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mercoledì 8 maggio 2024

Quadrifogli, o su coglioni, cretine e altri (social) inferni


Se i social hanno il successo che hanno, qualche merito ce l'avranno. Personalmente, mi hanno aiutato a vedere le persone come in controluce, intuendone una struttura interna simile alla nervatura delle foglie; tende a ripetersi secondo precise ricorrenze, macrocategorie che non hanno valore assoluto ma statistico. Ciò è particolarmente evidente riguardo ai generi.

Per carità, non voglio avventurarmi nello sdrucciolevole tema delle pari opportunità, ma, attraverso il filtro ottico di comunità rigorosamente virtuali, uomini e donne confermano la loro differenza: nel peggio come nel meglio. È 
forse solo nella medietà che tendono a conformarsi, come a quei concerti in cui il pubblico intona il refrain della canzone dell'estate accendendo la torcia dello smartphone (una volta si utilizzava l'accendino).

E così, scorrendo la bacheca di Facebook, quando leggo ciò che mi appare la colossale sciocchezza scritta da un maschio, mi scappa il più delle volte la parola coglione. Mentre quando la sciocchezza proviene da una donna l'aggettivo, sostantivizzato, diventa cretina, o per esteso e continuando a parlare con il monitor: “Eccola lì... la cretina!”

Ovviamente tengo tutto dentro, non commento, non sollevo polemiche. Fino a poco tempo fa pensavo fossero sinonimi, e il mio inconscio linguistico scovasse quei termini per pura consuetudine. Invece no. Coglione è il maschio che aderisce a una parte autentica ma limitatissima di sé – quella genitale, appunto, o se vogliamo essere dotti pulsionale – e confidando nella bussola dei suoi pencolanti attributi si orienta in qualsiasi materia. Un esempio? Il generale Vannacci.

La cretina non è allora solamente diversa dal coglione, ma sconta una disposizione opposta: in lei tutto è artefatto, si auto percepisce sulla base di categorie orecchiate – "copia di mille riassunti" le chiama Samuele Bersani in una bella canzone – che vorrebbe imporre con la stessa acefala assertività a suo tempo subita. Se ne ricava la presenza di molti cretini anche tra gli uomini, e coglione tra le donne. O per essere più precisi: i cretini, maschi, sono generalmente di sinistra (il che non significa che la Sinistra sia composta da cretini) e le femmine coglione di destra (stesso discorso).

L'idea non è farina del mio sacco, lo suggeriva già Lacan per il quale il vizio capitale della Destra è rappresentato dall'egoismo; e cosa c'è di più egoistico del desiderio di infilare il proprio cazzo in ogni anfratto femminile, quindi bersi una Peroni ghiacciata, con rutto libero, di fronte al televisore sintonizzato su una partita di calcio. Siamo insomma al livello basico dell’esistere: mangia, accoppiati e combatti per interposta persona. Mentre il vizio della Sinistra, continua Lacan, è la "bêtise", da intendersi come una particolare forma appresa di stupidità.

Ma se grattiamo la scorza ai talk show politici, facciamo scorrere l'acquaragia sopra alle espressioni svagate in cui le difese linguistiche si abbassano – ed è in ciò l'utile di quel luogo di arruffate verità che sono i social – troviamo conferma all'assunto iniziale: il peggio del peggio maschile è composto da coglioni, e quello femminile da cretine. E il meglio? Se esiste il peggio dovrà infatti esserci anche il suo opposto.

Un'idea me la sono fatta… di grande aiuto sono le parole conclusive delle Città invisibili di Italo Calvino:

"L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà: se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiano stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne.
Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."

Se l’aspetto degradato dell’umano somiglia alle famiglie felici con cui inizia un altro romanzo, tutte uguali tra di loro secondo Tolstoj, la virtù è variabile al modo dell'infelicità: nella sua paziente ricerca di un chiosco di granite nell'inferno dei viventi, ha una sua propria e unica tonalità. A me emoziona e perfino commuovere una certa disposizione del femminile; ma anche tra le persone del mio sesso il meglio continua a offrirsi, seppure in forme diverse. E però sono forme mie, per un altro, un'altra, magari è diverso. L'elemento comune consiste nel non accontentarsi del menù del giorno.

In tutto ciò, l'infernale affaccendarsi delle cretine, non meno dei coglioni, macina il suo quotidiano raccolto di irrilevanza, i post si succedono in precisa cadenza, al bar chi ordina caffè corretto Sambuca continua a farlo, e probabilmente non ci sarebbe neppure gusto se il meglio abbondasse come il riso sulla bocca degli stolti; un proverbio che in fondo dice la stessa cosa, aggiungendo la virtù della sintesi.

Sta dunque a ciascuno il difficile compito di riconoscere, quindi dare spazio e far durare quanto di prezioso continua a manifestarsi; magari in piccolo, come i quadrifogli che si nascondono nel tappeto dei loro simili con tre foglie. Se solo non avessimo questa brutta abitudine di strapparli ogni volta che ne troviamo uno, chissà, forse il mondo sarebbe pieno di quadrifogli. E di bellissime persone.

domenica 3 dicembre 2023

Patriarcato e maschilismo

Semplificando al massimo, il patriarcato è una forma di organizzazione sociale in cui il potere è distribuito in vario modo tra maschi adulti – i giovani non hanno alcun margine di autonomia, qualsiasi sia il loro sesso biologico – e TUTTE le donne sono asservite, con benefici nella migliore delle ipotesi riflessi (ad esempio essere la moglie del capo tribù).

Diversamente, in ciò che viene detto maschilismo la condizione femminile è come se si sdoppiasse: le donne brutte restano a margine, mentre, per quelle belle, l'aspetto fisico diventa a sua volta una forma di potere, con cui ottenere vantaggi frazionari dall'ordine maschile.

La variabile che subentra nel patriarcato a convertirlo in maschilismo è la sillaba no: le donne possono dire no (non esco con te, non mi piaci, non mi faccio mandare dalla mamma a prendere il latte), mentre nel patriarcato il diniego femminile è inconcepibile. Lo possiamo verificare in alcune culture ancora pienamente patriarcali, ad esempio quella pakistana che non significa automaticamente islamica  i retaggi indoeuropei lì sono ancora molto forti , con i matrimoni stabiliti attraverso contratti tra i maschi adulti di famiglia.

In quei casi i femminicidi non sono la vendetta a un sì poi revocato (tipicamente: un amore unilateralmente concluso, come nel caso di Giulia Cecchettin), ma la conseguenza di un no subito espresso. Come no? Qui non esiste no è la risposta compatta dei maschi al vertice.

Il fotogramma di una celebre trasmissione televisiva che ho riportato non rappresenta dunque la conferma del sistema patriarcale che sarebbe tutt'ora presente in Occidente, macché, è una visione ingenua e purtroppo diffusa di leggere i segni del tempo. Semmai, di un suo superamento in chiave maschilista.

La bella ragazza tra due maschi ghignanti e quasi anziani: lei in costume da bagno, loro in abito scuro da gala. Lo squilibrio è imbarazzante, ma avrebbe potuto dire no, non se ne parla proprio! Evidentemente ha valutato che con quella sola apparizione televisiva poteva guadagnare, in cinque minuti, quanto una coetanea meno bella in un mese di lavoro al pup Crazy Hamburger. Oppure la remunerazione è nei termini di umano desiderio di riconoscimento e approvazione, alla maniera delle palette con il voto a Miss Italia.

Non è nemmeno detto che il vanto per il culo sia superiore a quello per il cervello. Intanto ti fai strada con il culo (il cervello non si vede), e poi capitalizzi con intelligenza e capacità, come ha fatto Sofia Loren arrivando quarta proprio al concorso di Miss Italia, era l'anno in cui Pavese si tolse la vita e usciva la Fiat 1400. Il corpo utilizzato strategicamente con funzione di apripista. Il campione di sci arriva dopo.

Sono scelte, magari non le condividiamo – quanto è bella la ragazza che fa da muta sottiletta tra Bonolis e Laurenti, quanto è ottusa e brutta l’immagine in cui guadagna il centro focale – ma è giusto rispettarle. Come andare o non andare a letto col produttore per avere un ruolo nel film; pratica che Marylin ammetteva con il suo consueto candore, accompagnando il tutto con un sospiro.

Semmai è discutibile la domanda, non la risposta, che può essere appunto anche no, o ancora meglio I would prefer not to, come rispondeva lo scrivano Bartleby a ogni richiesta a lui rivolta. Ma se la sventurata risponde affermativamente, partecipa, nei fatti quanto nei simboli, a quel sistema di potere. Dove a essere emarginate non sono le donne, ma le donne brutte. Per gli uomini l'avvenenza fisica comincia ad avere una timida ricaduta sociale solo da qualche decennio.

Gli esempi di un potere che non ha bisogno di forza per ottenere si sprecano. Nell'antichità abbiamo la sua premessa mitica con Elena e Circe, che trasformava i maschi in porci, mentre diventa effettivo a seguito dell'affermazione della società borghese nell'Ottocento, di cui possiamo individuare un emblema in Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria Oldoini, meglio nota come Contessa di Castiglione.

Anche lei si levava gli abiti di fronte a maschi adulti e di potere, probabilmente andava ben oltre, qui si fa l'Italia o si muore, ma al netto dell'enfasi risorgimentale si faceva poi solo l'amore. Ma chi tra di essi dirigeva il gioco e chi era diretto? La risposta non è così scontata.

lunedì 27 novembre 2023

Patriarcato

Il dibattito di questi giorni sul patriarcato mi ha ricordato una battuta pronunciata da Kant, che per una volta mostra di possedere non solo intelligenza ma anche senso dell'umorismo: c’è un genere di medici insinua il filosofo di Königsberg, i medici della mente, che pensano, ogni volta che trovano un nome, di aver trovato una malattia.

Ora quella frecciatina andrebbe forse ribaltata di segno, già che nel suo significato letterale – e cioè aderendo alle categorie antropologiche da cui proviene – il termine patriarcato è del tutto improprio a descrivere il presente: è una vecchia parola per definire una nuova malattia.

Il patriarcato, come ha ricordato Massimo Cacciari ospite da Lilli Gruber, può essere sintetizzato dal concetto di patria potestas, che prima delle parole latine che lo esprimono (in questo aveva ragione Kant: le parole arrivano quasi sempre dopo le cose, quando non le generano come nella buona novella cristiana) si manifesta in Occidente a partire dall'invasione dei Dori, intorno alla metà del secondo millennio a.C. Quindi si consolida nelle successive ondate ariane dall'Asia centrale, che dilagando nelle terre del tramonto importano il loro modello sociale fondato sulla tripartizione tra sacerdoti, guerrieri e contadini o piccoli artigiani. Tutti maschi, naturalmente.

L'organizzazione anteriore può essere solo ipotizzata – il matriarcato? – ma è certo che da quel momento in poi il padre ha un dominio totale sulla famiglia e l'uomo sulla comunità, con interessanti variazioni che però non ne stravolgono il modello. A Sparta, ad esempio, la donna aveva un ruolo molto più rilevante che ad Atene, dove ci si stupiva che Pericle compisse dei gesti pubblici di tenerezza verso la compagna Aspasia.

Poi il patriarcato entra in crisi, come è evidente, continua Cacciari, nelle tragedie shakespeariane: Otello, Macbeth e Lear sono tutti maschi la cui potestas vacilla, senza però crollare come avverrà a seguito della rivoluzione industriale con conseguente urbanizzazione, dando vita alla classe borghese che si accompagna alla fine del patriarcato. Un mondo ancora ampiamente sbilanciato verso il lato maschile, ma in cui l'eccezione alla regola si fa quantomeno licenza.

È di nuovo l'arte a testimoniare il cambiamento: tra Emma e Carlo Bovary, poniamo, chi guida e chi è guidato? A me sembra che si siano persi entrambi; con la differenza che Emma cerca nuove direzioni al suo malessere, finendo con l'essere travolta da quella bussola ingannevole che è il desiderio mediato, mai davvero suo, e Carlo si involve, ripiegando su sé stesso come un fiore senza acqua.

Lo psicoanalista Massimo Recalcati concede al patriarcato un ulteriore secolo di sopravvivenza, anche se io sarei più propenso a chiamare quella fase di trapasso maschilismo – l'epoca dei vari fascismi lo fu al massimo grado, con significative differenze tra nord e sud, campagne e città – culminando comunque nel 1968. Da lì in poi nulla è stato come prima.

Carlo Bovary o Zeno Cosini o, ancora, i maschi inetti alla vita nelle opere di Cechov, divengono così l'emblema involontario del maggio francese, e la dolente involuzione del loro status virile non si discosta molto dal presente digitalizzato; mentre nelle donne il bovarismo si converte in rapporti sempre più saldi con il reale, emancipandosi dalla pappa di sogno romantica.

In una percentuale minoritaria di maschi, il progressivo svuotamento di potere sulla donna che smette di essere davvero propria, se non nei testi delle canzoni, si traduce in rabbia e rancore; ed è la probabile altra faccia della medaglia costituita dallo sconcerto provato da chi ha compiuto diciotto anni il 20 settembre del 1958, giorno in cui la legge Merlin imponeva la chiusura dei bordelli. E io…? avranno pensato i più focosi tra di essi, in un sentimento di espropriazione che è tutto il contrario dell’onnipotenza simbolica confezionata dal sistema patriarcale.

Dal punto di vista testosteronico, ossia limitato alla sola forza fisica e non biologica, gli uomini rimangono però potenzialmente dominanti, e così a qualcuno potrebbe venire la tentazione di infrangere la teca in cui lumeggia l'oggetto desiderato, guardare ma non toccare. No, io voglio dunque io posso, è la reazione di quei pochissimi alla perdita del regno. Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli, ancora recita una preghiera rivolta a un maschio caucasico anziano e con la barba.

È questo il pensiero anche di Erri De Luca che, senza l'assertività spiccia di Cacciari o le volute intellettuali barocche di Recalcati, ma con la dolcezza partenopea che lo contraddistingue, parla di sentimento maschile della disgregazione. Quella disgregazione del maschio che nel cinema ha trovato forse la migliore sintesi nelle pellicole di Marco Ferreri; rispetto al languore romantico o alla vertigine primonovecentesca fotografano un elemento più attuale: la donna percepita come alterità ontologica assoluta, e non solo come subalterna emancipata.

Peccato che nel cinema contemporaneo non sia presente quell’acutezza di sguardo, sempre accompagnato da una poetica bizzarria, affettuoso sberleffo di chi non giudica ma apprende. Pensiamo alla pur apprezzabile pellicola di Paola Cortellesi: l'impegno civile è qui massimo, ma flette la coscienza analitica che dovrebbe fargli da sfondo, restituendo una vicenda particolare che non riesce guadagnare risonanza universale, farsi stemma di mondo. Si ha piuttosto l'impressione che cerchi di dare un vecchio nome alla confusione instabile del presente. E invece dovremmo fare ciò che Kant rimproverava a un genere di medici, i medici della mente: cercare nuovi nomi, nuove forme e ragionamenti. Più complessità, insomma.

Ma va bene partire anche da lì, Cortellesi, più che i fasti di un ormai inesistente patriarcato, ci ha mostrato gli strascichi di quella cultura sopravvissuta oltre due millenni; non un canto del cigno, ma l’ululato del lupo braccato dai cacciatori. Ora sarebbe bello che qualcuno ne afferrasse il testimone e sviluppasse il discorso, lo precisasse. A un tempo complesso parole e immagini complesse. Nuove.

giovedì 23 novembre 2023

Lo sfigato e la puttana, o su come le parole fanno mondo


I femminicidi stanno diventando un fenomeno simile ai monsoni nel subcontinente indiano: vengono vigliaccamente compiuti da un maschio, se ne parla molto e non di rado a sproposito, poi, per un poco, ce ne scordiamo in un'apparente quiete di vento, fino a che una nuova tempesta si abbatte. Una ricorsività priva di fantasia di cui sorprende solo la nostra memoria corta.

Giulia Cecchettin avrebbe potuto chiamarsi Concetta Scognamiglio o Anna Rossi, la sua morte era comunque attesa, come purtroppo la prossima vittima, speriamo il più tardi possibile. Ma proprio perché siamo una specie smemorata è tanto più forte la reazione emotiva, al punto che qualcuno si chiedeva in questi giorni quale fosse l'equivalente maschile di puttana, riferito a una donna con intento offensivo. Non ho dovuto pensarci molto prima di concludere: sfigato.

È interessante notare come i due termini coincidano nel giudizio di valore, che non potrebbe essere più sprezzante. Si pongono però in antitesi quanto al loro significato: da un lato, con puttana, abbiamo una sorta di eccesso – poco importa se l'esubero (di “figa”) venga spartito per noia, professione o come Bocca di rosa né uno né l'altro, lei lo faceva per passione – mentre lo sfigato sconta l'avvilente regime della penuria. Ma sei puttana anche se revochi l'offerta di ciò che è e rimane tuo a chi si illudeva di esserne monopolista, e sfigato se non fai valere questo illusorio diritto. Da qui il femminicidio.

Ancora più interessante è indagare l'uso accidentale dei termini. Se ad esempio troviamo l'auto lasciata in sosta con una lunga ammaccatura sulla fiancata, l'esclamazione che segue non sarà porco patriarcato, ma più verosimilmente porca puttana! Potremmo pensare a qualcosa di simile all'inconscio psicoanalitico – già Lacan poneva un'analogia tra linguaggio e inconscio –, ma a differenza di quello non si mostra nei sogni e negli atti mancati, ma attraverso imprecazioni che emergono quando rabbia e dolore prendono il sopravvento.

Pensiamo alla sequenza del film Berlinguer ti voglio bene, con Benigni, nel ruolo di Mario Cioni, che ha appena ricevuto la notizia della morte della madre; fortunatamente si rivelerà solo un macabro scherzo degli amici. Mentre attraversa i campi per raggiungere la casa di famiglia è tutto un gorgogliare di frasi sconce – “la merda della maiala degli stronzoli nel culo…” –, un vulcano che solo così riesce a eruttare il suo male.

Per comprendere il codice di ciò che fa tana sotto i discorsi nei talk show, dove si commenta forbitamente la tragedia del giorno, meglio sarebbe allora spegnere il televisore e andare in vacanza con Filini, quindi tenere in posizione verticale il picchetto della tenda mentre questi cerca di conficcarlo al suolo con un grosso martello. Non rivelerò cosa avviene dopo, essere italiani comporta la conoscenza di quest'altro film e delle memorabili sventure del suo protagonista, il rag. Ugo Fantozzi.

Se in condizioni estreme la donna, nell'immaginario maschile, si converte in puttana, e la puttana in porca, bisogna riconoscere che nella maggior parte dei casi il pregiudizio non viene replicato nei gesti. Nel nostro solo Paese si verificano ogni anno un centinaio di femminicidi, ma per ognuno di essi abbiamo migliaia di maschi gentili e premurosi verso le loro compagne. Le esclamazioni sessiste sono insomma solo modi di dire, come le donne dicono di quel tale ma l'hai visto, che sfigato!, conversando sotto il casco del parrucchiere.

Tutto bene dunque, tutto a posto? Sì e no. Perché tra la regola e l'eccezione si mostra un sottilissimo filo, costituito appunto dal linguaggio. Per reciderlo e fare volare il palloncino in cielo dovremmo imparare la difficile arte dello sdoppiamento vigile, ascoltarsi mentre una lingua ci parla (con l'illusione essere noi a parlarla) potrebbe essere una buona propedeutica.

Magari continueremo a dire porca puttana, porca troia, sfigato – succede mica niente, a catechismo venivano chiamati peccati veniali. Ma almeno avremo intuito da quali oscure profondità alfabetiche provengono i comportamenti che gli fanno da specchio, dove non esiste lo smaltimento dei rifiuti verbali. Si trasmettono da una generazione all'altra, saturano il cazzeggio negli spogliatoi, si accumulano alla maniera delle pile degli smartphone che prima o poi dovremo spedire sulla luna.

L'omicidio di una donna da parte di un uomo respinto rappresenterà pure un caso su un milione, come il legno con cui viene costruita una ghigliottina. Ma prima è stato un albero uguale a tutti gli altri, prima ancora un seme, che non a caso possiede lo stesso etimo di semantica. Una parola insomma, seppellita sotto la terra dissodata dal conversare distratto. Se le condizioni ambientali le sono propizie poi accade quel che accade. Mentre con il diserbante della consapevolezza, la si può forse stroncare prima che sbocci.

Inappropriate, o sull'ordine simbolico e la meraviglia

La differenza tra la vita e il cinema, ti dicono, è che nella prima il male accade, così, semplicemente e senza un senso, mentre nel secondo è un segno, rimanda quasi sempre a un'idea di mondo. Un mondo ammalorato, appunto, che grazie a quel segno lo spettatore si presume possa riconoscere, prendendone le distanze.

Eppure, a volte anche le storie della vita insinuano dei segni, ma per intenderli dobbiamo guardarli come se fosse un film, puntellato da reconditi messaggi creati ad arte dal regista, dallo sceneggiatore e perfino dal costumista.

Immaginiamo allora per un istante che la sorella della povera Giulia Cecchettin, Elena, sia un'attrice, e che l'orrenda felpa con la quale ha rilasciato le interviste fosse un abito di scena, si è addirittura parlato di satanismo. Il commento più ricorrente è però stato di inappropriatezza: non ci si presenta in pubblico conciate a quella maniera, a maggior ragione quando tua sorella è appena morta.

Nell'ipotetico film che interpreta, non si potrebbe trovare migliore aggettivo per commentare l'intera vicenda: inappropriata, che sta a significare di non proprietà, ciò che si porge non contiene l'ipoteca di nessuno, e perciò lo si può anche revocare.

Elena Cecchettin è dunque stata davvero inappropriata, almeno in senso letterale, come lo era la sorella Giulia: entrambe fuori dal possesso di un solo uomo o di un'intera benpensante comunità. Di più. Tutte le donne, ma in fondo tutti senza distinzione di genere, dovrebbero essere inappropriati, sia nel lasciare la persona che non si ama più, sia nell'indossare indumenti di discutibile gusto. O meglio: il proprio gusto.

L'unica proprietà che un'altra persona ha su di noi è quella di inviare segni, a cui, a nostra volta, abbiamo proprietà di corrispondere o meno. Quando si realizza la corrispondenza abbiamo amore, amicizia, comunità. Diversamente, quei tizi che stanno al bancone a bere da soli, nei pub inglesi li chiamano sad bastard.

Possiamo anche intendere l'ordine simbolico come il codice del gruppo, e la meraviglia un'inattesa singolarità che non nuoce, ma disorienta e fa pensare. Forse per questo Aristotele sosteneva che la filosofia proviene dalla meraviglia. L'abbigliamento di Elena Cecchettin diviene così un gesto filosofico meraviglioso, in cui l'abituale – andare in tivù compunti e contriti a esibire il lutto – viene rielaborato in nuova forma. E dopo il primo stordimento, le sono grato per avermi arruffato i pensieri.

giovedì 18 maggio 2023

Le gambe delle donne e la rotta del vapore

In una celebre sequenza di L'homme qui aimait les femmes, il protagonista, Charles Denner, pronuncia la seguente frase: “Le gambe delle donne sono dei compassi che misurano il globo terrestre in tutte le direzioni, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia”.

Ci ripensavo ieri sera osservando l’ennesimo intervento di Lucio Caracciolo; ospite in televisione faceva il punto sullo squilibrio in cui è precipitato il mondo, la sua geometrica disarmonia. E mi chiedevo: non è che tutto è cominciato quando le gambe delle donne hanno smesso di misurare il globo, spostando le punte dei loro compassi dai marciapiedi, le balere con consumazione inclusa, biciclette con il canotto basso e una mano tesa a non far svolazzare la gonna, magari queste cose ci sono ancora ma oscurate dalle bacheche di un social network? O forse sono stati i maschi a non sbirciare più le gambe delle donne, concentrati come sono sul display del proprio smartphone…

Sembra una boutade, e un po’ lo è, ma al fondo la questione è seria. Il cibo, il sacrificio e soprattutto l’eros, da anni immemori sono gli strumenti attraverso cui vengono allentati i conflitti sociali, posseggono la funzione della valvola nella pentola a pressione: panem et circenses 
e nei circhi a cui allude il motto latino venivano scannati i cristiani, gladiatori e bestie feroci si contendevano l'ultimo respiro. Se ancora non bastava, eccole lì: le gambe delle donne da guardare ma non toccare. Ogni tanto però anche sì, dai, se si sollevava la dogana del consenso.


Di quel mondo premoderno rimangono ora i cuochi stellati. Ma basteranno, per salvarci dal caos cubista, agnelli da fare al forno e guarnire con cavoletti alla Rouventelle (il termine me lo sono inventato di sana pianta, non fingete di annuire), per fortuna non più sacrificati a qualche dio che non c’è? Mentre le gambe delle donne, assieme a quelle degli uomini d’Occidente, stanno sotto al tavolo in attesa della prossima portata. Bada bene senza sfiorarsi in un malizioso piedino.

D’altronde, era stato anticipato in tempi non sospetti. Di solito così cupo e lambiccato, con inattesa e amara ironia – per una volta nella vita me lo immagino vestito con abiti di un colore diverso dal nero – lo suggerisce Søren Kierkegaard: “La nave è in mano al cuoco di bordo. E ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani.”

domenica 22 gennaio 2023

Nuovi media per vecchi giochi, o sulla seduzione intellettuale

Gli uomini colti, studiosi, anzi no meglio, studiati, sui social tendono a offrire un’immagine di sé abbastanza uniforme, in cui il corpo trova pochissimo spazio e nessuno il genere maschile, il mascolino come rappresentazione. Solo rare fotografie che li ritraggono, a introdurre il sospetto di un'ipoteca ideologica. Così la potremmo formulare: io sono puro pensiero, non volgarissima carne. Dei moderni gnostici si direbbe.

Esattamente il contrario di quanto accade a donne ugualmente istruite, sempre osservate da quella specula antropologica che sono i social. Parlo per macro categorie, tendenze. Che le vede impegnate in una riflessione anche fisica, a noi restituita attraverso immagini a volte esplicite, perfino erotiche, sensuali, nei limiti della censura bacchettona del mezzo. Perlopiù si tratta di selfie, in cui il proprio corpo viene documentato nel dettaglio, accompagnando l'incarnazione all'astrazione intellettuale.

Non credo sia presente una strategia di qualche tipo, piuttosto viene alla mente la modalità del collaudo, si prova e si vede che succede. Eppure, a chi incrocia quelle immagini, sembra di potervi scorgere un sotto testo, ricorda il refrain di una celebre canzone di Rossana Fratello: “Sono una donna, non sono una santa, non tentarmi non sono una santa…”

Però intanto io tento te, continua l’interpretazione azzardata degli scatti, voglio vedere quale è il tuo punto di rottura, se cedi, capitoli, mi lasci un like come gesto di resa al mio essere femmina, non solo donna. Quello valeva negli anni Sessanta: le donne che si fanno strada nei circuiti intellettuali, tradizionalmente maschili, identificandosi con il cervello. Ora non basta più, acquisito il riconoscimento si fa ora un passo indietro. Come nel Monopoli, dopo avere fatto tutto il giro si riparte da vicolo Corto.

Ma allora è seduzione, stanno cercando di rimorchiare? Forse no. Se pure ti piaccio – dì la verità che ti piaccio… prosegue il sotto testo – sappi che non mi puoi avere. Guardare ma non toccare. Mica sono una troietta qualunque; ho studiato filosofia con Maurizio Ferraris, fatto il master in Germania, lavoro in una casa editrice prestigiosa e parlo tre lingue moderne e due antiche. E se non ti basta ancora, ho pure il numero del portatile di Baricco.

Tutte cose effettivamente vere. Se vai a leggere quel che scrivono la prosa scorre via limpida e scattante, anche ironica, pungente. Un piacere! Oppure puoi trovarvi citazioni da Sylvia Plath, Hannah Arendt, Etty Hillesum. Il meglio del meglio del catalogo Adelphi, insomma.

È la disposizione femminile che i francesi chiamano allumeuse. Donne che accendono il desiderio maschile per il solo gusto di farlo, lasciandolo poi ardere in solitudine, nessuna speranza di spegnere le fiamme con le loro acque. E ripeto va benissimo, nessuna critica o recriminazione: è un modo come un altro per definire i propri limiti e possibilità, riconoscersi attraverso lo sguardo dell’altro.

Arriverei perfino a dire che rappresenta un elemento di pragmatica saggezza; l'intelligenza di chi ha compreso la natura del mezzo, convertendo il freno in acceleratore di traiettorie sensibili, significanti privi di alcun significato. Qualcuno potrebbe insinuare il sospetto di narcisismo, ma anche se fosse come biasimarle, in un luogo dove ogni relazione reale viene negata a priori. Quando su Facebook viene chiamata amicizia un semplice contatto tra sconosciuti, perché non chiamare, fuorviando ugualmente la semantica, eros l'esibizione sterilizzata del proprio corpo? Dunque hanno ragione loro.

Ma allora quelli che hanno torto siamo noi, la manifestazione erotica è ciò che fa difetto nell’ascetismo intellettuale. Va nella direzione di quel processo alchemico che Jung chiamava mysterium coniuctionis, in cui gli opposti trovano integrazione e non più solo conflitto: io sono preziose sinapsi ma anche tette sode, culo e coscienza critica, il libro e le rose. È la logica dell'et et da sostituire all'aut aut, praticato dai maschi letterati.

Credo che dovremmo iniziare a fare lo stesso. Uscire dai monasteri e tornare a fare i bei sirenetti, lasciare fiorire il pacco con nonscialante casualità, e poi piazzare pure la medaglia al valore intellettuale, la citazione di Roland Barthes che ci distingue dagli infiniti pacchi senza griffe. Perché, alla fine, il gioco a me sembra questo, uguale uguale al sistema della moda. Ci sono i jeans Armani e ci sono i jeans Carrera. Sono identici, ma i primi costano cinque volte di più.

Un bel corpo smutandato – uomo o donna, non fa più molta differenza – con allegata una frase di Kafka varrà allora cinque volte uno accompagnato dalla scritta vai maggica Roma! Un gioco un po’ infantile e senza premi in natura. Pazienza. Ma se dobbiamo giocare, giochiamo pure.

martedì 17 gennaio 2023

Il cuore del mondo

Il cuore del mondo, giuro, io una volta l'ho sentito battere. Di questo mondo, almeno. Altri mondi non ne conosco. Il suo pulsare non aveva il suono di sistoli e diastoli, ma di starnuti.

Ero appena stato dal dentista. Quando mi risollevo dalla poltrona del dentista – la lampada scialitica ricoperta da una pellicola trasparente, l’eco del trapano ancora nelle orecchie – avverto la confusa vitalità che segue ai funerali. L'abbiamo "messo via" si dice da queste parti. E poi tartine con cui ingozzarsi, le uova di lompo tra i denti mentre ci si scambia pettegolezzi, ma d'altronde the show must go on, così si progettano rimpatriate da rimandare al prossimo funerale. Sotto camicette scure riaffiorano i seni delle donne.

È una donna scura anche quella che vedo crescere al diminuire della distanza che ci separa. Magra. Alta. Probabilmente nigeriana. Un amico mi ha detto che da queste parti ci stanno le nigeriane. Prova, ha aggiunto.

Bizzarro posto per prostituirsi, penso. Una rotonda al crocevia di strade comunali ritte come in una foto di Luigi Ghirri (su quelle sarebbe più facile adescare i clienti) a solcare i campi poco prima di un poligono di tiro.

In estate qui cresce il granoturco, si possono scorgere i fusti recisi che ricordano mani protese di bambini sepolti. Sbucano dal suolo per chiedere aiuto o fare gli scherzi agli innamorati. Si cercano, in un labirinto di foglie, fino a che uno non trova l’altro e riceve un bacio. Ma non adesso. 

Ora la terra è ricoperta da uno strato sottile di neve, il cielo sopra dello stesso colore. Niente di strano alla metà gennaio. Seguo la rotazione di marcia della rotonda e, quando l'ho raggiunta, accosto. Abbasso il finestrino. Insieme all'aria tiepida del riscaldamento fuoriescono le note di Hotel California. La mia fidanzata mi ha regalato il CD al compimento dei quarant'anni, abbiamo festeggiato con una cenetta vegana. Lei non mangia carne perché le dispiace far soffrire gli animali, e un po' anche a me.

Si continua, come da consuetudine, con la dichiarazione della pratica richiesta, seguita da più caute informazioni sul compenso. Come i tedeschi che non entrano al ristorante se prima non leggono il menu con i prezzi dettagliati, nelle località turistiche viene esposto in una locandina accanto all'ingresso. Il tutto riassunto in due parole, tre con la preposizione.

– Quanto di bocca?

– Dieci euro.

Dieci euro?! Troppo pochi, non scherziamo... Gliene offro venti e non le sembra vero. Anche di stare un poco al caldo. Dai, monta. Imbocchiamo un viottolo in terra battuta che a breve si interrompe in uno slargo. Nulla che vi si affacci, come se fosse la piazza di un civiltà perduta o la scommessa su di una futura. In attesa di quel tempo, viene riempita con qualche oggetto di scarto: un materasso sfondato, quel che rimane di un passeggino, l'ala di un aeroplano radiocomandato che forse qui veniva fatto decollare. 

Lascio accesso il motore per non perdere temperatura. Nessuna parola o presa di confidenza tra i corpi, preliminari. Solo un po' di stimolo con la mano (le dita spuntano da guanti di lana color crema, le unghie hanno smalto cremisi) prima di infilarmi un preservativo di una marca che non ho mai sentito nominare. Io sono ipocondriaco, faccio caso a queste cose. Ma in fondo è solo un pompino, e mi rilasso.

Si china per iniziare ciò che abbiamo pattuito quando arriva il primo starnuto. Scusa, mi dice strofinandosi il naso con la manica del piumino sintetico, la tinta è un po' più chiara e sbiadita dei guanti. Ma figurati. Dopo una decina di secondi un nuovo starnuto.

– Dai, basta, non vedi che sei malata.

– No no, domani passa.

– Ti porto a casa – insisto.

– Tu pagato, io finire.

– Ma così finisci all’ospedale.

– …

Non risponde, ha già ripreso con la foga di chi giustamente considera il tempo denaro. Mentre è curva su di me osservo il collo sottile, le donne nigeriane di solito l'hanno più muscoloso. E poi è profumato. Troppo profumato. Un odore di spezie che stordisce. Qualcosa tra il sentore che si immagina in una principessa di un paese lontano e il rosolare lento dello spiedo su cui è infilzato il kebab.

Mi viene il dubbio che sia senegalese, o magari ivoriana… Dal viso si dovrebbe intuire ma mi accorgo di averne già scordato i lineamenti. Così non vale, è come se tutte le donne nere del mondo, anzi tutte le donne e basta, il femminile, mi stesse succhiando il cazzo. Non c’è proporzione, a ogni affondo mi sembra di venire divorato da una creatura primordiale e indistinta. Ma in questo modo anche i miei confini finiscono col dileguare.

Provo a restituirle un’identità (per riconquistarla a mia volta) attraverso immagini d’archivio. Dipinti famosi, attrici, fotomodelle di colore che mi eccitavano negli anni Ottanta. Oppure Joséphine Baker, sì, ecco, lei! Joséphine Baker che si dimena al Théâtre des Champs-Élysées con un casco di banane al posto della gonnellina. Poi un nuovo starnuto sopraggiunge a interrompere il mio fantasticare.

– Sicura che non vuoi che ti porti a casa?

– Quale casa?

– Beh, una, non so…

– Tu non sapere tante cose.

Questa volta solleva la testa e mi guarda. Sorride. Probabilmente ride di me, ma intanto dischiude la bocca mostrando denti da pubblicità di un dentifricio. La posa che cercavo!

Metto a fuoco il suo volto, predispongo la pellicola della memoria e clic. Ora ha smesso di essere tutte le donne. È una donna sola, anzi una ragazza: quella ragazza lì e non un'altra che le somigli. Vent’anni, ventidue al massimo. E un raffreddore colossale che, ha ragione lei, tra pochi giorni passerà, come tutto quanto. Qualche nuovo starnuto e abbiamo finito, la riporto alla sua rotonda.

– Sicura sicura...?

– Tu simpaticone. Ho detto giusto?

– Non so.

– Hai fidanzata?

– Sì, non mangia carne.

– A te piace carne?

– Preferisco il pesce.

– Italiani... – e di nuovo ride.

– Allora ciao.

– Ciao.

Quando sono ripartito le mani dei bambini erano ancora al loro posto, conficcate a reggere il cuore del mondo. Una Volkswagen Passat proviene sulla corsia opposta. Un'auto che acquistano i rappresentanti di commercio, o chi ha molti figli e un cane da fare balzare nel portellone. Nello specchietto retrovisore vedo accendersi la freccia, quindi la lucina rossa degli stop che precede la negoziazione. L'ultima immagine che conservo sono le lunghe gambe nere di di... Ho dimenticato di chiederle come si chiama. Ora è di nuovo tutte le donne.

Tutte le donne salgono sulla Passat. Poi un Kleenex vola dal finestrino, plana lentamente sul ciglio della strada posandosi accanto a un sacchetto dell'Esselunga. È pieno di preservativi di una marca che non ho mai sentito nominare. All'interno di uno, uno dei tanti, non fa molta differenza, devono esserci anche i miei spermatozoi. Negli altri il seme di tutti i clienti della giornata. Pesci rossi penso, pesci rossi in un acquario. Li unisce l'illusione di un ovulo da fecondare. Ancora si dibattono, ostinati, nella ricerca.

Il mio amico, quello che mi ha invitato a provare con le nigeriane, dice che i clienti delle prostitute tra loro si chiamano colleghi.

mercoledì 4 gennaio 2023

A Vittorio Feltri e Lidia Ravera preferisco il cavolfiore


“La scrittrice Murgia non mi piace non per quello che dice o scrive ma perché è brutta come l’orco”. Lo scrive Vittorio Feltri sui social, venendo immediatamente – e giustamente – ripreso da migliaia di uomini e donne, soprattutto donne.

Tra di esse una tra le più pronte e frementi è Lidia Ravera, che inizia la sua invettiva con la precisazione: “Vittorio Feltri, a cui nessuno ha mai imputato di essere vecchio e racchio, a prescindere dalle cose che dice o scrive, benché sia nato nel 1943 e non brilli per avvenenza.” Più avanti aggiunge che “fa paura la mancanza di rispetto per il pensiero quando a pensare è una donna. Fa paura che invece di confutare si insulti. Fa paura che l’insulto sia sempre sei brutta. O sei vecchia. O sei vecchia e brutta. Come se le donne fossero innanzitutto graziosi trastulli per sua maestà il maschio, con cui si può essere in accordo o in disaccordo, ma mai ti verrebbe in mente di inchiodarlo al suo aspetto.”

Devo dire che condivido quasi tutto ciò che qui scrive Lidia Ravera; Feltri, nella circostanza, è davvero indifendibile. Eppure c’è quel quasi, una sfumatura, un niente, su cui sto rimuginando da un po’. Si tratta dell’avverbio di frequenza sempre: fa paura che l'insulto sia SEMPRE sei brutta. O sei vecchia. Ma siamo proprio sicuri?

Io penso, al contrario, che viviamo un'epoca storica mai così cauta nell'esprimere giudizi fisici sulle donne, oppure giudizi etnici, critiche su culture minoritarie come quella degli indiani Cicorioni, per cui in Ecce Bombo Nanni Moretti partecipava a virtuosi sit-in; insomma, quello che ora viene chiamiamo politically correct, e un tempo buona educazione.

Ci sarebbe molto da dire al riguardo – io ci vedo aspetti sia positivi sia negativi; gli ultimi, e come sempre accade, nei suoi estremismi – ma la vicenda mi sembra che possa essere meglio inquadrata al singolare: Vittorio Feltri è un gran cafone, non è la prima volta che si lascia andare a commenti del genere, pensando forse di essere anticonformista. Invece è solo un pirla. Ma ricordarne l'età accompagnata da una dichiarazione di scarsa avvenenza, mi ricorda una formula infantile – "specchio riflesso" si diceva all’amico chi ti canzonava – per restituire pan per focaccia.

Una replica al peggiore maschilismo, ma, anche, in questo caso, del peggiore maschilismo. Di segno solo invertito. E nemmeno Lidia Ravera è nuova a questa inversione matematica, almeno se vogliamo dare credito alla quarta di copertina di un suo recente pamphlet: “Avete mai provato a guardare gli uomini come se fossero donne? A valutarli in base alla loro avvenenza, all'età, alla freschezza, al sex appeal? Lidia Ravera l'ha fatto, tre volte alla settimana, in novecento battute, dal marzo del 2009, sul quotidiano L'Unità. Ha applicato uno sguardo implacabilmente maschile ai protagonisti della vita politica italiana.”

Ebbene, se questo è il gioco, perché stupirsi? In fondo è vero che Michela Murgia è meno bella di, mettiamo, Belen Rodriguez, così come Feltri sfigura al cospetto di Brad Pitt. E adesso? Chi ha vinto? Come possiamo andare avanti in quella che Leopardi chiamava conversazione, e altro non è che il medesimo umano procedere nel verso che conduce alla morte: uomini, donne, animali? Dobbiamo forse incendiare le scoregge, vedere chi, tra i generi sessuali e post sessuali, le spara più forti e tonanti?

O magari si può fare un passo indietro e dire che Vittorio Feltri è un maschio, o se si preferisce e per maggiore completezza un giornalista maschio. Non tutti i giornalisti e tutti i maschi, o, peggio ancora, il soggetto che fa da antonomasia al suo genere e alla sua professione. Solo quel maschio giornalista lì. E poco importa se sia bello, brutto, vecchio o se abbia sex appeal, una formula linguistica che si usava cinquant’anni fa.

Ugualmente, mi vergogno perfino a doverlo aggiungere, l'ovvio andrebbe sanzionato, la singolarità a cui dà voce Feltri non deve permettersi di commentare pubblicamente l’aspetto di Michela Murgia; che lo faccia dal parrucchiere se proprio ne sente l’esigenza, in quella che è considerata un’enclave protetta dalla correttezza politica, dove il pettegolezzo estetico può ancora allungare i suoi spilli.n

Un giornalista maschio che ha insultato una femmina prima ancora che una scrittrice, anche lei portatrice di virtù e vizi del tutto particolari. La situazione è questa e ha certamente riflessi collettivi, politici. Ma lasciamo perdere la dimensione astratta che vedrebbe contrapposti maschi a femmine. Già che altri maschi, la maggior parte, giornalisti o meno, si esprime diversamente.

 

sabato 29 ottobre 2022

Memo Remigi c'est moi

Un uomo di ottantaquattro anni, di recente rimasto vedovo, fa scivolare la mano avvizzita sul sedere di una trentacinquenne, il tutto in diretta televisiva e ahimè (per lui) in favore di camera. Ciò che rende doppiamente triste una vicenda già squallida, è che quella mano appartiene a chi, cinquantasette anni prima, nel 1965, cantava:


"Sapessi com'è strano

Sentirsi innamorati

A Milano


Senza fiori, senza verde

Senza cielo, senza niente

Fra la gente, tanta gente


Sapessi com'è strano

Darsi appuntamenti

A Milano


In un grande magazzino

In piazza o in galleria

Che pazzia


Eppure

In questo posto impossibile

Tu mi hai detto ti amo

Io ti ho detto ti amo..."


Un testo di ingenua e delicata poesia sulle belle note di Alberto Testa, a insinuare il dubbio che l'episodio  si chiamano molestie sessuali, nessuna reticenza o assoluzione nel denunciarlo  celi una versione aggiornata dell'enigma della Sfinge risolto da Edipo: chi è quella creatura che all'alba gioca a biglie nei cortili; quando la luce è meridiana si innamora, non di rado ricambiato, spremendo il meglio dal proprio cuore; e al crepuscolo plana con pericolosi sussulti, come un aeroplano in avaria, su tutto ciò che gli ricorda quel meglio ormai perduto, specie se possiede la geometria tonda di un bel culo femminile?

No, la risposta non è Memo Remigi, troppo facile. Piuttosto il maschio occidentale tout court, che, a differenza delle donne, fatica a interiorizzare il monito biblico per cui "c'è un tempo per ogni cosa": tempo per giocare, innamorarsi, cantare e tastare culi  bada bene: il desiderio della mano deve fare da riflesso a quello del culo di essere tastato, in quel gioco erotico condiviso che si chiama petting.

Nel maschio i piani tendono piuttosto a confondersi. Ed è così con malinconia, più che con rabbia, o scherno, che riesco a commentare l'accaduto: "Memo Remigi c'est moi", anche se non ho mai carezzato sederi che non mi concedessero questo antico privilegio.

domenica 25 settembre 2022

Dubbio misogino

Ogni tanto, per non dire spesso, mi capita di leggere dei pensieri semplici semplici, sono scritti in una prosa che vorrebbe essere alta e sapiente ma è solo pomposa. Tutto ciò avviene sui social, immagino sia esperienza diffusa.

Dovevano apparire così i miei temi delle medie agli occhi della professoressa Cozzini, che comunque mi dava sempre la sufficienza; quanto fosse generosa lo comprendo solamente adesso. Pensierini, simili a parole adolescenziali e maldestre, a cui in calce trovo un'impressionante quantità di like.

Vado allora a frugare dentro al profilo dell'autore e mi accorgo che appartengono quasi sempre a donne, o meglio ancora donne giovani e belle; particolare attestato da un numero altrettanto considerevole di selfie, le pose sono seduttive.

Ovviamente, non tutte le donne giovani e belle e seduttive scrivono come scrivevo io alle medie, per quanto non ritrovo lo stesso numero di like sotto ai pensieri, ugualmente semplici, di uomini giovani e belli, le cui sciocchezze non si fila come giusto nessuno (a meno che non siano cantanti famosi, sportivi, influencer ecc.).

Dagli e dagli, va così a finire che mi viene un dubbio un po' misogino... E se non fosse un caso? Ipotizzo insomma un antico e scandaloso nesso - bellezza e superficialità -, una relazione non occasionale di cui provo vergogna al solo pensiero.

Pensiero che è rimasto sintonizzato ai tempi delle mie scuole medie, a cavallo degli anni Ottanta. C'era nel periodo un telefilm molto in voga, si intitolava Kung Fu, io lo guardavo tutti i pomeriggi invece di studiare. Il protagonista era David Carradine, completamente rasato interpretava un monaco Shaolin.

Durante una puntata, senza alcuna ragione né preavviso, il monaco sferra un cazzotto sul naso di un ragazzino che passava di lì per caso, glielo spezza. Chi assiste alla scena gli fa allora la domanda che anche a me frullava in testa: "Ma perché l'hai fatto...?!"

E David Carradine, imperturbabile come sempre: "Perché era troppo bello. Da grande sarebbe diventato saputo e arrogante."

Affermazione da cui ricavo due considerazioni finali: 1) grazie a dio quello era solo un telefilm, altrimenti tutte le belle ragazze che incrociamo per strada somiglierebbero a Rocky Marciano; 2) ma quei nasini, fortunatamente integri, hanno un prezzo, che scontiamo ogni giorno scorrendo la bacheca di Facebook.