martedì 14 gennaio 2020

Didim, o sulla vita altrove


Questa mattina intorno alle dieci, a essere più precisi saranno state le dieci e un quarto, ricordo l’orario con esattezza perché avevo appena terminato una seduta di agopuntura, questa mattina Didim ha cercato di uccidere sua madre.
Aiuto aiuto si sentiva gridare da una finestra che dà sul vialetto di accesso al garage, dove si erano radunati alcuni passanti preoccupati non meno che intabarrati; la nuvoletta bianca della condensa e le mani ficcate nei tasconi del piumino. Aiuto, mio figlio è impazzito!
Io non ho sentito nulla, ma, parcheggiata l’auto e riferitami la frase, ho immediatamente chiamato la Polizia, con quel vago senso di compiaciuto protagonismo che conferisce un’autorità del tutto presunta, mentre la voce assume il tono di De Falco quando incalza Schettino a tornare sulla nave: Una volante, ha capito, mandi immediatamente una volante in via Parolo 10!
Perché l’hai fatto, perché hai preso tua madre per il collo? chiedeva pochi minuti dopo una poliziotta piccolina e tutta riccia, l’accento meridionale, forse pugliese. Ma al contrario dei film americani, il modo di porgere la domanda era pacato, quasi dolce, alla Tenente Colombo. Ho anche controllato se portasse la vera al dito già che un poco mi piaceva.
Didim non diceva nulla, se ne stava in piedi col suo metro e novanta di statura e lo sguardo fisso alle piastrelle di graniglia. Anche Arina, la madre, non parlava, e dalla parte opposta del piccolo salottino arredato con sobrio non gusto si limitava a mostrare i segni sul collo. Poi però ha sussurrato, con quella cadenza con cui nei film di Peppone e Don Camillo doppiano i compagni russi: Ma non è cattivo, non fategli del male…
Quando la domanda della poliziotta sembrava ormai sfumata, come la nuvoletta dei fumetti che appartiene alla pagina precedente, anche Didim ha aperto bocca: Non voleva lasciarmi andare da Cinzia, ha detto con una voce da uomo fatto che contrastava col suo aspetto infantile; una voce, al contrario della madre, ormai completamente italiana, quasi lombarda.
Bruno ha lasciato Cinzia, ha aggiunto dopo una pausa ugualmente lunga, che rendeva il suo modo di parlare più simile alla poesia che non alla prosa. Sta male Cinzia, Bruno non la vuole più e qualcuno doveva consolarla. Io devo consolarla. La mamma però mi ha detto che se andavo da lei non mi dava più da mangiare.
Didim ha diciannove anni ma qualche “problemino”, come si usa dire nel condominio La Gioiosa (il nome, in omaggio alla Ca' Zoiosa di Vittorino da Feltre, è stato scelto dalla cooperativa di maestri elementari che l’ha costruito nei tardi anni cinquanta, tra cui i miei genitori), si accenna al fatto con tono elusivo, quasi eufemistico.
Pare che da piccolo, Arina, al tempo lavorava come entraineuse in un night club valtellinese, l’avesse lasciato in consegna alla propria madre in Russia, un paesino fatto di niente, tuberi e betulle a trecento chilometri da Mosca; una pratica molto comune tra chi fa quella professione, ma anche tra badanti e migranti slave in genere. E’ come il gioco delle tre sedie, in cui si occupa sempre quella di qualcun altro: le nonne fanno le mamme, le mamme inseguono la vita e la vita è per definizione altrove, dove mandare i figli.
Didim, detto Dim, aveva al tempo tre o quattro anni, e la nonna forse una sessantina. Babushka, prosnis' prosnis'! deve averle detto Dim una mattina che possiamo immaginare altrettanto gelida, se non altro per gusto della coloritura. Ma la nonna continuava a dormire. Per quattro giorni. Quattro giorni in cui Dim è rimasto in casa con la nonna morta, la stufa ormai spenta, prima che qualcuno se ne accorgesse.
Si sussurra, sempre tra le scale e l'androne di ingresso del condominio La Gioiosa, che sia questa la ragione per cui Didim sia rimasto un po’ così. Devono essersene accorti anche Cinzia e Bruno, che l’hanno eletto a loro zimbello. Didim fai questo, Didim fai quest’altro, e lui che annuisce con la stessa espressione priva di espressione con cui risponde alla poliziotta, di cui dopo accurata ispezione ho finalmente scorto l'anello d'oro rilucere all’anulare sinistro. Peccato.
Da principio i tre ragazzi si davano convegno sulle scale, perché la madre di Didim impediva ai due nuovi amici di entrare nell'appartamento – dovete lasciare in pace mio figlio! le ho sentito un giorno gridare mentre ero sdraiato sul divano a vedere una vecchia puntata di Starsky & Hutch –, ma poi si sono trasferiti nei solai, dove oltre a confabulare facevano piccoli atti di vandalismo, tipo bruciare le targhette delle porte.
Niente di gravissimo, insomma, ma nel condominio stava diventando un problema, oltre che il tema del giorno per cui scambiarsi l’ultima notizia, spesso ingigantita dal piacere narrativo: Fumano la droga, io dico che vanno lì a fumare la droga. Qui bisogna fare qualcosa, avvertiamo il capo casa, l'amministratore, la Digos!
Nel frattempo, Didim continuava a vedere i suoi amici, i suoi due soli amici nelle parti comuni del palazzo, ciondolando smarrito quanto questi tardavano ad arrivare. Sembrava l'unico essere umano rimasto a vagare in una Mosca spettrale prima dell'ingresso della Grande Armée.
Va detto che ogni tanto provava a opporsi alle loro scorribande, come la volta in cui mia madre l’ha visto piangere di fronte alle ante scorrevoli dell'ascensore. Cos'hai Didim, c'è qualche problema?
Gliel'ho detto, ha risposto lui trattenendo a stento i singhiozzi, gliel'ho detto che non si può continure ad andare su e giù, e mentre parlava si sentiva sghignazzare da dentro la cabina. Io gli dico le cose ma loro non mi ascoltano.
Più tardi è arrivata anche l’ambulanza. Porteranno Dim al "repartino", come chiamano da queste parti la psichiatria. Lì gli faranno una bella puntura. I nervi delle mani che si rilassano, il collo si rilassa, le mascelle si rilassano. A volte scappa fuori anche qualche goccia di pipì, ma gli infermieri sono abituati e nessuno ci fa caso.
Sei innamorato di Cinzia, vero? gli ha chiesto all’improvviso la poliziotta con i ricci mentre i barellieri gli stavano infilando una specie di corpetto, non una camicia di forza ma qualcosa di simile. Sì, ha risposto Dim con la testa ancora più bassa.
E da grande cosa ti piacerebbe fare?
Mi piacerebbe parlare durante le partite di calcio in tivù. Quello che chiama i giocatori per nome, li riconosce dai numeri sulla maglietta, e quando fanno goal lui urla GOAL! E sarà stata un’impressione, ma, per la prima volta, i suoi occhioni azzurri si sono aperti come il cielo sopra la steppa dopo un temporale brutto.