giovedì 3 dicembre 2020

Lettera aperta a scrittori e intellettuali e giornalisti di sinistra. Anzi, no, di destra

 


Nei giorni scorsi ho scritto un intervento in cui provavo a mostrare, dietro le posizioni di alcuni virologi ormai in palese conflitto tra di loro, altrettante ipoteche politiche, che io trovo legittime in quanto espressione di un sentire diverso, a sua volta premessa di scelte diverse in materia di profilassi sanitaria. Destra e sinistra, semplificando. Bassetti e Galli, per non rimanere sul generico.

La nuova destra liberista ha maggiormente a cuore le libertà dell'individuo (tra cui quella di ammalarsi), mentre prevale, anzi e come vedremo in seguito dovrebbe prevalere a sinistra la tutela della collettività, di cui fanno parte anche le persone più esposte a un decorso fatale della malattia, e cioè i fragili e gli anziani  oggi 983 morti, per la cronaca.

Riconosciuta la legittimità culturale di entrambe le posizioni (che si equivalgono sul piano filosofico, non certo su quello etico), ma anche la profonda differenza interpretativa e perfino affettiva che le sostiene, viene il sospetto che il continuo richiamo all'immediata ripresa della didattica in presenza da parte di molti intellettuali e scrittori e giornalisti di sinistra, sia in realtà frutto di una mentalità di destra. Ma non destra per modo di dire: destra destra.

Fate tornare a scuola mio figlio è infatti il refrain ripetuto un po' ovunque, non traumatizzate mio nipote e i suoi giovani amici, costretti a un'overdose di PlayStation e a quella roba astrusa che è la didattica a distanza, DAD, sarà mica l’equivalente inglese di papà...? Cazzo mi frega – sotto testo – se poi qualche anziano ci lascia le penne, anzi già che ci siamo apriamo pure cinema e teatri, senza dimenticare le sale da concerto: perché essere di sinistra fa tutt'uno con la cultura; un tempo la si scriveva con la kappa, come Kossiga.

Libertà dunque, proprio come a destra, di godere dei piaceri della propria parte, nella totale indifferenza a un tutto umano che viene percepito come astratto – certo, i piaceri saranno magari diversi: a destra la settimana bianca a Cortina, l'happy hour, il trenino in discoteca sulle note di Disco Samba, mentre a sinistra è un quartetto di jazz scandinavo o una lezione su Svetonio. E anche quando si parla di diritto, nella pseudo sinistra che rivendica con gli occhialini da lettura in pugno l'istruzione in presenza, è diritto dell'in-dividuo, l'habeas corpus del professore: qui, ora, davanti a me, poco importa se magari ha sessantacinque anni e si caga sotto per il rischio che corre.

Lo ricordava ieri sera Luciano Gattinoni, professore emerito all'Univetsità di Göttingen, ospite nella trasmissione di Bianca Berlinguer. L’apertura delle scuole non va intesa come un punctum, e piuttosto un processo che include momenti diversi ma collegati, che vanno dall'uscita di casa la mattina al rientro con i mezzi pubblici, senza scordare la disposizione all'intimità fisica che manifestano taluni popoli rispetto ad altri; e al netto della pandemia, preferisco di gran lunga la prossemica italica a quella, mettiamo, giapponese.

Ha così poco senso parlare di focolai scolastici la cui incidenza sarebbe particolarmente bassa, la ministra Azzolina ha fatto di tale non evidenza un mantra, quando la processualità aggregata a cui è più corretto riferirsi (chiamiamolo sistema-scuole-aperte) rappresenta il secondo fattore quantitativo nella diffusione del contagio, dopo grandi eventi collettivi come maxi concerti e partite di calcio. E questi sono al contrario dati certi, offerti dal Comitato Tecnico Scientifico.

Eppure, c'è chi continua a volerli ignorare, richiamandosi al diritto costituzionale all'istruzione; nel quale non viene però specificata la modalità, la forma concreta con cui deve avvenire il trasferimento dei saperi, e ancora più importante la formazione del futuro cittadino. Viene così un sospetto ulteriore: che quel diritto sia un diritto a godere della propria immagine riflessa in chi lo reclama, da rintracciare nello specchio dell'abitudine, della pigrizia intellettuale, se non diritto a un godimento tout court; ed è la "jouissance" di cui parlava Lacan, il quale aveva smascherato la falsa coscienza che si celava dietro ai movimenti del maggio francese.

Forse è allora arrivato il momento, caro scrittore e intellettuale e giornalista di sinistra, che qualcuno te lo dica, come Pasolini lo disse agli studenti di Valle Giulia. Sì, anche tu non mi piaci, allo stesso modo per cui al grande poeta e regista non piacevano i figli di papà con i capelli lunghi e l'espressione "paurosa, incerta, disperata (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici." Ad esempio, quando la mano che aveva appena scagliato il sampietrino veniva nascosta dentro i tasconi dell'Eskimo.

Una vecchia storia superata, mi risponderai: scrittore, giornalista, intellettuale di sinistra. Eppure gli zombie hanno questa tendenza a ritornare. Perfino la moda, secondo i suoi infiniti riflussi, sembra accordarsi a quel tempo di giubbini stretti stretti e bocche spalancate, con l'unica differenza che il pronome noi sta progressivamente riducendo di circonferenza. Ora quasi coincide con quella dell'io, a cui fare seguire il verbo voglio.

Ma Pasolini era una forza che viene dal passato, la sua immaginazione poetica includeva millenni, intere ere geologiche, e già aveva intuito ("io so, ma non ho le prove") la sovrapposizione maliziosa tra individuo e mondo, l'egoismo celato dietro l'ostensione della virtù. Per questo, adesso come allora, starebbe probabilmente con i poliziotti, con gli infermieri, con gli anziani rimossi dal tuo sguardo avido di cultura; una volta venivano chiamati ospizi ma adesso hanno messo Netflix e la carta igienica all'aroma di mughetto, divenendo RSA. No, non gli piacevate e non gli sareste piaciuti neppure ora, "buona razza non mente" e non cambia.

Solo che Pasolini si rivolgeva a studenti di sinistra, mentre tu e tuo figlio – quanto non mi piace pure lui, scusa se te lo dico – che con slancio epigonale reclama i suoi diritti come i genitori, le sue libertà, mai quelle di chi crepa o anche solo tira a campare, sì voi siete diventati culturalmente antropologicamente e perfino fisiognomicamente di destra.

mercoledì 2 dicembre 2020

Lino Ventura

 


Nei giorni scorsi, approfittando del Black Friday, ho acquistato un profumo. L’ho preso così, al buio (blind buying lo chiamano gli anglosassoni), solo perché scrivevano nella descrizione che è ispirato a Lino Ventura. Il corriere me l’ha consegnato oggi. Ho aperto il pacco con prudenza. Sul dorso della mano, più facile da annusare, ne ho spruzzata una nuvoletta. È vero, è comparso Lino Ventura. Il suo odore. Quello di Gitanes senza filtro accese da uno zolfanello, inseguimenti su una Citroen DS con i fari gialli nella nebbia, il bancone di un bar di quart’ordine su cui gli amanti clandestini stanno piegati senza parlare; più in là qualcuno rovescia, per troppa foga nel gesticolare, il suo bicchiere di pastis: "Attention, tu as mouillé ma veste!" E poi cinema di provincia con le sedie in legno e il telone rammendato, lo schiocco delle bocce di metallo – ricorda il caricatore infilato nella pistola , sul porfido di un vicolo di Marsiglia, l'insegna luminosa del motel ha l'ultima lettera infranta dal tiro di una fionda (al suo interno, una donna non più giovane si sta rimettendo i collant), con una coppia di fanti l'uomo dal dente d’oro rilancia al tavolo di poker (un altro si raddrizza il berretto e riflette sul da farsi…), cani neri annusano il vento nel piazzale deserto di un distributore di GPL, incontri di pugilato truccati male, pioggia, Francia, impermeabili color crema… Ah come è bello, ogni tanto, abboccare all’amo di un immaginario fin troppo logoro e sfruttato, e intonarsi al canto consumista di sirene con i bigodini in testa.


martedì 1 dicembre 2020

Fuori dalla grazia

 


Ieri ho guardato per intero una puntata del Grande Fratello Vip, non solo qualche spezzone come a volte mi capita, così per suscitare quei brividini di orrore che alimentano l'autostima. Io non sarò mai come loro pensavo infatti seguendo la travagliata liaison tra Elisabetta Gregoracci e Pierpaolo Petrelli, Enock e la sua liberatoria eliminazione dalla casa ("finalmente stasera potrò cagare") o la disperata ricerca di una banana da parte di Malgioglio. Una banana matura, ci tiene a specificare.

No, io non sarò mai come quei criceti da esposizione, io non correrò dentro la ruota acefala del glamour  un glamour di risulta dove si inscena la parte senza imparare alcuna arte –, io di qui, io di là… Ma siamo proprio sicuri? Forse, basterebbe cambiare il tempo del verbo. Io non sarò perché già sono, secondo la dinamica immaginaria della disidentificazione post tutto, che in realtà mi identifica per opposizione: "codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo".

Proseguendo nel mio cocciuto masochismo televisivo, i versi di Montale lasciavano spazio a quelli di una canzone di Vinicio Capossela: "ovunque proteggi la grazia del mio cuore" viene ripetuto nel refrain come una nenia infantile e un po’ ubriaca, "la grazia del mio cuore, la grazia del mio cuore..." Quella grazia che mi sembrava perdersi nei concorrenti ogni volta che aprivano la bocca – e cioè ventiquattro ore al giorno, anche nel sonno –, facendo tutt'uno tra pensierini da quinta elementare ed emozioni primarie, da buttare in faccia allo spettatore per ribadire che anche i ricchi piangono, come titolava una telenovela di qualche lustro fa.

Alla fine, mi è rimasta la sensazione che questa sia una trasmissione davvero geniale, nella quale viene restituita un'allegoria pop dell'epoca che stiamo vivendo. Un tempo in cui la continua espressione di ogni stato d’animo transitorio, brucia, al suo nascere, la possibilità di trasformarlo in pensiero compiuto, non concedendogli lo spazio interiore per una lenta maturazione; come se bevessimo il mosto nell’impazienza di attendere il vino, di attendere qualsiasi cosa.

La grazia coinciderà forse con il tempo invernale dell’attesa, che si nutre di un movimento di segno opposto: dal fuori al dentro, secondo l'intuizione di un altro poeta, John Keats. Scrivendo al fratello George nel 1819, così sugellava la sua lettera: "chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima. Allora avrete compreso l'uso del mondo."

Ma quando al mondo viene sostituita l'espressione del proprio mappamondo, che succede? L'anima, invece di farsi, probabilmente si disfà. E la grazia che ne è l'immagine senza forma, la musica senza suono, la poesia senza parole rimane indifesa, perduta. Non hai protetto ovunque la grazia del tuo cuore! Lo comprendiamo continuando nella lettura di John Keats: “dico fare anima intendendo per anima qualcosa di diverso dall’intelligenza. Possono esistere milioni di intelligenze o scintille della divinità, ma esse non sono anime fino a quando non acquisiscono identità, fino a quando ognuna non è personalmente se stessa.”

Ed è quanto avviene non solo ai concorrenti del Grande Fratello Vip, ma a tutti noi che invece di confessarci nell'intimo di una chiesa o anche solo a un buon amico, di fronte a due birre medie, lo facciamo in pubblico sul sagrato di un social network. Senza grazia. Senza anima. Senza identità da donare a quella scintilla che si spegne. E però un mucchio di like da spendere come gettoni sull’autoscontro.