canale, esauriti gli ufficiali sprofondo in quelli privati, oh  quanto mi piacciono le liti calcistiche all’interno dei canali privati; quindi di nuovo Alberto Angela, mummie, tette della Venier e così via… In fondo è un copione già scritto, il mio. Che, come tutti gli spettacoli di successo, non si cambia di una virgola: sia di fronte a un grande pubblico plaudente, sia con quatto pensionati che tossiscono in sala, arrivati giusto perché qualcuno gli ha sbolognato il biglietto. 

Insomma, quando sono anche solo lievemente acciaccato, il telecomando deve rimanere stabilmente collocato tra le mie dita, così che possa tormentarlo a piacimento e imprimere le mie volontà allo schermo, come un sovrano con il suo scettro. E chi se ne frega se il mio compagno di sventura o, meglio, il suddito bonariamente compiacente delle mie poche drammatiche linee di febbre, avrebbe voluto vedere qualcos’altro: è un pensiero che non mi sfiora neppure lontanamente, un’incidenza statistica così remota che nemmeno viene prevista dal modello. In fondo lui, o lei, stanno bene. Mentre cavolo: io sono malato!

Eppure, quando invece sto bene, sono di norma molto disponibile e attento verso i gusti degli altri. Ad esempio a cinema, o a un concerto, lascio volentieri che scelga lo spettacolo la persona con cui esco, magari dando qualche minima direttiva subliminale – se non mi interessa proprio il film che mi si prospetta con enfasi partecipata, sbadiglio con lieve noncuranza, aggiungendo:  “Per me è uguale, figurati, ma secondo me, dico per te, ti piacerebbe molto di più l'ultimo film di Kaurismaki…” (che guarda te alle volte il caso, è il mio regista preferito).

Sono, ecco, un egoista a singhiozzo, e il mio egoismo trova il suo culmine nelle indisposizioni del corpo, prima ancora che dell’anima. Riflettendoci un momento, mi è venuto il dubbio che siamo un po’ tutti così. Magari non sempre, o non solo, quando siamo spaparanzati su un divano con la televisione accesa, ma la nostra disponibilità verso il mondo è in ogni caso mediata dal corpo, dal grado di energia e fiducia che siamo in grado di imprimere alle cose, usando il corpo come rincorsa prima del salto. 

Quando tutte le nostre risorse fisiche sono impegnate internamente, cercando recuperare forma e vigore, salute, non vi è però più alcuna attenzione verso il "fuori", e la tapparella del nostro sesto senso sociale si abbassa drasticamente. O detta in modo diverso, si può dividere solamente ciò che eccede, non quel che manca. La mancanza è come un riccio che si appallottola e caccia fuori gli aculei, o come i gatti che per guarire ma anche prima di morire che è forse l'estrema forma di guarigione si rintano in un cantuccio, e pare facciano qualcosa del genere anche gli elefanti (l’ho imparato sempre da Alberto Angela).

Ma allora il diritto alla felicità, contenuto nella costituzione americana, non è solo l’espediente retorico di un popolo vagamente euforico e naif – “wishful thinking”, come dicono loro – ma un precetto letteralmente morale, giustamente tradotto in lettera pubblica e istituzionale. Essere contenti, sani, in piena saluta fisica e spirituale, corrisponde infatti a una diversa e accogliente disposizione verso gli altri, non solo verso la vita.

Diversamente, il nostro mondo si fa sempre più piccino, angusto, egocentrico e compresso, e ci aggrappiamo al telecomando come al salvagente in un gorgo.

sabato 24 ottobre 2015

Brutti, sporchi e cattivi, o sui nuovi valli di Adriano che dividono il mondo



Io possiedo un appartamento da ricco, sono fortunato, almeno in questo, un appartamento da ricco in una casa da ricchi, che si trova nella periferia nord di Milano. Possiedo questo appartamento da ricco milanese –  abbiamo pure la piscina, tiè –  per modo di dire, avendo da pagare un muto per altri quattordici anni. Ma insomma, fuochino. 

Nella mia ricca casa da ricchi ho ovviamente dei vicini, dei condomini, che qui però vengono chiamati “cohouser”. Una parola inusuale e vagamente stronza, ma per dire la stessa cosa: che ci sono dei vicini e che questi vicini, appartenendo al medesimo edificio, sono anche condomini. L’unica differenza sta dunque nel nome: nei condomìni ci si chiama condòmini e nei cohousing ci si chiama cohouser; alcuni ci aggiungono anche la esse del plurale anglosassone: cohousers. Il nostro, come avrete intuito, non è un semplice condominio ma un cohousing abitato da cohouser, o se preferite cohousers. Ma che cacchio è un cohousing, si starà chiedendo qualcuno? 

Mi dispiace, temo di non esservi di grande aiuto: dopo sei anni che possiedo questo appartamento (da ricchi, non dimenticatelo mai!) non l’ho ancora capito bene. L’unico indizio deve stare nell’elemento fino a ora più ricorrente: la ricchezza, anche se non ostentata, anzi meglio contenuta e perfino modesta, di certo discreta, una ricchezza in un certo senso naturale, nonchalante. E poi ricchi ma di sinistra e molto eco-qualsiasi-cosa, un po’ come Lupo de Lupis che è lupo, sì, ma pure tanto buonino. Ok, se volete usatela pure quell’espressione lì, tanto lo so che la state pensando. Però a me non piace tanto, forse perché stropicciata dall’abuso: radical chic, vabbe', l'abbiamo detto.

Ma torniamo al cohousing e al suo enigma nominale. La cosa più semplice è andare a vedere cosa dice, al proposito, la pagina corrispondente di Wikipedia: 

“Il termine cohousing è utilizzato per definire degli insediamenti abitativi composti da alloggi privati corredati da ampi spazi comuni (coperti e scoperti) destinati all'uso comune e alla condivisione tra i cohousers. Tra i servizi collettivi vi possono essere ampie cucine, lavanderie, spazi per gli ospiti, laboratori per il fai da te, spazi gioco per i bambini, palestra, piscina, internet cafè, biblioteca e altro.”

“Alloggi privati con spazi comuni”. Ci siamo. “Condivisone tra i cohousers”, forse un po’ meno… Ma boh, dai, prendiamola per buona. Una roba dove si fanno delle cose comuni dentro spazi altrettanto comuni, ma con una propria tana esclusiva in cui rifugiarsi quando gli altri diventano un ingombro, o, secondo la felice intuizione di Sartre, quando iniziano a scottare (“l'enfer, c'est les autres”).

Tra le cose comuni del nostro cohousing, anche una mailing list condominiale. Solite cose, ne’. Informazioni utili di quartiere, idee per la sera, pensierini smilzi, ma in genere questioni molto tecniche e burocratiche da affrontare – qui siamo a Milano, non ci si perde in ciance speculative. In alcune e rarissime occasioni, anche iniziative per così dire civili. Molto per così dire, in effetti. 

L’ultima iniziativa “civile” del mio condominio da ricchi, che però si chiama cohousing ed è abitato da cohouser, o cohousers, è quella di far sloggiare il nostro dirimpettaio. Nei suoi confronti è stata dichiarata una vera e propria guerra – no, non una guerra guerreggiata e nemmeno ancora legale, bensì estetica. Questo tizio che io mi figuro brutto, sporco e cattivo, come in quel vecchio film di Scola, da un sacco di tempo (non so esattamente quanto, ma a sufficienza per i termini legali del diritto di uso capione) ha occupato abusivamente un fazzoletto di verde comunale, ci ha costruito sopra una baracchetta di assi e lamiera, poi un pollaio, qua e là accumula ferro e altri materiali di scarto, immagino trovati in giro per la città, e ora afferma: è tutto mio. Per la legge, pare abbia ragione. E così è riuscito a bloccare anche il progetto di un tram che doveva passare di lì, per noi sarebbe stato assai comodo.

Senza tram, dunque, ma con la benedizione dello Stato italiano, dell'Azienda Trasporti Milanese e però non dei miei cohouser, che trovano tutto ciò una cosa non solo o non tanto ingiusta, ma brutta, proprio orrenda, una sorta di offesa formale verso la rinascenza tanto ambita del quartiere – ossia verso noi stessi, verso la fatica di essere finalmente quel che siamo: ricchi, belli e in un ambiente che ci corrisponda. Vorrebbero quindi riappropriarsi del maltolto, da trasformare in un lindo e pettinato e certamente preferibile (anche per me) giardinetto, in cui travasare i bimbi del condominio, pardon, del cohousing. Ma anche una piccola fettina da riconsegnare al beneamato tram!

Tralascio ora la trafila di mail, commenti, propositi e ingiunzioni e arrivo al dunque – io ovviamente sono il dunque, come in un film di Woody Allen (“Ma non parliamo sempre di me, parliamo di te: come mi trovi?”). E infatti pure io ho scritto una mail di risposta alla discussione, ma poi non l’ho inviata. Con queste persone verso cui non ho niente contro, sono davvero tutte per bene, tutte e come già detto di sinistra eco-tutto e bla bla bla, temo semplicemente di aver esaurito le parole. O meglio mi sono accorto di non avercele proprio, le parole, di non possedere un linguaggio comune, una koinè e forse neppure un lessico, che per altro è una sensazione che inizio a provare verso il mondo intero, ma lasciamo andare. 

Non ho in ogni caso inviato la mail che già avevo scritto, bon, chiuso, fate quel che vi pare. In fondo c’è una parte di me che condivide ambizioni piccolo borghesi di decoro: un mondo magari piccolo piccolo ma senza spigoli, senza agguati di alcun genere, in cui un ginocchio sbucciato è il peggio che ti possa capitare. Prima di schiacciare il tasto cancella su Outlook ho però riletto il tutto, accorgendomi che non si trattava solo di una stracca querelle condominiale, ma che in essa erano contenuti elementi che oserei chiamare universali: l’incontro\scontro tra bene e male, privilegio e ambizione, utile e forma, meglio ancora stile, ossia tra ricchi “buoni”e poveri “cattivi”, che è forse il Tema con la ti maiuscola della modernità.

I ricchi, ovviamente, sono buoni solo fino al momento dell’incontro\scontro con i poveri cattivi, che diversamente non fanno una piega e continuano imperterriti nella loro linea, come uno che venga tamponato e nemmeno scenda a controllare i danni alla vettura. I poveri rimangono insomma cattivi fino all’ultimo, ma, al cospetto dei ricchi buoni ora divenuti cattivi pure loro, la povertà assume un tratto come figurale e stilizzato, quasi assoluto, se non ontologico. 

Aggiungo così il mio limitatissimo contributo a questa guerra metafisica tra ricchi e poveri, copiando, di seguito e in corsivo, la mail che non ho mai spedito ai miei vicini di casa. Vicini che ormai anche voi avrete imparato a chiamare cohouser, o cohousers, à votre plasir.


Cari cohouser,
ho letto con interesse le mail che vi siete scambiati negli ultimi giorni, in particolare quelle relative al nostro dirimpettaio, che per la verità io e forse nessuno tra di noi conosce. Eppure da lui ci separano solo pochi metri, una minima porzione di via Maddalena Giudice Donadoni, ma che qui diventa una distanza quasi incolmabile, come quella che divide Achille dalla tartaruga nel celebre paradosso di Zenone.

Tra i molti e interessanti pensieri, qualcuno invitava però e senza perifrasi a “stare sul pezzo”, non a divagare come già sto facendo io, no, stare sul pezzo, un termine giornalistico che nel suo intento immagino corrisponda a: “diamoci dentro, dai, l’unione fa la forza e con la forza del gruppo facciamo sloggiare quello zotico cafone.” Altri si lamentavano più cautamente per il suo “pollaio abusivo”, paventando gravi rischi per la salute – ovviamente dei bambini, i bambini prima e sempre di tutto e di tutti. Altri ancora, più increduli che sgomenti, hanno ricordato i “materiali assurdi” che egli raccatterebbe (si tratta per inciso di ferro e altre utilissime materie prime, di cui realizza spontaneamente, anche se interessatamente, il riciclo). Infine c’era chi teneramente si preoccupa – “che fine ha fatto?” –  del “verde dietro la lamiera” che recinta alla bell'e meglio il suo terreno; e grazie a dio che c'è perlomeno una lamiera, un limes arrugginito e sghembo a far da argine e protezione, come un moderno Vallo di Adriano a preservarci dalle incursioni dell'osceno – da una parte i Buoni (noi), dall’altra il Cattivo (lui).

Ed erano pensieri che condividevo nella quasi totalità, dico davvero. Pensieri che voi pensavate per mio conto e senza che io dovessi fare alcuna fatica, come quando ti capita di leggere tra le pagine di un grande scrittore. E però pensieri che, forse perché in qualche modo anche miei, mi facevano nascere delle domande, dei dubbi sempre più insinuanti. Così più leggevo le vostre mail e più mi stupivo del fatto che quelle domande, quei dubbi, a voi invece non venivano, sembravate così sicuri di tutto quando massì, dai, vi saranno venute, anche se poi le nascondete come un bambino che si è appena fatto la cacca addosso... Il guaio è che, dopo un po', senti la puzza, che qui è uno stramaledetto tanfo di pulito, di deodoranti senza sali di alluminio e a km zero. 

Ad esempio, mi chiedevo se nessuno avesse realizzato che “dietro la lamiera” ci sta un essere umano, mica solo erbette e fiorellini su cui un giorno far scorrazzare i monopattini siluro dei bambini del cohousing (i bambini sempre prima di tutto e di tutti, per carità!), così da distoglierli dalle vetrate e i cancelletti su cui attualmente si infrangono. E continuando a fiutare nel candido afrore delle vostre mail, mi domandavo, ancora, se è tanto difficile comprendere la la differenza tra un pollaio abusivo e uno a norma, con tutti i crismi della buona società a cui voi ed io certamente apparteniamo. Nel primo, le galline mangiano quel che trovano e vanno a dormire quando cazzo gli pare, mentre nel secondo tipo di pollaio, quello legittimo e legittimato dalla pigrizia del pensiero, vengono ammassate in spazi da incubo nipponico, ingozzate di antibiotici e la notte è una caricatura artificiale del giorno, affinché i pennuti continuino a mangiare e crescere ancor più in fretta. Non era tanto difficile, dai. E a qualcun altro, dite la verità, l'olezzo di pulito nelle mie narici si fa sempre più intenso, viene o sarà venuto in mente che quella persona avrà pure un nome, un cognome e una storia, e se tiene delle galline magari è semplicemente per mangiarsi le uova; che per inciso non spuntano già belle e inscatolate alla Coop, in croccanti cartoncini da sei? Così come raccattare “materiali assurdi”, si tratterà di un hobby singolare e un passatempo rinfrescante come la nostra bella e azzurra piscina, o non invece dell’espediente per cavarci quattro soldi, non avendo un lavoro come giornalista, architetto, pubblicitario, “trend watcher”, regista cinematografico, buyer, informatico e insomma una di quelle professioni intangibili e senza realtà materiale che facciamo quasi tutti qui, me compreso?

Domande, appunto, labili tracce olfattive da seguire con il naso.Ma anche qualche provvisoria certezza. Ad esempio io non ho dubbi che uno così sia anche una mezza carogna, o comunque un furbetto, uno che se gli dai una mano si piglia un braccio, facendosi gli orti, i pollai, i depositi di materiali di risulta e insomma i cavoli suoi, almeno fin che riesce. Ma allora assumiamoci – meglio si assuma chi queste domande proprio non riesce a farsi, che a me il nostro vicino comincia a stare simpaticissimo –  la responsabilità e soprattutto il coraggio di essere ancora più carogne: prendetelo a botte, a calci in culo, a sputi e smamma e vaffanculo testa di cazzo, mica a querimonie istituzionali fondate su quel privilegio che viene chiamato diritto, ma è solo una forma di differimento generazionale dell’abuso. E poi diritto de che, di gentrificare il mondo, di renderlo conforme alla mancanza di diottrie dei nostri occhi, le mollette sopra il naso, così da non vedere il brutto, il male, la muffa e le scoregge da davanzali ornati di aulentissime rose? 

Per parte mia, ho scoperto che mi trovo molto più a mio agio nell'odore delle sue scoregge che non in quello di chi non conosce punti interrogativi. per quanto abbondantemente cosparso di deodoranti   senza sali di alluminio e a km zero, ok, sì, ci mancherebbe...

Un saluto dal vostro amatissimo cohouser

Guido

lunedì 28 settembre 2015

Io per come la vedo io, o sulla lateralità dell’amore

Io per come la vedo io l’amore è una cosa abbastanza semplice. E’ come quando stavi seduto accanto alla mamma nella sala d’attesa del dentista, mentre, da dietro una porta enorme e bianca e spaventosa, proveniva il sibilo metallico di un trapano in azione. Così la guardi dal basso verso l'alto, sei ancora un cucciolo, ma lei non dice nulla: impassibile come solo le mamme riescono a stare, sfogliando le pagine di una rivista femminile stropicciata. E allora nemmeno tu dici niente, zitto, mosca, un soldatino che fa il suo dovere. Potreste rimanere lì per giorni, forse anni, uno accanto all’altra, uno lo specchio dell'altra. Intanto di nuovo e sempre trapano che fischia. Riviste femminili. Odore di cicca alla menta e acqua ossigenata, come quella che sfrigola sulle ginocchia appena sbucciate - il peggio che ti può capitare insieme a lei. Ecco, uguale uguale solo non c’è più la mamma e neppure il trapano, se non dentro la tua testa. Quello però non è l’amore, è solo l'inizio. Comincia infatti col trapano, comincia che la vedi, la pensi, ti invade e martella i pensieri, e poi finisce con l’amore. Ma mica sempre. Perché succede pure che bon, ciao, arrivederci e grazie. Se non che ci sono altre volte, vi conoscete da pochi giorni, pochissimo tempo, perfino minuti, ma già ti viene voglia di rivederla. E dopo che l’hai rivista ti viene voglia di baciarla. E dopo che l’hai baciata ti viene voglia di scoparla. E dopo che l’hai scopata… No, sbagliato: nemmeno questo è l’amore, ma ancora il trapano. La differenza tra amore e trapano io, per come la vedo sempre io, non è tanto difficile nemmeno quella. Nel trapano tutto avviene in una prospettiva frontale: lei sta davanti a te, piacere, io mi chiamo Tal dei Tali, bel nome, io Pinco Pallina, te la sta presentando un amico. Poi, continuando a fronteggiarvi ma sempre più distanti dall'amico, finito in secondo piano come un chierichetto all'ombra della tiara del vescovo, iniziate a parlate e sembrate conoscervi da sempre, vi burlate dei medesimi vizi del mondo, poi aggrotti la fronte al suo racconto di una cosa qualunque, e che però accidenti, a quella cosa qualunque lì, tu non ci avevi mai pensato! Ma come è intelligente allora pensi, ma come è sensibile pensi subito dopo, ma come è simpatica pensi mentre vi scambiate il numero di cellulare: ma soprattutto, cazzo, come è bella, concludi mentre stai per baciarla sulla bocca! E però aspetti, aspetti... – non puoi farlo dopo una manciata di minuti appena, sotto lo sguardo dell'amico chierichetto – e al prossimo appuntamento finisce che è lei a baciare te. E in che posizione ci si bacia? Uno di fronte all’altra, naturalmente. Rientrato a casa rivedi tutto come in un film al replay, un film proiettato sulla schermo della memoria, in cui ti sembra ancora più bella di quando l'hai filmata la prima volta con lo sguardo, bellissima, tum tum tum, trapano che batte, ma era sempre una ripresa frontale, il cartone animato di un mosaico bizantino. Quanto allo scopare, va be’, lasciamo andare… che non son cose tanto belle da dire. E comunque la musica non cambia: anche nel sesso si è sempre su una linea verticale, un’autostrada che va da io a tu, e poi marcia indietro da te a me. E’ solo quando avviene qualcosa come un impercettibile scarto laterale – mamma e bambino dal dentista o, più tardi, due vecchi seduti sulla panchina dei giardinetti – è lì che lo capisci. O forse non lo capisci, non è tano importante. In ogni caso: se hai paura del dentista, del trapano, la vita, il dolore, la morte, la sofferenza fisica e spirituale, peggio per te. Se invece continui ad aver paura di tutto ciò, mica sei Capitan America, ma quella paura senti come raddoppiata: una porzione di paura per te e una porzione di paura per la persona che ti sta seduta accanto, non di fronte, d'ora in poi sempre e per sempre di lato, quello che si dice stare dalla stessa parte, allora sei sulla buona strada. Perché l’amore è avere paura due volte. Ma con la minima consolazione che qualcuno se la sta facendo addosso per te, anche se fa finta di niente e sfoglia una rivista femminile stropicciata.

domenica 27 settembre 2015

L’umanità? E’ appesa a un filo, anzi, a un capello



Mattina. Domenica. Postumi di un fine settimana in provincia, alcolico quanto basta per l'ennesimo fioretto al dio degli epatociti, che ancora non si è stancato dei miei buoni e negligenti propositi. Raggiungo il bagno per pisciare, ma prima di calarmi gli slip Tezenis dal fascione alto e fosforescente, come sempre controllo la stempiatura nello specchio, l’incalzare del deserto sulla prateria assediata dal nulla. E però un momento, quale dei due devo guardare?! Da una parte ci sta infatti il “vero" Guido, l’io penso quindi sono cartesiano, ma penso a cosa… mah, mentre dall’altra parte, nello specchio trapuntato da goccioline di dentifricio, mi viene restituita un’immagine che corrisponde alla negazione di tutto ciò. Un alieno, un calvo, un estraneo… Va be’, mi arrendo, Ecce Homo! In fondo già avrei dovuto saperlo: la realtà è una torta divisa tra il sogno del pasticcere e la foga del banchetto. Rimane da capire quale sia la sostanza e quale, invece, la rappresentazione. O non sarà che queste due immagini di me, una astratta e mentale e l’altra brutalmente tangibile, intente a traguardarsi sospettose dai due lati dello stretto corridoio del bagnetto, siano piuttosto avvinte, inseparabili, realmente speculari? Allo stesso modo, come io sono conteso tra l’ideale e il suo doppio fisico e corrotto, senza mai approdare a una sintesi dialettica e anzi tendendo sempre più l’elastico, come chi faccia bungee jumping sopra a un abisso senza fondo, anche l’umanità è forse nelle mie stesse condizioni: una moltitudine di disgraziati in mutande Tezenis, una folla di derelitti che sta per pisciarsi addosso, senza più sapere dove e quale sia la tazza… Una sorta di strabismo che ci fa simili a quel personaggio nei film di Ollio e Stanlio, con i baffoni e gli occhi divergenti a confondere perennemente tutte le cose, mentre tiene la buccia e getta nel cestino la banana. Ma siamo sicuri che la parte più preziosa della banana sia la polpa? Per inciampare, ad esempio, funziona molto meglio la buccia... E chissà allora che non sia proprio questa la via maestra, e non un'inutile digressione nel percorso: l'inciampo, la perdita di equilibrio, la messa in questione di ogni certezza e definizione, comprese quelle sulla nostra identità. Perdersi allora per ritrovarsi, ritrovarsi per perdersi e riperdersi, ancora, all'infinito. E solo nel totale oblio di ogni cornice, guadagnare nuovamente la bella e vasta illusione che ci dava un tempo respiro, la fantasmagoria che faceva marciare eserciti e sospirare le fanciulle in fiore. Massì, l’umanità starà pure perdendo i capelli, ma per ritrovare la parrucca.