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mercoledì 16 luglio 2025

Esame orale sì, esame orale no, proviamo a fare un po’ di chiarezza

Sugli studenti che si rifiutano di sostenere l’orale all’esame di maturità perché, a loro dire, non sono stati ascoltati a sufficienza dai professori – ascoltati come esseri umani e non come semplici computatori di dati, abomasi da cui la notte rifluiscono le conoscenze brucate di giorno –, sulla questione ho più dubbi che certezze. Mi sembra cioè un problema complesso e sfumato.

Ma dovendo trovare una soluzione, io la vedo così: se parliamo di scuola dell’obbligo e, in parte, anche di liceo, trovo che gli studenti recalcitranti abbiano dalla loro molte ragioni, se non una medaglia d'oro nella corsa alla Verità che mi sembra impossibile assegnare. L’educazione primaria serve infatti a trasmettere un’appartenenza, prima ancora che a ingozzare gli studenti di nozioni. E l’appartenenza è per sua natura dialettica: le generazioni precedenti trasferiscono alle successive il testimone di ciò che hanno selezionato come valido (nel senso proprio del valore, che si pone a garante dello scambio: l'Iliade, la Divina Commedia, la tavola periodica degli elementi etc.), e quest’ultime replicano con le loro richieste di senso, l’idea di mondo che si vanno facendo.

Non è un pensiero utopistico o fricchettone, prevengo le obiezioni. Molto concretamente un giovane potrebbe chiedere al professore: Ok, Lei mi parla di Omero, Dante, Mendeleev, ma poi io le racconto dei miei problemi con le ragazze o con i ragazzi o con entrambi, e vediamo assieme se i suoi amici possono aiutarmi, e nel caso in che modo – Alain de Botton andava in questa direzione quando ha scritto Come Proust può cambiarvi la vita, oppure Robin Williams nell’Attimo fuggente.

Ma quando l'insegnamento sia volto a tradursi in pratiche professionali, allo scambio vitale tra esseri umani – è il principio stesso di ogni civiltà – deve subentrare una diversa concezione dell’insegnamento basata sul merito; un concetto 
controverso non a caso attribuito alla cultura conservatrice, già che presuppone un’asimmetria costitutiva tra soggetti e fondazione stabile dei saperi, al punto da essere quantificata in voto. Da una prospettiva filosofica sono io il primo a riconoscere che questa pedagogia corrisponda a una colata di cemento sulla mobilità del pensiero, in cui la domanda, socraticamente, deve prevalere sulla risposta. Peccato che non sempre si possa fare filosofia, e con un esempio sarà forse più chiaro.


Se per disgrazia doveste finire al pronto soccorso: preferireste trovare un medico sensibile, lambiccato, desideroso di confrontarsi sui propri problemi esistenziali – ma che non sa dove si trovi il fegato –, o un medico che ha superato l’esame di anatomia con un voto possibilmente alto?

PS - l'ottimo sarebbero ovviamente le due qualità, e sono io il primo ad auspicare, a Medicina, degli insegnamenti su come relazionarsi con i pazienti: in modo non autoritario e infondendo loro fiducia, che sono parte integrante della cura. Ma rimane il fatto che il fegato sta a destra, e la milza a sinistra.

venerdì 1 novembre 2024

Mi ricordo 18

Mi ricordo di una grande gondola nera su cui è posata una piccola bara bianca, le acque appena increspate la fanno oscillare alla maniera di una culla. Noi siamo stipati su un vaporetto che ricorda quelle barzellette sugli stereotipi nazionali. I giapponesi mitragliano con le loro Nikon gabbiani opachi abbarbicati sulle bricolle, gli americani indossano camicie a fiori e si ingozzano di Pocket Coffee, soprattutto le donne che hanno dita gonfie macchiate dal cioccolato, i francesi trovano sempre un motivo per alzare le spalle ed emettere una piccola scoreggina con le labbra, tutto è così dolcemente prevedibile, compreso ciò che ci attende su un’isola poco più estesa di uno scoglio. Qui soffiamo il vetro dice un uomo con un accento che fa un po’ ridere, possiamo ricavare qualsiasi forma aggiunge orgoglioso. Anche la forma di un bel cazzo? sussurra Mascarini. Per fortuna il professore di applicazioni tecniche non ha sentito, e nemmeno l’uomo con l’accento che fa un po’ ridere, il suono della voce ha raggiunto solo Tavelli, Orvieto e me, facendoci sghignazzare come quattro moschettieri in lotta contro la congiura dei noiosi. D’altronde è l’unica cosa che sappiamo disegnare sui banchi: cazzi, cazzi in ogni stile e dimensione, a volte aggiungiamo un fumetto senza inserire alcun testo, la bocca da cui esce è la fenditura del glande; dovrebbe rappresentare il fiotto del seme a fecondare mattinate che non passano mai, con l’unico miraggio della gita scolastica di fine corso. E finalmente eccoci arrivati, dopo cinque ore di pullman che sono riuscite a farmi odiare le canzoni di Lucio Battisti. Se ribalti la boccetta colma d’acqua cade la neve sul ponte di Rialto, sono i souvenir acquistati per ricompensare i nonni della loro busta, va' va', non spenderli tutti in sala giochi; ma Mascarini è riuscito a trafugare anche una bottiglia di Amaretto di Saronno, me la porge intimando: Bevi! Serve a trovare il coraggio per raggiungere la camera delle ragazze, Tavelli e Orvieto si trovavano già lì. È dalla prima media che mi prefiguro il momento, sono trascorsi tre anni in un fatidico soffio, la vita media di un criceto; passare la vita a sgambettare dentro una ruota che fa della finzione il suo movimento, non deve essere tanto meglio del disegnare cazzi su banchi di fòrmica verdina... Troppi pensieri, meglio attenersi a un copione provato mille volte nella palestra della mente, come fanno gli sciatori una volta varcato il cancelletto di partenza; tolgo le scarpe da basket e mi infilo vestito nel letto dell’Acquistapace, riproduzione in scala anagrafica ridotta di Maria Giovanna Elmi, la fatina bionda che negli anni Settanta annunciava i programmi su Rai1; nel letto accanto sento Tavelli sbaciucchiarsi con qualcuna, probabilmente si tratta di Beltrama, la ripetente, a Orvieto e Mascarini deve essere andata meno bene. Sono però troppo ubriaco per tentare un approccio, riesco chiederle soltanto: L'hai vista anche tu, oggi pomeriggio, una bara bianca ma piccola, probabilmente si trattava della bara di un bambino, stava su una gondola appena fuori da Canal Grande... o mi sono immaginato tutto, l'ho sognata? Non so cosa mi abbia risposto la fatina bionda della terza effe, il passaggio dalla Fanta all’Amaretto di Saronno è stato troppo brusco, il resto l’ha fatto la voce nascosta nella buca del suggeritore, ognuno ha il suo suggeritore e più passa il tempo e più si inventa le battute. E così continuo a ricordare, o a sognare, che forse è lo stesso, un'enorme gondola nera. Non ha mai smesso di ingoiare una minuscola bara bianca, specie durante le notti in cui ho la febbre e mi rigiro nel letto sudato e al buio e a tentoni cerco la Tachipirina sul comò.

sabato 8 aprile 2023

Forma e sostanza

La scrittrice Fulvia Degl'Innocenti ha da poco pubblicato un post sulla vicenda della maestra di San Vero Milis, in provincia di Oristano, che faceva recitare l’Ave Maria a scuola, e perciò giustamente punita con venti giorni di sospensione. Aggiunge delle considerazioni discutibili ma interessanti, provo a sintetizzarle con le sue stesse parole:

“Se passa il principio che un docente debba subire punizioni severe quando trasmette i suoi credo (siano essi religiosi, ideologici, partitici) poi però il principio dovrebbe valere anche per chi condanna il fascismo, simpatizza per il comunismo, condanna l'atteggiamento del governo sugli sbarchi ecc... sono solo degli esempi tratti dalla cronaca recente, con docenti richiamati per avere espresso posizioni su questi temi. Ma allora la levata di scudi era unanime contro i provvedimenti e i richiami. Non c'è che per caso in una società sempre più laica e antireligiosa si stanno creando crociate al contrario? Prendetela come una provocazione o uno spunto di riflessione, ma please, non lapidatemi."

No, nessuna lapidazione. Trovo anzi che nelle parole di Degl'Innocenti sia presente un fondo di verità, nel senso di un orizzonte culturale (si sarebbe detto un sentiment prima del bando di ogni anglicismo) da lei osservato da un punto di vista alternativo e decentrato; e a me piacciono i punti di vista alternativi e decentrati, le direzioni ostinate e contrarie.

Rimane però un problema. Un grosso problema logico, che storpia la sua visione come in una maculopatia; ne so qualcosa, purtroppo...

Promuovere l'antifascismo (che è incluso nei valori costituzionali, per inciso) anche quando vissuto con personale partecipazione e non solo didascalico resoconto dei fatti, è altro da imporre agli alunni una preghiera religiosa, genuflettendosi a una vergine del tutto ipotetica. Ma sarebbe lo stesso, quasi lo stesso, meglio, anche con una preghiera laica, come è il canto di Bella ciao: da un lato ti invito a pensarla come me attraverso la persuasione degli argomenti, dall'altra assumo che tu già la pensi come me, nessun pensiero o dio alternativo alle note della canzone. E guai a chi stecca!

Intendiamoci, ciò vale per tutto, non solo per la preghiera o il canto partigiano. A scuola non si intonano inni, laici o religiosi poco importa, politicamente corretti o scorretti (se la maestra avesse fatto cantare Faccetta nera immagino provvedimenti ancora più severi) ma si propongono idee. Quindi le se si argomenta, un buon insegnante è prima di ogni altra cosa un collaudatore.

Alcune di queste idee non supereranno il collaudo, si sfalderanno a una semplice verifica razionale, altre invece la spunteranno e come si dice faranno mondo. Ma tutte saranno necessariamente di parte, perché parziale, ossia situata in uno spazio biografico circoscritto, è la collocazione di chi enuncia un qualsiasi pensiero; e ciò vale anche per le identità collettive, le civiltà, la cui biografia prende il nome di cultura, ed è il prodotto di vittorie e sconfitte per il tramite di armi e parole, che finiscono col fare da filtro allo sguardo che proiettiamo sul tempo presente e soprattutto quello trascorso.

Se ne ricava che non esiste un insegnamento neutro, ma, come voleva un filosofo amante dei cavalli e molto meno delle persone, solo interpretazioni più o memo allineate ai fatti – per quel filosofo i fatti proprio non esisterebbero, io sarei per una minore radicalità.

Ma è presente un necessario limite anche all’interpretazione implicita a ogni insegnamento che consegue; potremmo guardarlo come a un ubi maior tra interpretazione soggettiva e interpretazione collettiva, che già abbiamo incontrato dandogli il nome di cultura.

Bene, se le cose stanno a questo modo nelle scuole pubbliche italiane l’interpretazione ultima e dirimente starà allora alla lettera costituzionale, prima ancora che ai programmi ministeriali. Anch’essa è un’interpretazione, sì, non Verità con la V maiuscola; e questo tratto storico e intimamente umano della Costituzione dovrebbe essere rammentato sempre, sia quando si intenda difenderla sia nel caso di possibili emendamenti. Ma a un qualche punto il gioco delle interpretazioni deve pure arrestarsi, ammettere un principio superiore, un'autorità civile, da cui discendere la legalità intellettuale a cui improntare l'insegnamento.

La Costituzione italiana non è compatibile con alcune interpretazioni della vita di una comunità a cui la scuola deve preparare – razzismo, fascismo, antisemitismo, stalinismo ecc. – ma con altre sì, pur non coincidendo con le ideologie in cui confluiscono andando a costituire un sistema chiuso. Il pensiero religioso cristiano, nella sua dogmatica confessionale, si oppone a una pedagogia che per definizione deve essere laica e dunque aperta, ma contiene molti spunti ampiamente compatibili con la cultura secolare, la quale si è formata in un rapporto per buona parte dialettico e non solamente oppositivo ("Non possiamo non dirci cristiani" ammoniva il laico Benedetto Croce).

Certo, nessuna compatibilità con la preghiera a Maria imposta agli alunni di San Vero Milis, ma se la maestra avesse detto loro che vestire gli ignudi e dare da mangiare agli affamati sono cose buone e giuste, sarebbe stata anche lei una buona e giusta insegnante. Così non è stato, e mai come in questo caso si mostra come la forma fa sostanza.

giovedì 29 settembre 2022

Il liceo classico Manzoni

Il liceo classico Manzoni si trova in via Orazio 3 a Milano, dove gli appartamenti costano ottomila euro al metro quadro e i figli dei figli dei baby boomer studiano Ovidio e aspettano il loro turno per salire sulla vetta, come turisti alpini incolonnati alle pendici dell'Everest. Al liceo classico Manzoni si sono diplomati Rossana Rossanda e Matteo Salvini, Enrico Mentana e Alessandro Profumo, che con quel nome lì avrebbe potuto fare qualsiasi cosa – l'attore, la giovane proposta a San Remo, il sarto e ovviamente il profumiere – ma si è accontentato di essere uno degli uomini più ricchi di Italia. Il liceo classico Manzoni è stato occupato oggi dai suoi studenti, quaranta di loro hanno dormito lì, o forse è stato ieri, non lo so bene perché mentre mia madre seguiva il telegiornale io stavo sentendo gli Smiths. Allo sfumare delle note di This Charming Man, ho colto che l'occupazione del liceo classico Manzoni è avvenuta per protesta contro "la vittoria di un partito storicamente legato a immagini e retoriche fasciste, l'alternanza scuola lavoro e l'emergenza climatica". Si esprimono con proprietà di linguaggio gli studenti del liceo classico Manzoni, non siamo mica a un qualsiasi istituto per geometri o ragionieri, dove avrebbero solo detto che ha vinto la Destra e bon, si riprende a tirarsi le gomme e a guardare le gambe della professoressa accavallate sotto la cattedra. Vinto, ma è solo un dettaglio, con ampio consenso dopo elezioni regolari, a cui i genitori degli studenti del liceo classico Manzoni hanno certamente partecipato, rinunciando al meritato riposo nella seconda casa di Bormio o Rapallo pur di compiere il loro diritto e dovere alle urne. Una bella lezione di vita, di "rispetto per le istituzioni e gesto di responsabilità verso la cosa comune" dichiarano i padri, le madri, gli zii degli studenti del liceo classico Manzoni, e intanto controllano gli indici azionari sullo smartphone (si sa che le elezioni procurano una scossa ai mercati) e con l'altro occhio leggono l'editoriale di Gad Lerner, che però ha studiato al Berchet. Cambia il tono, questa volta sussurrato, ma la proprietà di linguaggio è la medesima, in fondo da qualcuno avranno pure imparato i loro cuccioli, non come quei genitori che ti strillano di non rompere il cazzo mentre guardano la partita in tivù. Ecco, questo è tutto quello che so del liceo classico Manzoni. Molto poco, a ben vedere. Ad esempio non so se nel programma di studio del liceo classico Manzoni, sempre quello, in via Orazio 3 a Milano, sia compresa una celebre poesia di Pasolini, la scrisse in occasione degli scontri a Valle Giulia avvenuti il primo marzo del 1968. L'ho riletta. A un certo punto dice: "Avete facce di figli di papà. / Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio cattivo. / Siete paurosi, incerti, disperati / (benissimo) ma sapete anche come essere / prepotenti, ricattatori e sicuri: / prerogative piccoloborghesi, amici. / Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti..."

mercoledì 8 settembre 2021

300, o sugli eroici professori no Green Pass

 


I politici vogliono discriminarci con il Green Pass, si dice. Per fortuna sono accorsi in nostra difesa trecento docenti universitari, come i trecento spartani che nel 480 a.C. arrestarono, sebbene temporaneamente, l'avanzata di Serse alle Termopili, con il professor Barbero nel ruolo di Leonida.

Hanno infatti perfettamente ragione ad affermare che il Green Pass è un atto di discriminazione! Peccato gli sfugga, nonostante i loro studi, che è l'intero processo di civilizzazione a fondarsi su pratiche discriminatorie, ossia di limitazione alla libertà personale in un contesto di vita associata. Come la chioma dei capelli attraverso quel discriminatore che è il pettine, il possibile viene separato dal lecito attraverso un complesso sistema di tutele e licenze.

Pensiamo ad esempio ai film porno. Io a tredici anni non potevo, e Dio solo sa quanto l'avrei voluto, issarmi sulle punte dei piedi davanti alla cassa del cinema Odeon, e poi richiedere con la voce tremante il biglietto per l'ultimo film di Marina Lothar, la moglie del giornalista televisivo Paolo Frajese specializzata in giochetti con i cavalli.

Che rabbia vedere il manifesto "Marina e la sua bestia" e non poter entrare! E che rabbia, alla stessa età, dover attendere ancora un anno per guidare il Ciao bianco di mio nonno. Quindi, raggiunto quel traguardo, altri due anni per la Vespa; oltretutto era previsto anche il conseguimento di un patentino: doppia discriminazione dunque, che si ripeté con l'automobile. Per la patente nautica e quella di volo ho desistito, avevo già subito troppe discriminazioni. E così un po' per tutto.

Curioso che trecento docenti universitari non l'abbiano ancora inteso, e siano convinti di vivere nello stato aurorale di natura decantato da Rousseau. Discriminazioni dettate dallo spirito dei tempi, e perciò mutevoli e strampalate se osservate a distanza di anni; il suffragio femminile fu introdotto in Italia nel 1945, nemmeno un secolo fa. Oltre che frutto di calcoli utilitaristici che ogni comunità umana elabora per proteggere sé stessa.

Se, verosimilmente, ci saranno meno incidenti con le persone in grado di certificare elementari nozioni di guida e meno morti con i vaccini – tutti quelli già obbligatori, oltre a quello per il Covid che obbligatorio non è –, non altrettanto immediata l'utilità nel distinguere i bagni delle donne da quelli degli uomini, o l'obbligo di indossare giacca e cravatta al casinò.

Perché, mi chiedevo leggendo la notizia, Barbero e i suoi colleghi non avevano alzato le loro penne stilografiche anche contro queste anacronistiche misure, e già che ci siamo io rivendicherei pure la libertà di pisciare sopra i copertoni come fanno i cani – il bagno stesso, con quelle pareti piccine e soffocanti, è una forma di discriminazione, un grave argine alla sacrosanta libertà di minzione.

Il Green Pass è dunque solo una piccola goccia nel grande mare dei diritti e dei doveri, o, cambiando di metafora, una pagliuzza dentro l'occhio in cui si nascondono travi ben più grandi. Non è di moda ricordarlo, ma a me continua ad apparire più discriminatorio il patrimonio ereditato da Gianluca Vacchi, da confrontare con solenne retorica operaista alle condizioni di lavoro (e santa grazia che c'è l'ha, un lavoro) di un dipendente dell'Ilva di Taranto, o la sperequazione tra un salario africano e quello di un idraulico di Montecarlo; e ho detto un idraulico, non un tennista che lì ha portato la residenza per pagare meno tasse.

Tutte questioni non pervenute, come le indicazioni meteorologiche di Potenza, per i trecento cattedratici, forse più preoccupati per il loro deltoide che non dalla ricaduta dei gesti individuali sulla comunità; anche questo un argomento che ha perduto di appeal, un tempo la si chiamava etica.

E allora facciamo così, aboliamole pure, per quelli che smaniano e manifestano e firmano, queste benedette discriminazioni: i vaccini, le mascherine, il Green Pass... Tutto quanto. Lasciamogli fare quel cazzo che gli pare e piace. Ma in un luogo circoscritto, una sorta di nuova Terra promessa da concedergli di buon grado, in cui trasferirsi dopo aver traversato deserti d'incomprensione.

Li potranno finalmente guardare tutti i film porno che gli abbiamo negato da cuccioli, votare a dodici anni, anzi dieci, ma che dico non votare proprio – a che serve la rappresentanza politica, ennesima discriminazione costituita da uomini che esercitano un potere su altri uomini? Meglio dedicarsi allo studio dell'araldica medievale, o a cose più libere e svagate, tipo guidare elicotteri senza patente e passaporto e ogni altro oppressivo documento d'identità; come cantava Lucio Dalla, anche i preti in quel luogo potranno sposarsi, ma soltanto a una certa età.

Fosse per me, gli concederei immediatamente anche la luna: così stanno più larghi e li vediamo solo col telescopio, mentre ci fanno ciao ciao da lassù.

giovedì 22 ottobre 2020

Turismo


Nei giorni scorsi ho pubblicato un post fortemente critico sulla Ministra Azzolina, che considero uno dei peggiori ministri dell’Istruzione assieme a Maria Stella Gelmini; di cui è però molto più simpatica e graziosa, questo va detto.

In ogni caso, si tratta di un personaggio pubblico, di più: potente, e dunque il diritto di satira è da considerarsi legittimo. Rientra in tale spirito la foto che associavo al testo, in cui la Ministra viene ritratta in costume da bagno sulla battigia, nel gesto di fare il muscolo.

Uno scatto per nulla squalificante dal punto di vista umano, e che non intende neppure ridurre Lucia Azzolina all’avvenenza delle sue forme, qui già riconosciuta. Sottolinea, piuttosto, la natura turistico-balneare da diportisti in gommone Zodiac, motore Elvinrude, e poi la sera una bella calamarata da Gigi il poliparo. Lo stesso slancio vitalistico e vagamente naif con cui ha occupato il dicastero di viale Trastevere, che si unisce a una sopravvalutazione delle proprie forze, evocata da quel piccolo spiritoso gesto; dimenticavo, anche l’ironia è da annoverare tra le qualità in cui primeggia sulla Gelmini.

L’interpretazione dell’immagine non mi sembrava così ambigua, tantomeno irriverente, e cioè ben lontana dall’insinuare i peggiori stereotipi di genere, di cui puntualmente sono stato accusato: il solito maschio che considera le donne buone solo per fare torte, o ancheggiare attorno al palo della lap dance...

Tutt’altro. Le donne, proprio come gli uomini, sono capaci anche di fare del turismo. Solo che alcune vanno Sharm el-Sheikh, e altre al Miur.


venerdì 16 ottobre 2020

Le parole sono importanti

Chiudere le scuole. Trovo sbagliato insistere su questo termine: chiusura. E chi parla male, ci ha insegnato un vecchio film, pensa male e vive male.

Continuare ad agitare lo spettro verbale della chiusura genera infatti malumori, oltre a numerosi equivoci. La scelta lessicale appropriata mi sembra piuttosto quella di mutazione. Mutare la didattica: da presenza, fisica, a una speculare presenza, ma cognitiva, virtuale.

Io ho frequentato tutti i possibili ordini e gradi di istruzione – elementari, medie, superiori, università –, ma anche numerosi corsi in cui la didattica era a distanza. E devo dire che mi sono sempre trovato bene.

Certo, per questo approccio è necessaria maturità tecnologica e autonomia umana, ed è dunque impraticabile nella scuola primaria. Per quanto riguarda le medie, ho invece molti dubbi… Parliamone.

Su scuole superiori e università le incertezze si diradano: funziona, la didattica a distanza è pratica ed efficace; compreso il rapporto interattivo col docente, lo scambio di contenuti (e perfino giochetti verbali) tra i compagni.

Inoltre. L’utilizzo della piattaforma Zoom rappresenta un problema per ferri vecchi come me, non certo per un ragazzo di quindici o sedici anni. Non è la soluzione a ogni problema, si intende, ma un piccolo concreto passo per ridurre la diffusione del contagio; una mutazione che non ha ricadute economiche, oltre a essere un buon compromesso formativo – ripeto: on-line le nozioni si trasmettano per davvero, e anche alcuni aspetti relazioni ed emotivi; non tutti, ovviamente.

Tito Boeri, ospite ieri sera a Piazzapulita, paventava però scenari drammatici: se sospendiamo la didattica in presenza, i nostri giovani rimarranno anime perse e neglette; senza un titolo di studio non troveranno mai lavoro... Una generazione di clochard, in pratica.

Ecco, se penso a un esempio di cattiva informazione è proprio questo: associare contenuti inesatti a emozioni basiche, senza nessuno che lo corregga.

Rimane il nodo di bar e ristoranti. Perché si va infatti al bar? Perché ti manca la birra casa, o magari la Sambuca, il caffè… No, per socializzare. E qual è la prima regola, nota anche alle tribù africane, nel caso della diffusione di un’epidemia? Semplice. Ridurre i contatti, limitare al minimo le relazioni fisiche tra persone.

Ora si deve decidere da quale parte tirare la coperta, o, se vogliamo cambiare di luogo comune, avere la botte piena oppure la moglie ubriaca. Entrambe le cose – socialità e riduzione dei contagi – dovremmo avere ormai capito che non le possiamo avere. E neppure gli introiti fiscali che derivano da quelle attività, che andrebbero indennizzate per le perdite subite.

Essere in democrazia, essere adulti in un pase civile non significa protestare sempre e comunque – un’attività che sanno fare benissimo anche i bambini, perfino prima di parlare – ma scegliere. Possibilmente, scegliere con responsabilità. Un altro termine su cui ci si sarebbe molto da dire…

sabato 6 giugno 2020

Traumi

A me l'immagine del plexiglas che divide gli alunni piace, potrebbe essere un'istallazione artistica di Maurizio Cattelan, una metafora potente della condizione della tarda modernità, ben oltre estesa alla contingenza del virus. Mi rendo però conto che non può essere considerata una soluzione duratura, oltre che di dubbia efficacia.
Non voglio sminuire l'importanza di una profilassi ambientale, per quanto mi sembra discutibile la fiducia in una strategia del genere, che comunque non eviterebbe i contatti fisici prima e dopo le lezioni. Ma al di là degli aspetti pratici, mi sembra interessante approfondire i motivi di protesta immediatamente seguiti alla proposta, toccando sui social livelli di ringhiante ripulsa.
Tutto ruota attorno alla convinzione che una barriera trasparente potrebbe indurre un trauma, ossia, letteralmente, una ferita nell'equilibrio emotivo dei ragazzi, come quella inflitta a Telefo dalla lancia di Achille. Ora a me sembra altamente improbabile che una paratia possa turbare profondamente la psiche di un giovane. Ma se, per ipotesi, davvero così fosse, mi chiedo perché no?
Non voglio essere cinico o peggio sarcastico, quanto piuttosto riflettere sul fatto che la sistematica rimozione dai traumi sia divenuto l'approccio pedagogico dominante, ne possiamo trovare una sintesi efficace nel film La vita è bella. Certo, in quel caso si trattava di un trauma vero, drammatico, e nessuno si augura il ritorno dei campi di sterminio nazisti.
Il principio ispiratore della pellicola era la cosiddetta bugia a fin di bene. Un padre sorridente e affettuoso e menzognero, tanto più menzognero quanto più sorriso e affetto si fondono, cerca di velare al figlio la più terribile verità. Con le debite proporzioni, una situazione che può essere traslata al presente; pensiamo al dottor Zangrillo quando afferma che il coronavirus è "clinicamente scomparso”. No, non è scomparso, basterebbe una sola vittima per smentirlo, ma come Benigni Zangrillo vuole preservarci da un'esperienza traumatica del reale; e cioè del reale tout court, essendo il trauma intrinseco alla vita.
Il suo atteggiamento ci rassicura, tutti sanno che non è vero ma si stabilisce una complicità omertosa; in fondo parla per il nostro bene, non vuole farci soffrire, temere. La sua professione è quella di anestesista. Eppure non era così scontato che avesse successo una comunicazione anestetica, non riguardava ad esempio le generazioni precedenti. In un passato ancora prossimo venivano addirittura escogitati dei traumi artificiali a cui sottoporre i ragazzi, considerandoli formativi; il leggero schiaffetto impartito dal prete durante la Cresima ne è immagine omeopaticamente diluita, in cui traspaiono gli antichi riti di iniziazione.
Bisogna inoltre aggiungere che la soluzione concepita dalla Ministra riflette la medesima prospettiva culturale di chi la contesta, imbastendo l'equivalente post moderno della campana di vetro. Ciò che cambia è solo la valutazione topologica in cui collocare il bene da preservare: la psiche dei giovani oppure il loro sistema immunitario?
Non ho ovviamente una soluzione da offrire, se non cercare di reindirizzare l'interrogazione sul dilemma, più profondo, che si muove dietro alla polemica sul plexiglas a scuola: una vita senza traumi, dunque senza realtà, pericoli, virus, oppure l'atteggiamento più stoico di chi pensa che a volte si possa incontrare il male senza esserne annichiliti? Magari piccoli mali per evitare dolori più grandi, come nell'altrettanto temuta vaccinazione.
Mentre riflettiamo sulla risposta, ricordo il finale del mito di Telefo, dove è la stessa lancia di Achille a guarire dopo anni la ferita del re di Misia. In largo anticipo su Freud, gli antichi greci avevano intuito che c'è solo un modo per superare gli inevitabili traumi: viverli. E se non si capisce la lezione, non la si integra, ri-viverli. Mi auguro solo che non sia necessaria una nuova pandemia per comprendere che il mondo esiste, comunque esiste prima e dopo il desiderio che prova a dargli forma, e quando non ci riesce trasferisce l’immagine redenta in una nuvoletta di finzione. Dove mulini bianchi convivono accanto a mucche viola, pantere rosa e zebre a pois.

sabato 18 aprile 2020

Habeas corpus, o sulla differenza tra ovvio e intelligenza


Rimango sempre affascinato di fronte alle manifestazioni dell’ovvio. Ha questa caratteristica l’ovvio: non è sbagliato, anzi nella maggior parte dei casi è giusto, corretto, a volte perfino ineccepibile. E perciò consolidato in abitudine. Proprietà che lo fanno confondere con l’intelligenza, la quale non è per nulla ovvia – non c’è niente di più anti abitudinario dell’intelligenza – e al contrario ricerca percorsi inediti a problemi vecchi nuovi.
Ciò avviene quando l’ortodossia dell’ovvio incontra degli ostacoli accidentali. È il caso recente dell’insegnamento. Scoppia un’epidemia su scala planetaria. Cosa fare? Proviamo con la didattica a distanza, che previene i rischi di contagio e consente, in periodi di emergenza, di portare avanti i programmi scolastici. Mi pare una risposta intelligente, no? Possiede infatti dell’intelligenza quel carattere pragmatico di valutazione caso per caso, in cui il problema può essere risolto anche solo parzialmente, almeno quando non vi fosse una soluzione ottimale. Magari cambiando funzione a un mezzo che nasce per altri scopi, come il web.
Leggo però di una lettera appena indirizzata alla Ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, in cui i firmatari sono genitori, insegnanti, psicologi e chi più ne ha più ne metta, meglio se con un titolo accademico davanti. Le ricordano che la didattica a distanza non può sostituire la scuola, nella forma di un insegnamento in presenza. Che dire… In linea di principio è impossibile non essere d’accordo: l’educazione a distanza non può etc. etc. Quello che scrivono loro, insomma. È semplicemente ovvio.
Ma perché inviare questa lettera proprio adesso, mi chiedo? Ora che l’insegnamento in presenza si tradurrebbe in un rischio concreto per la salute. Capisco così che un’ultima caratteristica dell’ovvio, a renderlo così popolare, è la percezione di un accrescimento del proprio valore: come mi sento fico, ganzo, smart a dire le cose come stanno, a cantargliele in faccia alla Ministra. Al punto che viene il sospetto che questo smania di obliterazione della propria intelligenza nasconda un dubbio occulto sulla stessa.
Se ne ricava che la frequentazione dell’ovvio è prerogativa dei cretini, magari non cretini totali ma fuochino, la direzione è presa, c'è l'abbrivio. Una strada che porta alla cassetta delle lettere più vicina in cui imbucare il proprio appello, dove si rivendica una sorta 'habeas corpus'. Quello dell’insegnante e degli allievi a fronteggiarsi nuovamente, e, mentre l’uno scrive qualcosa sulla lavagna col gessetto, gli altri si sparacchiano palline di carta con la cerbottana ricavata dalle biro Bic, dando prova incontestabile di  intelligenza: stornare, come già visto, un mezzo a funzione diversa. Qualità che proprio non riesco a riconoscere agli estensori della missiva.

venerdì 3 aprile 2020

Pugni, o sull’immenso prima in cui siamo conficcati


Credo esista una legge della fisica per cui se c’è uno spazio vuoto qualcosa accorre per riempirlo. Credo. E se non ci fosse, sarà una legge della psicologia. Almeno a me succede così. In questi giorni, in particolare, mi sembra di ricordare più del solito, la mente va indietro, rovista, scova episodi che l’incalzare degli impegni aveva seppellito. Sempre indietro, mai avanti. Il pensiero colma la dilatazione che si è creata negli eventi.
Tra i rigurgiti del passato si impone la memoria delle zuffe giovanili. Non che facessi spesso a botte, e quelle poche volte in genere le prendevo. Tutta colpa dei fumetti che divoravo: l’eroe vede un sopruso, interviene, salva il malcapitato ma la striscia si interrompe sul più bello, il finale al prossimo albo.
Uno spirito più emulativo che eroico mi portava a difendere i compagni dalle angherie dei bulli. Quando mi imbattevo nel prepotente di turno, dai, lasciamo in un angolo le cartelle, andiamo in quel prato a risolvere la questione, e di solito si tirava indietro. A braccio di ferro sapevo farmi valere, mentre dagli incontri in tivù di Muhammad Ali, che io chiamavo ancora Cassius Clay, avevo imparato qualche trucchetto. Poi però il tizio che avevo sfidato tornava con un amico, un complice, un qualcuno, e me ne davano un sacco una sporta.
La volta che ne presi di più fu dai cugini Sertorelli. La mattina ero leggermente in ritardo, il piazzale antistante le scuole medie Sassi era deserto, tutti erano già entrati e stavano rovesciando sul tavolo di formica verdina il diario di Snoopy, quaderni, libri e quel che serviva, insomma. Tutti tranne due ragazzetti ai lati del cancello di ingresso su via Aldo Moro, uno a destra e uno a sinistra degli stipiti di cemento grezzo. I cugini Sertorelli.
Ora non era necessario aver letto l’episodio dei bravi in attesa di don Abbondio, per capire che si metteva male. Quello stava nel programma di terza. Aggiungiamoci che, alla fine di aprile, entrambi indossavano i guantoni da sci. La ragione è presto detta: come al solito, mi ero messo in mezzo con uno di loro. L’avevo visto prendere a schiaffetti un mio compagno dai capelli rossi e gli occhi cisposi. Teneva la testa bassa, il mio compagno, e dagli occhi altrettanto bassi non riuscivano a sgorgare le lacrime, premevano ma si arrestavano come contro a una diga, gonfiando quei granelli che di notte sbocciano a lato delle palpebre.
Intanto, l’altro continuava a dargli i suoi odiosi schiaffetti. A quel punto parte il mio solito copione da Zagor Te-Nay. Due leggeri colpi da dietro con l’indice della mano destra, lui che si volta, mi guarda dal basso in alto, ero più alto io, ma infinitamente maggiore la cattiveria nelle sue pupille. Nelle ginocchia avverto un leggero fremito, ma ormai la recita era avviata e dovevo portarla a termine. Con un cenno del capo gli indico il giardinetto della scuola – sotto titolo: andiamo lì, e vediamo se riesci a dare gli schiaffetti anche a me.
Dopo qualche secondo, lunghissimo, in cui i nostri occhi non si mollano come se la Cocorina li tenesse incollati, mancava solo la colonna sonora di Ennio Morricone, finalmente il mio antagonista apre la bocca: Ma lo sai almeno, chi è mio cugino?
Me lo spieghi un’altra volta, faccio io con una voce impostatissima, anche quella faceva parte del ricalco degli eroi Bonelli, adesso molla il mio amico.
Mantenendo fino all’ultimo il suo sguardo cattivissimo su di me, alla fine se ne era andato (e qui devo confessare che qualche dubbio l’avevo avuto...) ma prima aveva sibilato qualcosa, del tipo: Ci rivedremo. Ok, ci rivedremo.
Era una bella giornata, inquadratura dall’alto con le betulle fiorite sullo sfondo: io che tengo la mano sulla spalla del mio compagno dagli occhi cisposi, lentamente stavano tornando asciutti ma sempre cisposi, ci avviamo verso la seconda F. Non è difficile essere dei duri, pensavo compiaciuto tra me e me, basta poco, devo farlo più spesso.
Invece è difficilissimo, e i due cugini Sertorelli erano lì per ricordarmelo, con i loro guantoni da sci a primavera inoltrata. Ora io credo di non aver mai preso tante botte nella vita nemmeno se sommo quelle di mio padre, Pierantonio (a cui per altro ne ho restituite parecchie), don Gino, suor Tecla, la maestra Maccarone e mio zio Franco, che mi diede un solo ceffone dopo che avevo abbattuto la veranda di un chiosco di bibite vicino a Nizza, e ancora oggi se ne rammarica.
I cazzotti dei cugini Sertorelli però non hanno paragone, a ogni passo che facevo, traballando e senza reagire, erano cinque o sei pugni in faccia – che poi avevano solo due mani a testa, come facessero ancora non lo so – e a malapena riuscii a raggiungere i bagni per ripulirmi dal sangue che mi colava dalla bocca e dal naso. Ma dopo una sciacquata di acqua fresca, la sensazione inattesa di esserci ancora. Stavo addirittura bene, deve essere l'effetto dell'adrenalina. Ero vivo. Ero integro, quasi integro, via.
I pugni fanno molto meno male di quanto avevo fino a quel momento sospettato, meglio temuto. Consiglio di provare, per credere, a chi non si è mai preso una ripassata. Basta fare come in quel film di Woody Allen. Accostarsi a un capannello di gente di colore e poi gridare: Negri di merda!
Chi invece ha fatto almeno una volta a botte già lo sa. Si sopravvive quasi a tutto, e il male, il danno, la sfiga, si rivelano spesso meno terribili delle loro prefigurazioni. Non sto naturalmente cercando di minimizzare la sofferenza, reale e drammatica, di chi in questi giorni ha perso parenti o amici per lo stramaledetto virus. Ma solo ricordando a me stesso che i pugni non fanno male. Nemmeno bene, ma passano.
È il prima a essere carico di paure, e l'ansia è una forma di sofferenza, solo più subdola, occulta, come le doglie rispetto al parto. Pare che poi le donne si scordino il dolore del parto, altrimenti non farebbero più figli, ed è così anche per le scazzottate. Se non volete fare la prova con quelle basta ricordarsi del dentista. Il trascorrere estenuato dei minuti nella sala d'attesa, per ingannarlo fingiamo di leggere una copia logora di Marie Claire. Poi l'assistente alla poltrona - il completo verde, la mascherina - compare a sussurrare il nostro nome, e un pezzettino di peggio è
 già passato. Quello del prima.
Ecco, a me sembra che siamo piombati tutti in un immenso prima: l’Occidente è conficcato in un prima che non vuole diventare dopo, il mondo è un prima, solo per i medici e gli infermieri e i malati è un tremendo durante, a guardarlo da quaggiù anche l’universo appare oggi come un enigmatico prima, ma non abbiamo la possibilità di cavarci il dente o di sfidare i cugini Sertorelli a fare a botte. Dobbiamo solo aspettare, chiusi in casa. Mentre il presente ci dà dei piccoli schiaffetti che noi incassiamo con occhi umidi e cisposi.

Ps – Ah, per la cronaca. Alle medie, oltre a quelli che le buscavano, io avevo anche un amico pluriripetente, tale Gigi. Stava nella sezione accanto, la E. Una volta sono riuscito a bloccarlo, insieme a tre bidelli, un attimo prima che riuscisse ad accoltellare una supplente con le forbici, rea di avergli dato una nota sul registro. Per dire il tipo. Quando mi ha visto uscire dal bagno barcollante, mi ha fatto solo una domanda: Chi? E io: Cugini Sertorelli. All’uscita da scuola mi aspettava con le teste di entrambi, una sotto un braccio e una sotto l’altra. Le ha battute, come coperchi, fino a che io ho detto ok, può bastare. Perché oltre a Zagor leggevo anche Diabolik.


sabato 2 febbraio 2019

Studia l'arte e mettiti da parte, o sulla bellezza dell'inutile

Lo dico senza ironia né, tanto meno, spirito di provocazione, ma a me sembra una bellissima notizia che non esista più alcuna scuola ad assicurare il lavoro ai ragazzi, e sono pochissime anche le università che raggiungono lo scopo; forse solo Medicina e, in parte, Ingegneria, mentre tra gli istituti secondari mi viene in mente l'Alberghiera, o ancora più precisamente l'indirizzo per diventare cuochi. Che per fare il cameriere, almeno nei ristoranti che frequento io, bastano un paio di scarpe nere e una camicia bianca. E se ci scappa una macchia di sugo non ci scandalizziamo mica.  
Quando ero ragazzo si diceva: fai Ragionieria e ti assumono in banca, vai tranquillo, ci mette una buona parola l'amico dell'amico di papà, o se preferisci Geometra e un posto al Catasto non te lo leva nessuno. Negli anni successivi, a spanne dai Novanta in poi, sono venuti di moda gli studi in informatica e turismo, quindi è stata la volta di web design, marketing, comunicazioni, per non dire delle scuole steineriane frequentate anche dai figli del Grande Capo.
Tutte esche su cui i ragazzi privi di un'autentica vocazione (e forse anche desideri) si buttavano come pescetti in banchi compatti, le reti venivano disposte da istituti perlopiù privati e molto costosi. Il sotto testo era: vieni da noi e un posticino, da qualche parte, vedrai che salta fuori. Magari un'attività dove non ci si spacchi la schiena e sia bella da pronunciare quando all'happy hour ti domandano: Che lavoro fai? Websticazziqualcosa, e ci fai pure la tua porca figura. 
Non che adesso questi tentativi di seduzione siano cessati, ma mi sembra che i giovani, non so se più cinici o rassegnati, non se li bevano più. È in questa chiave che leggo il recentissimo boom di iscrizioni ai licei, che nel frattempo hanno moltiplicato le sigle 
(classico, scientifico, linguistico, artistico, socio-psico-pedagogico e ora mi dicono anche musicale) ma si propongono comunque tutti come studi rivolti alla formazione della persona, più che catene di montaggio per piccoli Stachanov.
Si dirà: ma che te ne fai della conoscenza della filosofia, di Dante, Michelangelo, per non dire del greco e del latino, quando già sai che non ti serviranno a nulla, non concretamente almeno? E mai come ora mi sembra tornata attuale la risposta di Aristotele: la filosofia non serve perché non è serva di nessuno.
Che è solo un modo per rimandare il problema del lavoro 
 "chi ti dà i soldi per l'affitto, e per questa sigaretta qui?" chiedeva Nanni Moretti in una celebre sequenza di Ecce Bombo, rivolgendosi a un'amica che dichiarava di "fare cose e vedere gente" , ma per adesso incassiamo un po' di cose inutili e belle. È dunque questa la buona notizia, non certo la penuria di lavoro (per giunta mal pagato). 
Ci sono addirittura alcuni studi che dimostrerebbero come una testa agganciata a una tradizione che ha sé stessa quale oggetto, un sapere ineffettuale, come si dice, giri meglio anche quando mortificata con le professioni del presente; un po' come le Ferrari vendute negli Stati Uniti, la cui potenza, successivamente, viene limitata per non superare un centinaio di miglia. 
Se poi avete un figlio che si ostina a voler studiare marketing o turismo o, peggio, si iscrive a una fashion look academy, fatevene una ragione. Nella migliore delle ipotesi è gay, e nella seconda non è figlio vostro ma dello spirito dei tempi, che da sempre detiene un'ipoteca paterna sui più giovani. D'altronde lo stesso Socrate non ha mai capito cosa frullasse nella zucca dei suoi quattro figli un poco grulli, per non dire della moglie...