venerdì 30 dicembre 2011

Quello giusto, pensierino di capodanno


Ma tra un signore alto e magro e vestito di nero come un prete nasce a San Francisco il 24 febbraio 1955 e subito dopo viene affidato in adozione quindi l'infanzia serena adolescenza travagliata molla gli studi universitari e si iscrive a un corso di calligrafia pensa tu calligrafia da adulto inventa un sacco di cose ganze tra cui un telefono lui dice che è tutto merito della calligrafia lo producono in Cina il telefono lo assemblano gli operai cinesi sembra ganza come storia oltre naturalmente che come telefono se non fosse che il 5 ottobre 2011 quel signore tutto nero come un pretino di campagna muore di un tumore al pancreas e quelli che usavano il suo telefono tanto ganzo da poco lo fanno anche bianco hanno pianto e quelli che non lo usavano hanno pianto anche loro ho pianto anche io abbiamo pianto tutti un signore alto e magro con pochi capelli grigi sulla testa ovale con un'infanzia sfortunata poi diventa un genio dell'informatica dei computer dei telefoni ma lui fa spallucce dice ci ho messo solo un po' di calligrafia e intanto il suo successo cresce lievita ha il volto tondo di una grande mela ma in un angolino a guardar bene manca un piccolo pezzo sempre manca questo pezzettino o meglio ancora un morso un boccone che piano piano si mangia tutta la polpa ed ecco allora che diventa una storia triste una storia da starci male di quelle che ti raccontano i preti immaginando che tu colga una qualche morale sottostante una lezione edificante e non invece della semplice e nuda calligrafia come se si trattasse della firma stilizzata di questo signore alto e magro e sfortunato come solo i ricchi riescono a esserlo ma di nuovo ecco comparire gli operai cinesi che invece sono notoriamente fortunatissimi e poi piccoli gialli con le loro manine gialle con cui girano le vitine di un telefono bianco e nero e veramente ganzo come telefono così loro gli omini gialli dovrebbero essere felici di fare una cosa ganza sembra di capire ma ecco il colpo di scena 14 tra gli operai cinesi che lavoravano per una fabbrica cinese pure quella lavoravano per le nostre lacrime e cioè per i telefoni di quel signore di San Francisco che non era un prete ma si vestiva lo stesso di nero e poi alto e magro e soprattutto morto sono morti anche loro e mica per il pancreas il loro pancreas era bellissimo non era giallo nemmeno un po' e anche i polmoni belli chiari idem il cuore si sono suicidati sono morti per le condizioni di lavoro in cui assemblavano migliaia di telefoni ogni giorno scrivono i giornali e subito dopo gli stessi giornali infilano la pubblicità di quel telefono lì che non c'è storia non c'è partita è il telefono più ganzo del mondo noi ci digitiamo gli sms come stai gattina che mutandine indossi tra poco arrivo miao miao e sembra una storia che non si capisce più che storia è questa dove non c'entrano più i gatti e le mutandine nemmeno i preti le suore o visto che siamo in ballo con la Cina i monaci Shaolin uno potrebbe pensare come Keith Carradine in un famoso telefilm americano degli anni settanta ma chi se frega della televisione americana degli anni settanta devono avere pensato gli operai cinesi noi negli anni settanta era tanto se guardavamo il Libretto rosso di Mao avevamo solo quello pensavano i cinesi oppure a qualcos'altro ad esempio al loro pancreas bellissimo un po' dispiace separarsi dal pancreas quando è ancora così bello e chiaro separarsi dalle mogli i figli insomma ammazzarsi se non si fosse ancora capito del tipo uno si lancia dal balcone un altro sotto a un treno che ne so io come hanno fatto 14 operai cinesi dico 14 in un solo anno e tutti lavoravano in una fabbrica di telefoni non lo spiego più di che telefono si tratta ormai credo si è capito anche questo e che i cinesi magari è vero che sono piccoli con gli occhi a mandorla e dicono glazie al posto di grazie plego invece di prego ma non è vero che sono gialli è solo un modo di dire uno tra i tanti che abbiamo per dire niente per parlare tutto il tempo e anche scrivere lo vedete come è facile scrivere non c'è nemmeno bisogno di conoscere le regole della calligrafia che in fondo è sempre e solo una questione di calligrafia oppure mettere un punto o una virgola se ne può fare a meno pare che tutto vada avanti da sé il mondo le parole l'economia va avanti da sé va avanti va avanti fino a quando arriva un momento un certo momento in cui uno deve prendere fiato arriva quel momento lì che bisogna fermarsi fare un bel respiro... E così ci si ferma. Si inspira. Si espira. E poi ci si chiede quello che avremmo forse dovuto chiederci già alla prima riga: ma tra un signore alto e magro etc etc, e quegli altri, quei 14 disgraziati che non erano neanche gialli, ma siamo proprio sicuri che stiamo piangendo quello giusto?

sabato 17 dicembre 2011

Viva Zingonia e abbasso il FAI, o sulle dogane della bellezza


FAI, Fondo Ambientale Italiano. Mi sono sempre chiesto di cosa si occupasse di preciso. Faccio dunque una breve ricerca e trovo il sito internet, in cui leggo sotto l’intestazione: “FAI. Per il paesaggio, l'arte e la natura. Per sempre, per tutti.”

La scorsa settimana sono stato a Zingonia, dopo essere prima passato da Ciserano, confinante, a trovare una cara amica che vive da quelle parti. Sia Ciserano sia Zingonia sono dei posti orrendi. Più orrendo il secondo del primo, che non è nemmeno un paese e la sua superficie è spartita tra diversi comuni. Come viene detto da Wikipedia, Zingonia è l’abitato residuo di un “un progetto urbano parzialmente realizzato negli anni sessanta di città per i lavoratori, voluto dall'imprenditore Renzo Zingone. La popolazione totale dell'area è circa 1778 abitanti, di cui 1328 (il 74,7%) extracomunitaria."

Cosa c’entra tutto questo con il FAI?

Ho un altro carissimo amico che mi parla spesso del FAI. E’ stato testimone di nozze dei miei genitori, lo conosco praticamente da sempre. Il fratello, in particolare, è una figura di spicco del movimento di tutela ambientale in Valtellina. E' inoltre proprietario – l’ha ereditata – di una villa ottocentesca nel margine settentrionale di Bormio. Immagino che il valore della villa superi abbondantemente il milione di euro.

Non intendo certo fare i conti in tasca o dell’ironia sul mio amico, e nemmeno sul fratello. Sono certamente ricchi, almeno al cospetto del mio saldo contabile, ma non è questo il punto. Il fatto è che quando passo da Bormio e vedo quella magnifica villa appartenuta alla loro famiglia – perfettamente curata, adornata al meglio con ogni primizia floreale – avverto una strana sensazione. Forse perché ora è completamente vuota, silenziosa e spenta. Ricorda il giardino algido nella favola del Gigante egoista.

Attraversando Zingonia a notte fonda con la mia automobile, ho incontrato invece una chiassosa quantità di gente, prostitute perlopiù, viados, dei più svariati colori. Alcuni si riscaldavano accanto a falò provvisori dal fumo chimico e nero. Lo so che buona parte di quelle persone sono vittime, ostaggio di associazioni criminali che ne hanno fatto degli schiavi. Ma nel loro modo di vociare, di mostrarmi la lingua e il sedere e poi infine ricorrermi a piedi, quando vedono che non accosto, avverto molta più vita rispetto alla bella villa ottocentesca, ora di proprietà del fratello del mio amico.

Ma cosa c’entra tutto questo con il FAI, dicevamo?

C’entra molto, secondo me. Perché se è vero che il paesaggio, l’arte, la natura, specie quando siano valori da intendere per sempre e per tutti, sono temi certamente condivisibili e a cui nulla obiettare, il sogno della popolazione notturna di Zingonia è differente, diciamo anteriore.

Che cosa te ne importa infatti del paesaggio, dell’arte e della natura quando se non fai un minimo di dieci pompini a sera ti arriva una fracca di botte. L'obiettivo di questa promiscua corte di diseredati consiste dunque, almeno verosimilmente, in una quieta normalità. Normalità quale possono sperimentare nel modesto orizzonte circostante. Fatto di villette a schiera progettate da geometri che si sono diplomati al Cepu, cani ringhiosi nei cortili, nanetti da giardino, lenzuola Ikea stese la domenica mattina come il gran pavese del Rex, prima di una tempestosa traversata oceanica.

A Ciserano ci sta perfino una villa che sembra il castello della Barbie. E’ di proprietà dei genitori dell’amica della mia amica. Tanto più brutta della villa ottocentesca di Bormio, tanto più sfarzosa, kitsch. Ma credo che sia proprio questo il modello estetico conficcato negli occhi delle prostitute di Zingonia: quando la tua vita allaga di troppa verità, allora la finzione, l’inautentico, diventano una scialuppa di salvezza.

Ora io non voglio affatto suggerire – né lo penso – che il gusto di una prostituta debba essere preso come modello universale. Penso al contrario che la sensibilità estetica, come per altro la sensibilità tutta, nasca dall’esperienza, dall’attenzione alle cose, dallo studio anche. E in quelle piccole vite ci sta una piccola esperienza, piccoli sogni di riscatto.

Ciò che intendo proporre, con molti dubbi e distinzioni particolari, è la presenza di un nucleo sottilmente reazionario in un approccio al “patrimonio ambientale”, come ora è di moda chiamarlo con inquietante sfumatura mercantile, completamente disgiunto non solo dai comportamenti e dall’etica, ma anche dalla visione e dal pensiero immaginale.

Ciò che ne risulta è un sentimento della bellezza come contemplazione e conservazione. Del tutto contrario a quella che era l’opinione degli antichi, che nell’estetica (dalla radice greca aistetikos, con tema aisthanomai: percepisco, sento con i sensi) scorgevano una declinazione formale del bene, del giusto. Ma anche del sogno inteso come profezia, come regime dell’ulteriore, sussurrato agli uomini dalle muse.

Concepire la bellezza come uno scarto in avanti della propria vita, e anche quando i modelli di riferimento contengano un nucleo corrivo e sciatto, possiede dunque proprio quell’idea di bene e di giusto che gli antichi gli attribuivano. Oltre che di possibilità, di rinnovamento e metamorfosi. Ma è proprio tale scarto, tale utopia se vogliamo grossolana, che mi sembra venire negata dall’ideologia sottesa al mito della conservazione. Il quale, a ben vedere, si fonda sul privilegio di chi abbia una vita già sufficientemente colma di bellezza, e intenda preservarla da ogni barbarico assalto.

Conservare la natura, l’arte, la bellezza, sospetto allora che finisca col significare la conservazione anche dei rapporti – del tutto storici e per nulla naturali – di potere e di status che soggiaciono a ogni comunità umana costituita, con le sue forme manifeste: belle o brutte che siano. Ed è la bellezza come "limes", come dogana con cui difendere i confini del gusto dall'incedere del brutto. Del nostro gusto, nostro di noi.

E’ come, ecco, con i palchi all’opera nell’Ottocento. Le famiglie più facoltose disponevano di un palco personale in prossimità della scena. La loro idea di bellezza era dunque quella lì: qualcosa di accessibile, quasi esclusivo. Mentre dalla piccionaia, molto più distante, ci si accalcava per godere di uno spiraglio residuo della medesima bellezza. Così nello sforzo di partecipare al banchetto dei sensi si vociava, si disturbava la contemplazione ieratica dei signori. Che vivano tutto ciò come una sorta di contaminazione.

Allo stesso modo, è del tutto comprensibile il godimento di chi possieda un ombrellone in prima fila in una spiaggia rinomata e distante. Ma la domenica, con dispetto, veda arrivare i gitanti gravidi di frittate alle cipolle e thermos di Sangiovese, li veda sbarcare da gommoni arancioni, scoreggioni, che contaminano la purezza di quel sublime paesaggio, per l’umano e ingordo slancio verso ogni forma di piacere.

Conservare la bellezza equivale a conservare l’esclusività di una prospettiva sul mondo, mi vien allora da concludere. Ma per farlo è necessario convogliare lo sguardo dentro robusti paraocchi, che escludano la confusione incombente, il baccano insinuante, da quel minimo tassello di ordine sottratto al caos della storia.

Ma l’ordine a questo modo derivato non è un vero ordine, se ci pensiamo bene. Piuttosto un ordinamento.

Perciò invece che bellezza io ci vedo un palco vuoto, un'esperienza disertata, nella magnifica villa miliardaria del fratello del mio amico, come un gioiello appeso sul bavero inamidato di Bormio. E l'ansia di conservare quella minuscola gemma distintiva – la nostra idea di bellezza, la nostra avita tradizione – dall'assalto caotico dei barbari che reclamano la propria pietruzza sberluccicante, fosse anche umile pirite. Gente priva di quelle letture che noi chiamiamo squisite, di meditati canoni formali. Ed è il vicino di casa della mia amica di Ciserano, che nella sua porzione spelacchiata di giardino lascia scorrazzare le galline, con il galletto nero che cerca di ingropparsele e fa il bullo con i passanti.

Eppure è vita anche quella, soprattutto quella, che cerca ogni volta di superarsi, di trascendersi in nuova vita, sebbene i tentativi siano più goffi del volo di quegli stessi pollastri. Ma se c'è vita, a cercar bene, deve esserci anche bellezza, e scovarla è forse il compito della grande arte. Ne incontriamo un esempio in una celebre sequenza di American Beauty, in cui una busta di carta, ripresa da uno dei protagonisti con una cinepresa amatoriale, viene gonfiata dal vento e danzata dal caso; sullo sfondo un'opaca periferia nordamericana, autunno, foglie morte. Ed è così che commenta le immagini l'autore della ripresa, mentre mostra il filmato alla nuova fidanzata:

"Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E c'è elettricità nell'aria. Puoi quasi sentirla... mi segui? E questa busta era lì; danzava, con me. Come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c'era tutta un'intera vita, dietro a ogni cosa. E un'incredibile forza benevola che voleva sapessi che non c'era motivo di avere paura. Mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so; ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c'è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla...

Il mio cuore sta per franare."

Ed è anche grazie a un film che intuisco che la bellezza può essere solo alimentata, allo stesso modo del sacro fuoco di Vesta. Ora imboccato – una grande fiamma che riscalda l'immenso culo del cielo – con copertoni esausti e pacchetti vuoti di goldoni, deposti sulla pira da vestali con le tette rifatte, l'eyeliner come la calligrafia confusa di un pediatra. Mai conservata, la bellezza, mai bloccata in una fotografia o sotto il vetro spesso di un museo, pena lo smorzarsi della vampa, o il precipitare a terra di una busta.

Conservare, cercare di trattenere la bellezza, è invece come costruire un contrafforte che impedisca al cuore di franare, un bunker in cui rifugiarsi in attesa che la tempesta sia passata. Ma come ci ricorda Sam Mendes nel suo magnifico film, "c'è così tanta bellezza nel mondo" che nessun contrafforte, nessun bunker e nessuna stabile codificazione estetica riuscirà mai a trattenere le pepite d'oro nel setaccio. E prima o poi, un cuore che è un cuore deve franare.

Così io penso che ci sia vita – dunque bellezza, grazia e perfino spiritualità – non solo in una busta di carta sospesa in un cielo livido e indifferente, ma anche in un pompino a lato delle rotonde nebbiose di Zingonia, e nelle villetta a schiera circostanti, nei suoi orrori geometrili. Di certo più vita e più bellezza che nelle segreterie del FAI o nelle sontuose magioni signorili, e però sprangate nel timore che i barbari ti rubino la vita. Che intanto se ne va da sola come in un dramma di Cechov…

martedì 13 dicembre 2011

Preferirei di no, o sul feudalesimo contemporaneo


Chiariamo subito una cosa: io non sono sensibile, io sono incazzato nero. O meglio sono cosciente, sono consapevole ma nemmeno orgoglioso, tanto mi sembra ovvio, di avere un talento infinitamente più grande di uno come Lapo Elkann. Per dire. E dico lui perché è come sparare sulla Croce rossa, ma potrei fare infiniti nomi. Tutta gente che ha più denaro e riconoscimento di me.

Sto parlando di privilegio, tanto per chiamare le cose con il loro nome. La differenza rispetto a un passato ancora prossimo – prossimo di conflitti ma umido di rimpianti – è che questo tempo e questo luogo concedono alla velleità che cova dietro a ogni privilegio di dilagare, mentre verso il talento e la capacità del fare si chiudono con progressione tutte le porte socchiuse. Soprattutto verso quel talento ancora più grande che è "diventare ciò che si è", per usare le parole di Nietzsche.

No, qui chi sei – o meglio cosa sei – resti. Al massimo una piccola mancetta ogni tanto, da scontare con moneta di purissimo rancore.

Ora questo stato di cose io non lo chiamerei più capitalismo; un ordinamento economico in cui, come aveva intuito e spiegato molto bene Max Weber, tra merito e successo intercorrevano ancora dei fili sottili ma tenaci, anche se non sempre diretti ed evidenti. Sull’etichetta della merda che l’epoca attuale mi sta riversando addosso a generose badilate ci leggo invece una sigla molto più semplice e antica: feudalesimo.

Questo è feudalesimo, già, mica più capitalismo. Un sistema di rapporti economici e sociali chiusi, bloccati ed esclusivi. Un sistema che non è stato infine abbattuto dal comunismo e nemmeno dal socialismo o dalla democrazia liberale, ma dalla progressiva insofferenza dei comuni italici e dei granducati europei, che si sono lentamente svincolati dal tiro incrociato della Chiesa e dell’Impero, prima di dar luogo a un processo successivo di riaggregazione che darà luogo agli stati nazionali.

Ciò che voglio dire è che l’impulso emancipativo, nel caso del superamento graduale della lunga fase storica del Medioevo, non è stato indirizzato da una visione sociale e umanamente solidale, ma dal più bieco individualismo. La gente, e nella fattispecie la proto-borghesia urbana, ha cioè iniziato a badare unicamente ai cazzi propri.

Così è proprio perché scorgo nella struttura elementare del nostro tempo una radice neofeudale che auspico una reazione dello stesso tipo: non rivoluzionaria, bolscevica e – almeno in questa fase – nemmeno eccessivamente partecipata. Ma di piena e totale indipendenza dal verbo economico (che è anche simbolico) del nuovo feudo globale.

Ci dicono, ad esempio, che è necessario un nuovo piccolo sforzo di precari e pensionati per risanare l’economia. Bene, e noi rispondiamo non pagando le tasse, il canone Rai, le multe: non paghiamo tutto quel che riusciamo a non pagare, ci mettessero pure in prigione tutti quanti, ma in celle separate come la nostra natura fieramente autarchica impone.

Se poi volete chiamarla incoscienza o irresponsabilità civile, ok, chiamatela pure come vi pare. Ma di sfuggita ricordo che il dizionario italiano contempla anche termini come dissidenza, autonomia. Molto bello anche il termine contrarietà.

Oppure avete presente quel breve e profetico capolavoro di Herman Melville intitolato Bartleby lo scrivano?

Un uomo, un opaco travet, da un giorno all’altro inizia a rispondere “preferirei di no” a ogni richiesta che gli viene posta. Bartleby, puoi andare di là a prendermi il faldone di documenti che sta sopra la mia scrivania, gli chiede distrattamente il capoufficio. Preferirei di no. Bartleby, puoi imbustarmi queste lettere. Preferirei di no.

E così all’infinito, a ogni minima richiesta Bartleby oppone il suo preferirei di no. Ma senza sdegno, aggressività. Piuttosto con la serafica noncuranza di un pescatore con un cappellaccio calato sugli occhi, la lenza annodata al mignolino.

Volendo potremmo anche vederci delle affinità con la rivolta pacifica di Gandhi. Con l'importante distinzione che Gandhi coltivava un progetto, una strategia a lungo termine e a sfondo comunitario. Mentre da oggi in poi, come un mite scrivano di nome Bartleby, io rivendico il privilegio della mia riconquistata indipendenza, se non economica almeno emotiva e biografica.

Diventare i registi del proprio fiasco commerciale, già che non possiamo più essere gli interpreti del nostro acclamato capolavoro. Che è sempre un fallimento, ma in nome proprio, anzi di quella minima circoscrizione comunale che coincide con il nostro corpo.

Resto dunque in attesa di un nuovo Federico Barbarossa. Il quale, tra un briefing e un summit, scenda in armi a rivendicare il suo pizzo. Ma più facilmente – senza alabarde, senza strepiti di cavalli e corazze – ci imbatteremo ancora nella medesima peluria fulva di Lapo Elkann. E però addolcita da un bel cappellino viola, che fa pendant con la sfiga di essere nati sotto le stesse falde. Ma nel lato in ombra.

(ps - altre consonanze: 1 - 2)