lunedì 29 aprile 2019

Berenice

"Potevo salvare Aldo Moro, i politici mi hanno fermato." Lo dichiara Raffaele Cutolo dal supercarcere di Parma. Grande Fratello, lettera a Serena dalla vera madre, da cui era stata abbandonata alla nascita per essere adottata dai coniugi Rutelli. Magalli, settantun'anni, lascia la fidanzata di ventidue: "Mi videochiamava in piena notte." Giovane modello brasiliano (ma i capelli erano già bianchi) muore sfilando in passerella, ancora ignote le cause del decesso. Francia. Uomo e donna rimasti vedovi in conseguenza della strage del Bataclan, si sposano, tra di loro, e danno alla luce una bambina di nome Berenice. Non so se qualcosa leghi questi fatti, se non lo sguardo con cui li ho letti, confesso un po' distrattamente, tra le notifiche quotidiane del mio smartphone. Ma mi piace pensarli nell'ordine appena scritto. E che dopo la sfilata di atrocità, beffe, lutti, gossip e cazzi vari, venga sempre una Berenice. Nome macedone composto da due parole: portare e vittoria.

domenica 28 aprile 2019

Il canto della neve rumorosa, o sulla differenza e la relazione

Canto della neve silenziosa. È il bellissimo titolo di un racconto, altrettanto bello, di Hubert Selby Jr, che dà il nome anche alla silloge in cui è contenuto, pubblicata in Italia da Feltrinelli. Oltre al potere evocativo, la sua efficacia viene rafforzata dalla presenza di una strategia retorica sottile: quella dell'ossimoro, che attraverso l'accostamento di termini opposti – silenzio e canto, nella fattispecie – produce effetti spiazzanti.
Ci pensavo rileggendo il racconto. Parla di sofferenza e depressione, con cui lo scrittore americano ha sempre convissuto, ma anche di possibile riscatto, forse si potrebbe azzardare un termine religioso: redenzione. Nella vicenda narrata coincide con la percezione di pace e identificazione, quasi mistica, con tutto ciò che è, sperimentata dal protagonista durante una passeggiata. All'improvviso comincia a nevicare. I fiocchi cadono senza far rumore, anche il paesaggio sembra ammutolire, le pene si acquietano, per accorgersi che tra fuori e dentro non c'è più alcuna differenza. Ma se nel bianco tutto risuona, anche il silenzio non è più una sensazione acustica, ma musica, canto. 
Una caratteristica della grande letteratura è quella di funzionare come uno specchio, secondo una formuletta che i lettori conoscono bene: “questa cosa avrei potuto scriverla io, ma mi mancavano le parole”. A maggior ragione nel mio caso, in cui, oltre a una consuetudine con gli antidepressivi, si unisce l’origine alpina, un luogo dove in inverno nevica spesso e con implacabile abbondanza, o almeno così era un tempo. Ma più procedevo nella lettura, più mi accorgevo che il mio pensiero stava virando in un'altra direzione.
Quando ero bambino a Sondrio, in via Parolo 10, per capire se aveva nevicato non c’era bisogno di fare una passeggiata, in fondo neppure di alzare la tapparella e guardare fuori, era un altro senso ad annunciarlo. L’udito, appunto. Il suono e non il silenzio.
Ancora rincucciato sotto a numerose coperte, lo capivo, ad esempio, dallo sferragliare dello spazzaneve, che poco prima dell'alba passava a ripulire le strade. Era seguito a breve dal rumore dei badili – toc, da principio, quando la porzione da rimuovere viene delimitata come una fetta di torta; poi trrr, ed è la pala che si carica sfregando sul porfido ghiacciato; quindi tunf, da cui si riconosce il lancio a margine, dove la neve si accumulava e rimaneva fino agli ultimi giorni di febbraio, quando si scioglieva incalzata dal galanthus nivalis, più comunemente detto bucaneve.
Il condominio la Gioiosa, che si era coricato nel buio punteggiato dai televisori, Carosello e poi Canzonissima sul minsucolo schermo in bianco e nero (i transistor impiegavano un interminabile minuto prima di restituire l’immagine di Topo Gigio, che volteggiava malizioso attorno all’ombelico di Raffaella Carrà), si risvegliava come un villaggio tribale, i ruoli ben distinti per genere ed età anagrafica; mentre le donne gettavano il sale, erano i maschi adulti a ripulire la rampa dei garage, con i bambini ad ascoltare tutto ciò. Ed era anche quello un canto, un canto rumoroso.
Più che cancellare i suoni, la neve ha infatti il potere di isolarli, rimuovendo il brusio di fondo, la tappezzeria sonora, per lasciar spiccare le linee
 del quadro. Nella circostanza, ciò che potevo scorgere in quell'immagine acustica era una comunità viva e operosa, che si stava occupando anche di me; dalla rampa sarei risalito con la mia bicicletta Gloria rosso cromato, sulle strade ripulite avrei raggiunto la scuola, per fermarmi, al ritorno, all'edicola Zarucchi, dove acquistare l'ultimo albo di Zagor e le figurine dei calciatori.
La capacità di individuare le differenze, non solo acustiche, insieme alle relazioni, in un depresso (parlo per esperienza) è ciò che va perduta, e il paesaggio emotivo finisce col somigliare non al fioccare della neve, ma a quello della città al secondo o terzo giorno dalla nevicata; una poltiglia grigia e indistinta, un sorbetto fetido, che ha il solo potere di insinuarsi nelle cuciture della scarpe, per gelare le dita.
Il canto a cui mi aggrappo quando la depressione ancora prova a cancellare i contorni delle cose, non è dunque un canto silenzioso, ma allo stesso tempo nemmeno fragoroso, il volume a palla, il cuore in affanno, che è un altro modo per fare del molteplice uno. Cerco piuttosto di ricordarmi il suono ovattato dello spazzaneve sul manto nevoso (il trunk trunk delle grandi gomme imbrigliate dalle catene, a cui si accompagna, ratratra, la lastra d’acciaio sagomata che gratta l’asfalto), oppure dei badili con cui mio padre, insieme al signor Alessi, il signor Ciccozzi, il signor Ottonetti, i grandi erano sempre dei signori, ripulivano la rampa, per restituire la pedalata della mia bicicletta al mondo.
Un mondo che era davvero piccino piccino, come quello delle bocce di vetro con all’interno le miniature e la neve finta, quando le ribalti inizia a fioccare, ma era pur sempre il mio mondo, anzi il nostro. E come tutti i mondi era fatto di differenze e relazioni, che grazie a quel canto potevo finalmente sentire.

giovedì 25 aprile 2019

Nada Malanima, o sulla verità obliqua

Nada Malanima. Tempo fa ascoltai una trasmissione alla radio dedicata alla cantante livornese. Tra gli altri ospiti, un musicologo spiegava che la sua peculiarità è quella di lambire la nota, lambirla senza una coincidenza perfetta e scartando invece a lato – sopra, sotto, non importa – rispetto a quanto previsto dalla melodia. Non tanto però, solo qualche semitono, così da non perderla del tutto in quella che risulterebbe una stonatura, da lei sempre e miracolosamente evitata. Una sorta di microstonatura, ecco, che pare fosse conosciuta, e apprezzata, già in epoca barocca.
Io non ne capisco molto di teoria musicale, ma mi sembra una buona sintesi anche della persona: Nada si smarca dalla linea dominante della femminilità, non solo canora, inaugurando digressioni che la fanno percepire nel suo essere singolare, unico, o come si dice un po' retoricamente: una donna vera.
Ma a ben guardare, ottiene questo effetto di autenticità con un disallineamento minimo, non ha premura di stravolgere i modelli o di cimentarsi nella trasgressione (come Patty Pravo o la Bertè, mettiamo), e in ciò risulta sia straniante sia rassicurante, coinvolge, incuriosisce, nel mio caso appassiona. Per essere sé stessa, insomma, è semplicemente sé stessa. Tutto il resto, è un problema nostro.

In un'intervista trovata su YouTube (per vederla cliccare qui), Nada in tutta la sua obliqua e bellissima umanità.

lunedì 22 aprile 2019

La fabbrica del cacao, o sulla cittadinanza linguistica

Molti anni fa avevo un amico omosessuale. Come spesso accade ai gay, possedeva un linguaggio originale e irriverente, forse per il piacere, o il bisogno, di smarcarsi dal linguaggio comune, che è intimamente sessista. Ad esempio la parola gay, da me appena utilizzata con leggerezza, non è per nulla neutra e politicamente corretta, ma presuppone una disposizione garrula e perennemente gioiosa, come se un uomo attratto da un altro uomo non potesse avere il reflusso esofageo o essere triste per la morte del proprio cane; non a caso è di un omosessuale, Carlo Coccioli, il più struggente memoir sulla perdita di un animale amato. Sarà forse per questo che, tra di loro, gli omosessuali si chiamano froci, cecche, a volte perfino ricchioni.
Nel caso del mio amico, aveva parole corrosive anche per le donne, di cui definiva il sesso, il sesso femminile intendo, con una formula verbale senza scampo: “orrenda ferita”, e mi scusino le donne che stanno leggendo. Ma anche quando parlava dell’ano, in questo caso maschile, nel discorrere fluviale del mio amico si trasformava nella fabbrica del cacao, a dimostrazione del fatto che nemmeno il linguaggio omosessuale è neutro, nessun linguaggio lo può essere, e la verità è sempre nelle parole di chi la nomina, prima ancora che nei suoi occhi. 
D’accordo, non è una novità, e già Nietzsche aveva compreso che non esistono fatti ma solamente interpretazioni, per diventare interpretazioni inconsce con Freud e in particolare Lacan. Lo psicanalista francese intravede nel linguaggio una sorta di altro o, meglio, di Grande Altro, a definizione e misura della nostra provvisoria identità, che si riduce a un incessante brusio verbale dove non esiste parola senza chi la dica, ma nemmeno soggettività senza un codice alfabetico. Il linguaggio è insomma lo specchio in cui ci guardiamo. A volte confondendo, come Narciso, il riflesso per la sostanza.
Si potrebbe ripartire da qui, pensavo ripensando al mio vecchio amico e al suo buffo linguaggio, partire dalle parole per accostarsi all’annoso problema della cittadinanza agli stranieri, e in particolare ai loro figli. Se è vero infatti che ciò che oggi definisce un popolo, più che una terra, un suolo, è la relazione vissuta con quel suolo e quella terra – l’interpretazione che ne diamo, e che il linguaggio rivela –, si dovrebbe oltrepassare la retorica fintamente progressista dello ius soli (un concetto tematizzato al meglio dalla filosofia giuridica di Carl Schmitt, acutissimo pensatore ma inequivocabilmente nazista) con una sorta di ius lexis.
Non è complicato. Se una persona viene identificata dal proprio linguaggio, per mezzo del quale, più che parlare, viene parlata, l’appartenenza sarà con chi nomina il mondo allo stesso modo, attraverso parole che sono già di per sé un’ipoteca sul reale. Ad esempio un finlandese, per il semplice fatto di parlare in finlandese, possiede un’interpretazione del mondo diversa da quella di un francese, un russo, uno spagnolo. Interpretazioni verbali che, per quanto implicite, hanno una precisa e concreta ricaduta, se è vero che il matrimonio corrisponde alla trasformazione di una donna in madre e di un uomo in patri-monio.
E così si potrebbe pensare di agire anche nel caso dell’immigrazione: vuoi diventare cittadino italiano? Ok, sostieni un esame in cui dai prova di una conoscenza approfondita della lingua italiana. Negli Stati Uniti già esiste qualcosa di simile, anche se l’esame (a cui si ha diritto solo dopo molti anni di soggiorno) viene esteso alla storia nazionale; una materia di cui sono ignari gli stessi americani, e non vedo allora perché un portoricano debba conoscere vita morte e miracoli di Abramo Lincoln, quando, per un agricoltore Wyoming, il presidente assassinato resta un perfetto Carneade.
Ma se non sono più il suolo o la biografia nazionale, la bandiera, come si diceva un tempo, a costituire in epoca postmoderna gli unici possibili confini per un’identità collettiva, a questo punto estendiamo la verifica anche agli autoctoni. Non conosci il congiuntivo? Nessun problema, non voti. Il Parlamento italiano è infatti l’espressione di chi comunica attraverso la lingua italiana; se un senegalese parla l’italiano meglio di me, mi sembra giusto che abbia maggior diritto di rappresentazione. Lo specchio della lingua dice che è lui, e non io, il più italiano del reame.
Per concludere, aveva davvero ragione un altro filosofo poliglotta, Ludwig Wittgenstein, quando affermava: the borders of my language are the borders of my world. Al limite, poi facciamo un bel referendum per decidere se il sedere vada inteso come buco del culo oppure fabbrica del cacao…

sabato 20 aprile 2019

Troppe puttane, troppo canottaggio, o sulle parole e l'esperienza

Leggo, sulla bacheca di un mio contatto Facebook, una frase che si conclude con la firma di Emil Cioran, un autore che sta al sistema culturale come l’aquilotto di Armani alla moda. Una vera e propria griffe, ormai. Qui il corrucciato pensatore rumeno dichiara di "vagare attraverso i giorni come una puttana in un mondo senza marciapiedi".
La pratica è diffusa e il piacere sottile. Rilanciare sul web, opplà, basta un colpetto di mouse, le cover di maggior successo. Un piacere da disc jockey; e ciò vale non solo per la musica ma per ogni altra forma di riciclo, tra cui il più diffuso è certamente la cultura.
Ritrovo così, a stretto giro, anche la parrucca di Diderot, sotto la cui coltre spumeggiante faceva tanta un’intelligenza per antonomasia, da cui parole come le seguenti: “i pensieri sono le mie puttane”.
Puttane, ancora puttane. La citazione è ricavata da un altro social network e tecnicamente un ossimoro; ma, in pratica, è ancora la poetica del dj. Ossia il postmoderno in azione.
Nel flipper della mia mente la pallina però non si ferma qui, rimbalza, trova paralleli e accende lucine. I libri e il web sono infatti pieni di riferimenti alla prostituzione, vista, in alcune circostanze, come paragone, in altri metafora, correlativo oggettivo e in ogni caso quale sigillo arguto di chi scrive, che probabilmente a questo modo vuol comunicare confidenza con la cosiddetta vita vera. Come a dire guarda come sono anticonformista, snob, fuori dal coro. Basta parlare di puttane.
Un'esuberanza verbale, un ironico appello a ciò che Lou Reed cantava come lato selvaggio della vita (take a walk on the wild side), che mi porta a chiedermi se dietro le parole vi sia ancora esperienza…
Intendo. Il gusto, la consistenza, lo sfilacciarsi al tatto dello sperma, per arrestarsi sulle pareti della trachea al termine di un pompino, generando quei colpetti di tosse con cui gli ipocondriaci reclamano attenzione (lo vede, dottore, che sono malato!).
Tutto ciò, Diderot, Cioran, i miei amici sul web, l'avranno mai provato? E più in generale, è ancora necessario fare pratica delle cose per scriverne, come raccomandava Hemingway: "scrivi solo di ciò che conosci!"
Se dunque a qualcuno fosse sfuggito, è questo che fa una puttana: scopa, succhia, si fa inculare. In tal caso è il dilatarsi lento dei muscoli che compongono l’anello anale; all’inizio è doloroso, ma, dopo un po’, è in fondo un lavoro come un altro – il più vecchio del mondo, viene detto.
Nell’insopportabile trionfo di retorica maudit, per cui sempre e comunque bisogna épater le bourgeois – da questo punto di vista, negli ultimi tre secoli non è cambiato molto –, l'unico che mi appare sincero è al solito Balzac. Che così riassumeva i suoi giorni nella lettera a un amico: "troppe puttane, troppo canottaggio".

martedì 16 aprile 2019

Notre-Dame, o sul dolore e il suo limite


Sono a casa. Sono a letto e nonostante l'orario, per la precisione. Mentre mi rincantuccio sotto le coperte e guardo una macchia scura sul soffitto, dalla cucina, dove mia madre tiene la radio perennemente accesa, il volume proporzionato al degradare senile dell’udito, arrivano gli aggiornamenti sull'incendio della cattedrale di Notre-Dame.
Adesso è il momento delle interviste. Esperti, gente comune, tuttologi. Percepisco una grande afflizione nelle parole che ascolto, un dolore che mi sembra sincero. Cerco, a quel punto, lo stesso dolore nella mia pancia, trovando solo qualche sporadico gorgoglio; immagino un riflesso psicosomatico, ma temo sia solo perché non ho ancora fatto colazione.
Mi viene in mente un articolo di psicologia, letto su un vecchio inserto culturale stropicciato. Il dolore umano, stava scritto, è come una bottiglia, una grossa bottiglia di vetro in cui riversare tutte le nostre afflizioni. Ma oltre una certa misura non entra più nulla, strabocca, finisce in terra per esubero. Esiste forse il "plusamore" (l'espressione, geniale, appartiene a Giorgio Gaber), ma non il plusdolore. Mente e corpo si difendono da un eccesso di sofferenza.
Al contrario, quando si sta molto bene la natura umana ricerca un poco di tormento – non tanto, giusto quel cicinino per portarsi a livello, in una sorta di aristotelismo emotivo che contradistingue la nostra specie, sempre alla ricerca del giusto mezzo. Più che una bottiglia, ricordiamo in effetti l'olio del motore di un'automobile. Come va il dolore? E il meccanico, dopo aver controllato l'asticella bisunta: Tutto ok, c'è abbastanza dolore per altri ventimila chilometri!
Evidentemente, io devo aver accumulato già troppo dolore, sono ingolfato, avrei bisogno di uno spurgo. Sarà forse la mia depressione cronica, l'allergia ai pollini (nocciolo e betulla), rogne di salute, soldi, cazzi vari, ma di Notre-Dame davvero non riesce a importarmi. Non più della macchia sul soffitto e di una minuscola ragnatela accanto.
Potremmo rubricare il tutto come l'ennesimo post ombelicale, in fondo qui siamo nel luogo giusto. Eppure non credo sia solamente questo. Esiste infatti anche un risvolto comune, addirittura politico, civile, in gioco non è solo la mia rozza insensibilità, per la quale non reclamo scusanti.
Intendo: se la macchina umana funziona a questo modo, una società giusta e solidale potrà darsi solo tra persone mediamente soddisfatte, in cui empatia e piacere si riflettono come nel nuoto sincronizzato, rendendo il mondo simile a un musical di Esther Williams.
Gli americani hanno allora visto giusto, quando hanno inserito la felicità tra i diritti costituzionali. Ma quando la tua bottiglia di dolore è colma, la spia impallata sul rosso, la mente altrove, anche la più verticale delle spinte dell'ingegno umano finisce per essere vista per ciò che ora è: una vecchia stamberga bruciacchiata, ossia davvero poca cosa.

lunedì 8 aprile 2019

La prima fetta di torta, o su come i sogni si trasformano in incubi

Il libro con cui ho iniziato a leggere è stato l’autobiografia di Sandro Mazzola, seguito a ruota da Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway. Ma Hemingway non sarebbe probabilmente arrivato senza Mazzola, è lo zolfanello che ha acceso il fuoco, anche se il valore di quelle pagine mi sembra ora cenere. Ed è forse giusto così. 
Si intitolava La prima fetta di torta e aveva una copertina verde con un pallone di cuoio grezzo in primo piano; sullo sfondo i pali della porta, al cui interno, con le giubbe delle squadre di diversi club, alcune figure umane appena sbozzate, tra cui si riconosceva lo stesso Mazzola.
Era un uomo affabile, di solito le persone affabili sono un po' rotondette, mentre lui era secco secco ma dalle gambe lunghe e potenti, con cui riusciva a liberarsi dalle marcature a uomo dell'epoca, terzini alla Burgnich (nomen omen) che ti seguono anche negli spogliatoi.
 
Non certo a livello del suo rivale di sempre, Gianni Rivera, detto l'Abatino, e però Mazzola sapeva essere anche tecnico, come l'educazione tecnica che studiavo in quei giorni a scuola, un accostamento che non mi tornava mica tanto. Ma era quanto sentivo ripetere da mio padre e mio zio, e io prendevo per buone le loro parole. Anche perché ciò che davvero mi interessava non erano le spigolature, nemmeno in fondo i risultati, e piuttosto sentirmi parte di una formidabile macchina emotiva, ed era questo il calcio quando Vallanzasca ancora svaligiava le banche e la Fiat presentava (giustamente orgogliosa) la 128 Rally.
In fondo, in quei giorni, quasi tutto era calcio, o come pronunciavano i più forbiti football. Giocare a football nei prati dopo aver studiato le parentesi graffe, con i maglioncini avvoltolati al posto dei pali della porta, di cui il portiere riduceva la distanza con distratta nonchalance. Ma se un contadino infuriato o la neve impedivano quelle partitelle, era sufficiente la sciarpa nero e blu, blu e non azzurra, che cavolo quelli sono Napoli e Lazio, della tua squadra del cuore. In tasca le figurine, sempre di football.
Anastasi era introvabile, però se spuntava dal pacchetto giusto, scoprire che era il ritratto sputato di Lando Fiorini, o meglio la sua caricatura eseguita a carboncino sotto ai portici di Piazza Duomo. E poi parlare e dissentire e accapigliarsi sugli errori arbitrali, ma più tardi, al Bar Piero, non presentandosi (sono malato) se l’Inter perdeva il derby, per non ricevere gli sfottò.
Ripensandoci, mi chiedo come mai, adesso, è una delle cose che più detesto. Ti piace il calcio? No, mi fa schifo! Una sensazione quasi fisica, che avverto ogni volta che lo zapping televisivo mi precipita in una trasmissione sportiva, Abatantuono si liscia il pelo e Mughini dice abooorro…
La risposta provvisoria che mi do è che, tra la metà degli anni ottanta e i primi novanta, deve essere accaduto qualcosa. Volendo essere ancora più precisi, identificherei quel momento con l’apparizione pubblica di Bobo Vieri, la stagione calcistica è quella del 1991-92; vestiva allora la stessa maglia amaranto del padre di Mazzola, doveva essere ben piegata in valigia quando l'aereo incocciò la collina di Superga.
Con Bobo Vieri diventano tollerabili, anzi legittimi, anzi virtuosi i comportamenti più plateali e smargiassi. Seguirono i tatuaggi sfoggiati dai calciatori tutti, capelli tagliati alla moicana, fisici scolpiti in palestra, per arrivare a quell’epitome del calcio moderno che è Mario Balotelli. A quel punto, della torta di Mazzola erano rimaste solo le briciole.
Al suo posto una nuova pasticceria, in cui il calcio, che aveva riflesso gli umori popolari più diffusi e anche bassi, si trasforma in una sorta di specchio specchio delle mie brame, con cui cercare conferma su chi sia il più bello del reame.
I calciatori smettono così di essere dei nostri doppi, certo con più talento, estro, ma nella sostanza omologhi alla carne di cui siamo fatti, per impersonare ciò che vorremmo essere: ricchi, fichi, naturalmente ignoranti ("che la cultura, oggigiorno, non ci paghi nemmeno il biglietto di ingresso al Billionaire, con la cultura”), ma soprattutto grandi scopatori di veline.
Tutto il contrario di quel che era Sandro Mazzola, ma anche il vecchio Santiago, nel romanzo di Hemingway insegue qualcosa fino a dove finisce il mare. Un enorme marlin, sta scritto. O forse un sogno, un’ideale, un cazzo di cosa qualsiasi, purché non somigli a Bobo Vieri.

sabato 6 aprile 2019

Il fascista e lo statistico, un dialogo possibile



Non è vero che il quindicenne di Torre Maura si è opposto agli “energumeni” di Casapound. Rivediamo il filmato, rivediamolo bene e magari in slow motion. Così facendo, ci accorgeremmo che gli energumeni, nella circostanza almeno, si sono mostrati assai più dialettici e colloquiali di un congresso del PD, per dirne una.
Ma il senso profondo dell'episodio a me sembra un altro ancora. Il ragazzo, che non si è opposto, repetita iuvant, agli energumeni di Casapound, non l'ha fatto per una ragione molto semplice: ne condivide l'assunto fondamentale, anche se in forma forse implicita. 
Un assunto che, a ben vedere, riguarda tutti noi, o almeno chi è intellettualmente onesto con sé stesso. Si tratta infatti di una richiesta elementare di giustizia e legalità, diffusa con particolare urgenza nelle periferie più degradate. Dovremmo dunque precipitarci in massa a sottoscrivere la tessera di Casapound?
Non proprio. E ciò vale anche per il giovane, che pur condividendo le premesse (etiche, civili) delle persone lì radunate, si dissocia dalle conclusioni. Domande giuste, ha probabilmente intuito, possono talvolta condurre a risposte sbagliate. Anche molto sbagliate, come nella manifestazione promossa dal movimento neofascista per opporsi al trasferimento di settanta Rom nel quartiere romano di Torre Maura. Settanta: non settecento, non settemila. E per lui i numeri sono importanti.
Prova a questo punto a spiegare le ragioni dell’errore. Lo fa con strumenti linguistici semplici, certo, commisurati alla sua età, ma non semplificati. L'essenza del suo ragionamento è il calcolo statistico. 
Non contesta l'illegalità dei comportamenti di alcune persone che appartengono alla comunità Rom. Pur senza affermarlo espressamente, assume che la frequenza di tali atti (l'incidenza statistica, appunto) possa essere superiore a quella di simili azioni compiute da norvegesi, olandesi e, perché no, italiani. Per quanto le persone che non rubano, di qualsiasi etnia, colore della pelle o altro, saranno sempre più di quelle che rubano. Questo cacciamocelo bene in testa!
Ma diciamo anche chiaramente – è verosimile, anzi provato – che in alcuni gruppi la percentuale di illegalità è maggiore che in altri, e non sempre ciò è legato alle condizioni economiche o sociali. Ad esempio, i dati carcerari ci dicono che la comunità senegalese crea molti meno problemi di ordine pubblico di quella nigeriana. È un fatto. Come è un fatto, studiato, mappato da sociologi e forze dell'ordine, che nelle popolazioni nomadi provenienti dall'India del nord la disposizione al furto sia piuttosto alta. 
Ah, lo vedi, allora, che ha ragione Casapound!
Alt. Pausa. Ragionamento. E’ infatti qui che appare l'inaspettata competenza statistica del quindicenne. Ok, ammettiamo pure, e noi l'abbiamo ammesso, che tra gli zingari (il termine non è offensivo, discende dalla casta indiana degli intoccabili) i furti vengano compiuti con una frequenza superiore agli italiani. Poniamo il doppio, anzi il triplo, esageriamo e ipotizziamo quattro volte tanto, e poi cerchiamo di capire cosa ciò comporterebbe.
Dovremo anche qui partire da una base statistica numerabile, chiedendoci: quanti sono gli italiani? Sessanta milioni, ricorda il ragazzino con la felpa agli energumeni. E gli zingari? E' impossibile avere un dato certo per popolazioni non stanziali, ma, tra Rom e Sinti, è stata stimata una presenza che oscilla tra 60.000 e 145.000 persone, di cui 45.000 nate e cresciute in Italia. 
Il rapporto, insomma, è di poco superiore a uno a cento. Se anche gli zingari rubassero in misura quadruplice ai nostri concittadini, sul computo totale dei furti andrebbero dunque a incidere in una misura compresa tra il 4 e il 10%; ossia del tutto irrilevante ai fini di ciò che Casapound dichiara di perseguire: portare giustizia e legalità nel Paese, e in specie in quelle periferie dove più difettano. Senza contare che i reati si puniscono dopo, non prima e sparando a casaccio nel gruppo.
Di questo e solo di questo ci parla il quindicenne protagonista del video che sta rimbalzando tra tablet e pc, facendo tappa sui nostri smartpone. Che poi i popoli nomadi siano anche liberi e vitali, non abbiano mai dichiarato guerra a nessuno stato (non avendone e non volendone uno proprio), per non dire delle musiche meravigliose estorte a chitarre pizzicate con foga, o i racconti epici e stralunati che escono da bocche in cui scintillano i denti d’oro, mentre gonne a fiori frusciano sullo sfondo e occhi nerissimi scrutano le linee incerte di una mano, che poi esista anche questo altro lato della medaglia, il ragazzo non lo nega ma nemmeno lo afferma.
Semplicemente, per la sua vita, sono cose troppo lontane. Quella è roba per chi ha il cuore a sinistra e il portafogli a destra, pensa forse anche lui in sintonia con gli energumeni di Casapound, come si ostinano a chiamarli i giornali. 
Così ha preso la parola solo per dire che, in quell’estremo lembo romano in cui prova a farsi spazio con un pensiero proprio, mai in conto terzi, non vuole che gli freghino lo scooter, né a sua madre il televisore nuovo preso a rate all’Unieuro; è largo e sottile e lei ci guarda i programmi pomeridiani di Rete 4, non Moni Ovadia e i suoi spettacoli su zingari ed ebrei, non gli zingari felici che, un giorno, vide in Piazza Maggiore Claudio Lolli.
Ma, il ragazzino con la felpa nera, il quindicenne che reclama la parola e sa anche tenerla, lo statistico di Torre Maura, ha capito che questo obiettivo non si raggiunge prendendo i piccoli numeri umani a calci nel culo, o spargendo il pane in terra. Perché il pane è fatto per magiare e i numeri per ragionare.


mercoledì 3 aprile 2019

Gnarly

Cosa hanno in comune un barbuto filosofo greco e un surfista californiano con la zazzera?
Molto, direi, se è vero quel che pensava Wittgenstein sul linguaggio, a coincidere per lui con il perimetro del mondo, un mondo sempre e solo in nome proprio ("the borders of my language are the borders of my world").
Ho scoperto la strana coincidenza ieri, assieme a una parola di inconfondibile provenienza americana, di più, slang, quello della West Coast con cui pronunciare narly, anche se si scrive gnarly e significa stupore, eccitazione, fascino, mescolato a un vago ma tenace senso di paura.
A provarla è come anticipato il surfista, di fronte l'oceano Pacifico e un'onda particolarmente maestosa. Sarebbe bello montarci sopra, pensa, sarebbe cool cavalcarla in equilibrio sulla sua tavola in schiuma di poliuretano, il culo a sbalzo su cui è disegnato l'arcobaleno delle braghette Sundek.
Ma, accompagnato a questo pensiero, cresce di pari passo il timore di essere precipitati fuori, inghiottiti dalla risacca spumeggiante, magari non riemergere più...
Mentre la pelle si arriccia in piccoli pallini, viene così alla bocca uno squittio che ricorda il ruminare del chewing gum, gnarly, gnarly, gnarly, possiamo immaginarlo servito sulla lettiera acustica di una canzone dei Beach Boys.
Eppure, ben prima della band californiana, nella penisola greca, di fronte onde ugualmente minacciose, esisteva un termine che restituiva un sentimento simile. Thauma.
Per Aristotele, la filosofia occidentale nasce da quella concentrazione legnosa e austera di suono, in cui meraviglia e spavento sono inseparabili come Castore da Polluce. Nasce e cresce nel tentativo di sbarazzarsene. 
Dobbiamo allora concludere, e qualcuno lo suggerisce, che la cultura americana rappresenta il più alto inveramento della tradizione classica?
Sì e no, mi verrebbe da rispondere.
Perché se è vero che il solo possesso della parola, thauma, fa del più umile contadino greco un potenziale filosofo – l'uomo che fissa stupefatto il mistero del fulmine, per comprendere ma anche difendersi, farla franca –, nella sua tardiva torsione nominale ha una funzione puramente ludica e operativa.
What I gonna do, si chiedono infatti i moderni epigoni di Socrate. Mi butto tra le onde, rischio, oppure resto sulla spiaggia a spalmare l'abbronzante a qualche nuova pollastrella... Oh, gnarly!
La storia, insomma, si ripete, ma ogni volta con sfasature e varianti. In questo caso e come suggeriva Marx, da tragedia divenendo farsa.