Cosa
distingue un’opera d’arte, intesa come semplice gesto tecnico, anche pregevole,
da un capolavoro universalmente riconosciuto e acclamato?
Una
domanda che mi sono posto dopo aver rivisto due film che amo: La dolce
vita, ovviamente di Fellini, e La tenerezza di Gianni
Amelio. Devo confessare che il primo, a una revisione più attenta e
disincantata, mi è apparso possedere alcune pecche, in particolare in
sceneggiatura. Dialoghi un po’ tirati per le lunghe, struttura sfilacciata e un
certo didascalismo di fondo, forse per far comprendere le intenzioni
dell’autore – certamente critiche, morali se non proprio moralistiche – anche
agli spettatori dell’ultima fila. Quelli che ne approfittavano per fumarsi una
MS (nel 1960 si fumava ancora nelle sale cinematografiche) e palpeggiare la
compagna a cui avevano pagato il biglietto, e ora si prendevano la controparte
con gli interessi.
Nonostante
ciò il film fu ugualmente frainteso, specie nella sua ricezione estera, cogliendo un sentimento languido e indulgente verso uno stile di
vita che venne immediatamente bollato come italiano, in cui il piacere dei
sensi si impone sugli argini in cui la legge vorrebbe contenerlo, da lì in poi
associato al titolo della pellicola, dolce vita, sweet life.
Una
sovrapposizione impropria, come già notato, eppure allo stesso tempo legittimata
dalla dimensione puramente visuale, come si dice
dal suo significante. Concentrato nella celebre sequenza in cui
Anita Ekberg si immerge
nella fontana di Trevi, immediatamente seguita da Mastroianni (Marcello,
Marcello, come here…) che così commenta: “Massì, ha ragione lei, sto sbagliando
tutto. Stiamo sbagliando tutti.”
Questo
errore, errore di insipienza e superficialità e cinismo che si era affermato
negli anni del boom economico, quando un’ingordigia rapace prese a circolare
tanto negli affari quanto nelle relazioni personali, viene qui come ribaltato
di segno, celebrato. E ciò nonostante tutte le buone intenzioni del regista e
in particolare dei suoi sceneggiatori, in particolare di Ennio Flaiano, il cui
sguardo sulla decadenza civile è sempre stato attento e feroce.
Un
capolavoro, la provvisoria risposta che mi do, è dunque un lavoro che
si pone a capo, anzi una spanna sopra il capo, oltre la razionalità
interpretativa. Dove la dimensione del simbolico trascende gli stessi propositi
dell’opera, intercettando un sentimento diffuso che però fino a quel momento
mancava di un emblema. Ecco, un capolavoro è quell’emblema, araldica manifesta
di qualcosa che fino a un instante prima scorreva sottotraccia, oppure era
nell’aria come la nebbia in cui in un altro film di Fellini il nonno si
smarrisce. Domandandosi: “Dove è che sono, mi sembra di non stare in nessun
posto? Mo se la morte è così, non è un bel lavoro…”
Ma
veniamo ora al film di Gianni Amelio. Più lo rivedo e più mi sembra perfetto:
lo sono il soggetto, i dialoghi, la fotografia, la musica. Per non parlare
degli interpreti – qui Renato Carpentieri è davvero in stato di grazia, ma non
gli sono da meno Micaela Ramazzotti ed Elio Germano –, e dello sviluppo
drammaturgico con la scelta, anche temporale, dei colpi di scena e della
risoluzione finale. Un capolavoro dunque?
Eh
no, purtroppo. Non perché non sia bello, intendiamoci. Io continuo infatti a
preferirlo a La dolce vita. Ma gli spettatori, quei pochi almeno
che si sono accostati alla pellicola, non avevano probabilmente interesse verso
la medaglia simbolica che Amelio gli stava offrendo. Il tema è sempre quello
caro al regista: figli che cercano padri, padri che cercano figli o, come in
questo caso, proprio non ne vogliono sapere di assumere un magistero morale,
ed è tutto uno sfuggirsi a vicenda. Ma in ultimo i legami familiari, quando
scelti e non più subiti, tornano a ricomporsi, e da catena che imprigiona si
trasformano in una panchina su cui sedersi fianco a fianco. Non di fronte come
fanno gli amanti e i contendenti.
Tutte
sfumature dell’anima che, nonostante se ne continui a parlare sui giornali e
in televisione, con telepsicanalisti ad arringare il pubblico in abiti da
beccamorto, scivolano probabilmente sulla retina senza piantare una bandierina,
come seppero invece fare le forme procaci della Ekberg lambite dall’acqua fresca
che zampilla dai marmi orchestrati da Nicola Salvi e poi Giuseppe Pannini.
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