martedì 25 maggio 2021

Il casco arancione


Uno girava con un casco arancione da ciclista, lo indossava anche quando camminava con un'andatura vagamente saltellante, oppure entrava trafelato nei negozi, ma perlopiù sopra una bicicletta del genere chiamato Graziella, su cui pedalava con ostinazione. Era sempre da solo, mai che qualcuno gli passasse la borraccia. Se avevi la fortuna di trovarlo fermo a sistemarsi il casco (fermo si fa per dire, rimaneva nel corpo un moto sussultorio, come nei terremoti), potevi chiedergli dove andava così di fretta, un dubbio che era venuto a molti. Ma lui forse confondeva dove con devo, devo andare rispondeva con gli occhi fissi al campanello cromato, devo andare... E scompariva all'orizzonte con la sua Graziella, il casco arancione un po' sbilenco.

lunedì 24 maggio 2021

Sono vaccinato

Assieme a migliaia di altri italiani, domenica ho fatto la vaccinazione. Pfizer fortunatamente. Chissà perché da bimbi si temono così tanto le iniezioni - guarda che ti faccio la puntura, minacciavano le nonne per acquietarci - quando sono perlopiù indolore e durano pochi secondi. Non fa eccezione il vaccino per prevenire il Covid. Dopo si viene invitati ad attendere quindici minuti, nel caso si verificassero delle reazioni avverse, nei quali mi sono trasferito su una seggiola di plastica all’interno di una grande palestra. Al mio fianco un coetaneo, siamo sulla cinquantina dunque, anche lui è in decantazione, la distanza è quella prevista di un metro, forse qualcosa meno. Squilla il suo telefono, suoneria di Ricky Martin. Risponde. Nel farlo si abbassa la mascherina, e così continua in un’affabile conversazione. Mi scusi dico io quando vedo che va per le lunghe, ma la mascherina è obbligatoria, e faccio segno. Non si preoccupi risponde con un sorriso largo, sono vaccinato. Clic.

Battiato, o sull'esotismo come fattore artistico


Dopo quanti giorni un morto è davvero morto? Di Socrate si parlava ancora al presente a centinaia di anni dalla morte; con Napoleone si è scesi a qualche decennio; Battiato, e le polemiche innescate con lui ancora in vita da Michela Murgia sulla qualità dei suoi testi (ma Tommaso Labranca era arrivato prima, vent'anni fa includeva l'artista catanese nella sua arguta fenomenologia del cialtronesco), Battiato è già stato rimpiazzato sui social da più nuove e ghiotte polemiche su cui azzuffarsi, ad esempio la vittoria dei Maneskin all'Eurovision. E così dopo nemmeno una settimana Battiato è morto definitivamente, riposi in pace o si reincarni, come gli è forse più congeniale.

A noi il compito di provare ad articolare un ragionamento equilibrato sul suo lascito corposo. Sulla musica credo non ci siano dubbi: era quasi sempre ad altissimi livelli, con alcuni capolavori che resteranno. Ma io credo resteranno anche i testi, e non perché gli argomenti della Murgia, Labranca e, più di recente, Fulvio Abbate siano del tutto infondati. È vero, nelle rappresentazioni verbali di Battiato era a volte presente qualcosa di approssimativo, a compiacere un immaginario che si sovrappone, occultandolo, al miserabile dato di realtà. Come le passeggiate sulla prospettiva Nevskij, italianizzazione del russo prospekt che a regola andrebbe lasciato così com'è o tradotto con viale, come fanno gli anglosassoni dicendo Nevskij Avenue, su cui Battiato non incontra dei poveracci infreddoliti ma niente di meno che Igor Stravinskij. Urca!

Eppure sarebbe un errore, anche nel caso dei numerosi riferimenti alla spiritualità orientale, confondere questi richiami con l'imputazione d'inconsistenza teologica o peggio di kitsch, che i dizionari fanno coincidere con un'emulazione semplificata di modelli alti, del tutto priva d'ironia. Come in Indiana Jones, nelle canzoni di Battiato l'ironia invece abbonda, e la figura estetica corretta non è dunque quella di kitsch ma di esotismo, in cui l'altrove (geografico, culturale, perfino mistico) viene ricostruito all'interno di un orizzonte a un tempo finzionale e funzionale; quando la funzione è ovviamente quella di evocare, indurre stati emotivi alterati che facciano tutt'uno con la musica.

Ma esiste anche un esotismo di altissimo livello, diciamo pure artistico, affatto letterario, di cui L'isola del tesoro di Stevenson e i romanzi di Salgari sono esempio. Viene così il dubbio che anche nell'epica in genere, e, in particolare, in quella omerica e shakespeariana, si attinga a piene mani alla strategia retorica dell'esotismo, per non dire nel melodramma. Vogliamo dunque liquidare anche Omero, Shakespeare, Salgari, Stevenson, Puccini e Verdi, affermandone l'inconsistenza perché si discostano dalla realtà storica e sociale?

Ma l'esempio più vicino a Battiato mi sembra quello di Paolo Conte. Non è necessario che canti di aguaplani che sorvolano sfrenate danze tropicali, o di Africa in giardino tra l'oleandro e il baobab, quando anche Genova viene completamente trasfigurata dentro lo sguardo di un piemontese di provincia, che intimorito dal suo stesso immaginare (il sole diviene un lampo giallo al parabrise, scimmia di luce e di follia) preferisce arretrare a un'immobile campagna, e il resto è pioggia che ci bagna. Meglio mantenere il sogno esotico, sembra suggerirci Paolo Conte, che sfidare la realtà rugginosa. E così la canzone si risolve nella supplica: Genova, lasciaci ai nostri temporali, ai giorni tutti uguali.

Ciò che distingue Conte da Battiato è che quest'ultimo non arretra invece dalle sue visioni, le offre, le condivide come un eucarestia laica dentro marcette elettroniche o larghi sinfonici, a volte ci lascia perfino nel dubbio se ci creda o ci faccia, ma alla fine il suo esotismo (artificiale come tutti gli esotismi) arriva e tocca in noi corde profonde, e per una volta l'aggettivo mitico non è qui abusato. Ed è così che ci sembra di sentire lo sferragliare lento di un treno per Tozeur, e chissà dove cavolo si trova Tozeur, se esiste veramente un luogo chiamato così... Tutti dilemmi pleonastici per l'immaginazione, in cui anche noi cominciamo a vivere a un'altra velocità, mentre da una casa lontana tua madre mi vede, si ricorda di me e delle mie abitudini.

martedì 18 maggio 2021

Ti saluto filosofia


Luigi Malerba pubblicò nel 2004 una raccolta di racconti intitolata Ti saluto filosofia. All'Università io ho studiato filosofia, oggi mi interessa molto meno: preferisco le storie, le parole che fluiscono lente dentro il fiume dell'invenzione, seguendo le anse di quell'inganno programmatico chiamato letteratura, in cui al reale viene sostituito il vero.

Semplificando, letteratura e filosofia si occupano, a un tempo, del mondo come tutto e come parti, e cioè della relazione tra di esse in cui si produce il significato complessivo. Ma anche differiscono in qualcosa, e forse la differenza più significativa non consiste nella necessità, in letteratura, della mediazione di personaggi, dialoghi, descrizioni di ambienti per ottenere la relazione significativa qui accennata, a costituire infine quel tutto che prende il nome di opera.

La letteratura è piuttosto un esercizio artigianale in cui si può concepire la parte come tutto; la relazione è in questo caso interna al personaggio, tra parti distinte che prima confliggono e poi convergono dentro l'individuazione del sé, direbbe uno psicanalista junghiano. È così possibile resistere, attraverso il linguaggio narrativo, alle pretese di ogni ordine simbolico a cui il singolo si debba asservire, fosse pure un ordine tecnico e scientifico; la scienza è una particolare forma di filosofia, per inciso.

Un esempio che chiarisca il mio pensiero lo offre la polemica di questi giorni tra Rula Jebreal e Propaganda Live. Ora non è importante stabilire se l'accusa di maschilismo, mossa dalla Jebreal al programma di Diego Bianchi, sia fondata, ma che in un orizzonte filosofico e, dunque, concettuale, ogni orgogliosa rivendicazione di maschilismo viene destituita da qualsiasi appiglio razionale e a maggior ragione etico, almeno nella nostra epoca; per Paolo di Tarso essere maschilisti era premessa di salvezza, ma quella era un'altra filosofia, un altro tempo.

Il nostro tempo può essere incorniciato con la parafrasi di una battuta di Clint Eastwood, pronunciata in un film di Sergio Leone: quando l'uomo col fucile incontra la donna con il libro e la penna, l'uomo col fucile è morto. Ed è giusto così, nessun rimpianto premoderno, la filosofia si limita a fare da specchio al mutamento sopraggiunto.

Ma in letteratura si può essere nella verità – che è sempre la propria verità, la verità storico biografica del personaggio – anche mettendo in scena un mondo verbale senza quote rose, un mondo sovrastorico di intima attualità. Ad esempio uomini che fanno branco, vanno a pescare, o a caccia, come in un racconto di Hemingway. E sono contenti così. Talmente contenti di non avere donne tra i piedi, da esclamare la battuta presente in un altro film, questa volta di Monicelli: "Ragazzi, come si sta bene tra noi, tra uomini, ma perché non siamo nati tutti finocchi?!"

Dobbiamo ricavarne che Monicelli fosse maschilista, e anche Hemingway? Forse sì, forse no, o forse chi si pone la domanda non ha capito nulla dell'arte di raccontare, in cui soggetto e oggetto della narrazione si sfiorano come treni nella notte, scontrandosi solo nelle brutte storie, quelle in cui il tutto (morale, ideologico, estetico) pretende imporsi con un atto d'imperio sulla recalcitrante minuscola lucina della parte, che il lettore coglie di sfuggita dal finestrino.

Quando ciò accade e la narrazione viene costretta dentro un ordine esterno, o, meglio, estraneo alla brancolante ricerca dei personaggi, che si riflette in un viaggio speculare dell'autore per tracciati obliqui e interposti, come il dio di Eraclito che può solo accennare, mai dire compiutamente la cosa, quando ciò accade non solo si realizza della cattiva letteratura, ma anche pessima filosofia.

Per fare letteratura con qualche speranza di merito, bisognerebbe allora avere il coraggio di pronunciare lo stesso commiato di Malerba: ti saluto filosofia.


sabato 15 maggio 2021

Amicizia e verità

 


Rula Jebreal, all'ultimo momento, declina l'invito a Propaganda Live, aggiungendo quale lapidaria motivazione che sarebbe stata l'unica ospite femminile. Nella circostanza, ha perfettamente ragione. Resta da capire se essere l'unica donna intervistata in una trasmissione televisiva sia espressione di discriminazione sessista, come da lei adombrato, di più, condannato, o di qualcos'altro, come io sono portato a credere anche solo perché mi piacciono i percorsi tortuosi, arrivare alla meta in funivia mi annoia un poco.

Ne ritrovo traccia, di questo qualcos'altro, nella balbettante giustificazione di Diego Bianchi all'inizio del programma, e in particolare nel passaggio in cui spiega che il suo modo di fare televisione nasce da un rapporto tra amici, per pura combinazione (aggiunge) sono tutti maschi.

Io non credo che sia davvero una "pura combinazione", quando il genere, spesso, se non proprio sempre, rappresenta un elemento decisivo nelle dinamiche di rispecchiamento dell'amicizia, in special modo di quella vagamente cameratesca e provinciale da baretto di Tor Bella Monaca, genius loci di tutte le trasmissioni da lui condotte.

In tale complicità tra maschi rispettosa fin che si vuole della controparte femminile – Bianchi e i suoi maschi-amici non fanno del cat calling, insomma –, Propaganda Live ha trovato la sua misura e il suo successo, rilanciando i giochi di sponda, gli ammiccamenti e l'empatia del baretto di cui sopra, grazie al quale ha saputo restituire un clima di familiarità ruspante difficilmente ritrovabile in altre trasmissioni. Ma familiarità tra maschi, appunto.

Se a Rula Jebreal sta stretta l'atmosfera complice degli amici di Bianchi, quel bonario darsi di gomito accompagnato da annamo, famo, daje, ha fatto benissimo a declinare l'invito per dedicarsi a salotti televisivi più internazionali e forbiti, dove la composizione degli ospiti viene pesata col bilancino ormonale: tre donne qui, tre uomini là, e già che ci siamo anche un diversamente cresciuto, un tempo e ignobilmente detto nano. È un suo diritto, forse perfino dovere: essere sé stessa fino in fondo, come lo è Diego Bianchi avvolto nelle t-shirt nere stampate.

Ma io eviterei di estendere al mondo questo personale sentire, con il ditino puntato a discriminare vittime da carnefici, buoni da cattivi. Quello stesso sentire che le ha fatto accettare l’invito a un'altra trasmissione, salire su un palco pieno di fiori, rose senza spine né profumo, accanto un bel mare dove navigano barche piccole piccole, come cantava Francesco De Gregori ironizzando sul Festival di Sanremo. Perché altrimenti diventano piccole anche le sue parole, diventano false.

Basterebbe ricordare che l’amicizia non è solo un fatto maschile, anche quando diviene pubblica. Serena Dandini aveva fatto televisione con le sue amiche, si chiamava La tivù delle ragazze, mentre Bianchi fa la tivù de li ragazzi de 'sta Roma bbella, ognuno faccia la tivù che gli pare, che non vuole dire essere sessisti ma semplicemente situati, direbbe una filosofa femminista. E cioè in un rapporto storico e incarnato con le cose che precede la verità sopra di esse.

A ben vedere, il tratto della tarda modernità consiste in un mutamento di segno della celebre frase attribuita ad Aristotele: Amicus Plato, sed magis amica veritas. Nell'oblio progressivo della Verità con la v maiuscola diviene vero il contrario, e la piccola verità a cui abbiamo accesso è quella dell'amicizia e della relazione, del sentire prima ancora del concepire.

In fondo lo spettatore ha il telecomando, può anch'egli indirizzarsi dove si sente meglio, trovare il proprio baretto nell'infinito palinsesto mediatico, i propri amici virtuali. E la Jebreal ha bellissime gambe con cui sfuggire da contesti in cui non si riconosce, più discutibile quando afferma che lì non venga riconosciuta. E amen.

domenica 9 maggio 2021

Rambo e Agamben

 


È un peccato che gli intellettuali abbiano poca confidenza con la cultura bassa, diciamo pure trash. Diversamente, sarebbe semplice spiegare a Giorgio Agamben perché, malgrado si ostini a specchiarsi nella pozza di un pensiero filosofico vagamente stagnante, continuino a sfuggirgli, come viscidissine trote, i termini della questione giuridica legati all'emergenza in corso, o quantomeno le gerarchie che devono sottendere la morale pubblica; è Kant a dirlo, non Paperinik. Insiste così nel sostenere che i poteri cosiddetti forti hanno profittato della pandemia per revocare fondamentali diritti civili, quali quello di sputacchiare sulle tartine in bella mostra sul bancone dell'Happy Hour. Lo spiega molto bene il Capitano delle forze speciali in Rambo, quando dice a un altro militare a capo delle ricerche del fuggitivo: "Non ha capito, io non sono qui per proteggere John Rambo da voi. Ma voi da lui." Avesse visto quella sequenza, forse anche Agamben avrebbe intuito come le blande disposizioni a limitare in questi mesi la libertà di spostamento e gozzoviglia, non servivano a proteggerlo dal Covid - continua infatti a essere libero di rischiare la propria vita, ad esempio uscendo dalla finestra a cavallo di una scopa, replicando il finale di Miracolo a Milano - ma a proteggere noi da lui. E da chiunque non abbia ancora inteso che la propria libertà si arresta dove comincia quella degli altri, la cui primaria è vivere.

venerdì 7 maggio 2021

Fiction

 


Sabato ho sparato a un gatto in un prato.
Stava già morto stecchito crepato
e così gli ho sparato
con un fucile a turaccioli.

Vai a vedere se l'hai colpito
dice la nonna, e io mi sono avviato
verso il gatto morto sparato
da un cacciatore
che io pensavo dormire sdraiato
in un prato appena falciato.

Ma il gatto morto stecchito sparato
da me e dal cacciatore, l’avrà
scambiato per un tasso,
non faceva più ron ron come i gatti
se gli grattavo la schiena e il musetto.

Era morto. Stecchito. Sforacchiato.

Lo conoscevo, si chiamava Rosso,
era vivo inseguiva le lucertole
ieri, le puntava prima.

Io l'ho puntato con il mio fucile
a turaccioli, un ciuffo di peli
rossicci proprio al centro del mirino
e bum bum ho gridato,
i turaccioli erano due.

Vai a vedere insiste la nonna,
controlla se l'hai ammazzato.

E io sono andato, ho visto, ho toccato
e ancora ho gridato (ma non bum bum)
e ho spaccato – brutto fucile! –
il mio nuovo fucile a turaccioli.

Poi ho capito: le cose per finta,
le parole anche, perfino i pensieri
a pensarli bisogna stare attenti,
che diventano veri.

martedì 4 maggio 2021

Io sono un artista e dico quello che voglio, o sul perché Monsieur Fedez c'est nous

 


Dal palco del concerto del primo maggio, Fedez ha pronunciato parole condivisibili sui diritti degli omosessuali, di più: sacrosante. Mi ha però un po' inquietato, nella registrazione da lui effettuata della telefonata con i dirigenti Rai, sentirlo affermare: "Io sono un artista e dico quello che voglio, ha capito!"

Un'inquietudine che si è precisata con la memoria di una vecchia intervista a Pierpaolo Pasolini, in cui Enzo Biagi lo invitava a fare lo stesso. "No, non posso dire ciò che voglio in televisione" rispose Pasolini. "Non posso perché c'è la censura (e nel 1971, dentro la RAI diretta da Ettore Bernabei, la censura non era solo una parolina frivola strillata da un rapper incavolato), ma anche se non ci fosse sarei io ad auto censurarmi, per rispetto dello spettatore medio che non capirebbe."

Essere un artista, ci comunica Pasolini, non significa dunque dire quello che si vuole ma interagire con i contesti, sapendoli prima riconoscere e poi eventualmente plasmare, per renderli compatibili alla propria voce. Tutto ciò nella consapevolezza che l'interlocutore è sempre situato, ossia diverso da noi e, da quella differenza, deve muovere la comunicazione, non per compiacerla ma per porsi in una dialettica virtuosa.

Da qui il dubbio che sotto l'unanimità del consenso ottenuto da Fedez – le frasi da lui citate sono tristemente reali, "se avessi un figlio omosessuale lo brucerei" e schifezze del genere, che meritano una ripulsa severa e appassionata, come fatto dal cantante  , sotto si agiti un tema ancora più decisivo, che può essere sintetizzato in una domanda: perché a dirmi quelle cose giuste deve essere proprio l'artista Fedez e non, mettiamo, gli artisti Daniele Sepe o Riccardo Tesi o Rita Marcotulli o Nicola Piovani, ben più capaci come musicisti ma non invitati al concerto del primo maggio?

Perché vende un numero maggiore di dischi, mi sembra ovvio. Ne ricavo che la legittimità a stare su quel palco a denunciare quanto siano ignobili le dichiarazioni di alcuni politici leghisti (ma ne basterebbe uno, uno soltanto perché siano troppi), deriva da aspetti quantitativi più che qualitativi, o come si dice ora dal fatto che Fedez sia un influencer, aggiornamento della nozione latina di auctoritas. In altre parole, l'arte grazie a cui il suo dire verrebbe sottratto a ogni limite formale, è tutt'altro che libera e recalcitrante ogni sovranità che non sia quella delle muse, ma ricalcata dalle gerarchie che sono espressione di un ordine simbolico e materiale già individuato da Pasolini, lui lo chiamava "nuovo fascismo".

Allora era solo una cantilena spensierata che sgusciava dai juke box, stavano alla parete di baretti di periferia in cui venivi accolto dalla locandina metallica dei gelati Eldorado, musica leggera, anzi, leggerissima, a sussurrare nel refrain: tutto è possibile, tutto è consentito, tutto e subito.

Negli anni, quella canzone ha però guadagnato un'evidenza spettacolare e chiassosa, convertibile a stretto giro in moneta. Ed è nuovamente una questione di auctoritas, l'auctoritas economico-spettacolare che rende il bel musino di Fedez perfetto testimonial di Amazon, società che si distingue per mancanza di attenzione e rispetto nei confronti degli elementari diritti dei propri dipendenti; ed è utile ricordare che tutto è partito da un concerto che dovrebbe invece celebrarli, quei diritti.

Ma se allarghiamo l'inquadratura, vediamo che è la stessa auctoritas grazie a cui Miguel Bosè può dire ciò che dice sul Covid, immediatamente ripreso dalle principali emittenti pubbliche, poco importa se per smentirlo o riverirlo, quando è comunque in atto una dinamica di riconoscimento e cooptazione dei salvati, per usare la metafora di Primo Levi, lasciando ai sommersi analoghi pensieri di gramigna con cui infestare i social network. In fondo anch'egli è un artista e dice ciò che vuole, ci mancherebbe, anche che la terra è piatta e Ugo Tognazzi era il capo delle BR.

Se ne ricava che l'artista è oggi ben lontano dal ruolo critico che si assegnava Pasolini: una forza che viene dal passato, dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d'altare; una forza ma a ben vedere anche una fragilità, antagonista perdente a ogni forma di potere; e ciò anche quando quel potere sia soft, light, senza glutine o grassi saturi, a scivolare in gola senza i sussulti provocati dall'olio di ricino. Basta una strisciata di Bancomat e un'alzata di spalle, che diviene ruggito solo in favore di camera.

Ed è quanto fa l'artista Fedez, l'artista Bosè, l'artista emblema di questo tempo da fustigare pubblicamente, ma a un centimetro dal nemico trasforma lo schiaffo in carezza, divenendo il custode di tavole della legge rimaste in bianco, il guardiano di una soglia per definizione sempre aperta, anche la domenica e i festivi (vieni, entra, compra!), secondo lo schema carnevalesco per cui la trasgressione rappresenta la glorificazione del limite.

Ma non vale nemmeno prendersela con il prima povero, censurato, e poi eroico Fedez, quando è una caratteristica generale della postmodernità: non importa se ce l'hai fatta a guadagnare il cono di luce dei riflettori, ci sentiamo tutti degli artisti, dei creativi la cui opinione è imperdibile, vitale per il mondo, richiesta dall'universo. E rivendichiamo così il diritto a dire/fare sempre tutto quel che vogliamo, senza alcuna auctoritas a limitare il nostro slancio infantile. Perché io sono un artista e dico quello che voglio, ha capito!