sabato 16 maggio 2020

Opera d’arte o capolavoro?


Cosa distingue un’opera d’arte, intesa come semplice gesto tecnico, anche pregevole, da un capolavoro universalmente riconosciuto e acclamato?
Una domanda che mi sono posto dopo aver rivisto due film che amo: La dolce vita, ovviamente di Fellini, e La tenerezza di Gianni Amelio. Devo confessare che il primo, a una revisione più attenta e disincantata, mi è apparso possedere alcune pecche, in particolare in sceneggiatura. Dialoghi un po’ tirati per le lunghe, struttura sfilacciata e un certo didascalismo di fondo, forse per far comprendere le intenzioni dell’autore – certamente critiche, morali se non proprio moralistiche – anche agli spettatori dell’ultima fila. Quelli che ne approfittavano per fumarsi una MS (nel 1960 si fumava ancora nelle sale cinematografiche) e palpeggiare la compagna a cui avevano pagato il biglietto, e ora si prendevano la controparte con gli interessi.
Nonostante ciò il film fu ugualmente frainteso, specie nella sua ricezione estera, cogliendo un sentimento languido e indulgente verso uno stile di vita che venne immediatamente bollato come italiano, in cui il piacere dei sensi si impone sugli argini in cui la legge vorrebbe contenerlo, da lì in poi associato al titolo della pellicola, dolce vita, sweet life. 
Una sovrapposizione impropria, come già notato, eppure allo stesso tempo legittimata dalla dimensione puramente visuale, come si dice dal suo significante. Concentrato nella celebre sequenza in cui Anita Ekberg si immerge nella fontana di Trevi, immediatamente seguita da Mastroianni (Marcello, Marcello, come here…) che così commenta: “Massì, ha ragione lei, sto sbagliando tutto. Stiamo sbagliando tutti.” 
Questo errore, errore di insipienza e superficialità e cinismo che si era affermato negli anni del boom economico, quando un’ingordigia rapace prese a circolare tanto negli affari quanto nelle relazioni personali, viene qui come ribaltato di segno, celebrato. E ciò nonostante tutte le buone intenzioni del regista e in particolare dei suoi sceneggiatori, in particolare di Ennio Flaiano, il cui sguardo sulla decadenza civile è sempre stato attento e feroce.
Un capolavoro, la provvisoria risposta che mi do, è dunque un lavoro che si pone a capo, anzi una spanna sopra il capo, oltre la razionalità interpretativa. Dove la dimensione del simbolico trascende gli stessi propositi dell’opera, intercettando un sentimento diffuso che però fino a quel momento mancava di un emblema. Ecco, un capolavoro è quell’emblema, araldica manifesta di qualcosa che fino a un instante prima scorreva sottotraccia, oppure era nell’aria come la nebbia in cui in un altro film di Fellini il nonno si smarrisce. Domandandosi: “Dove è che sono, mi sembra di non stare in nessun posto? Mo se la morte è così, non è un bel lavoro…”
Ma veniamo ora al film di Gianni Amelio. Più lo rivedo e più mi sembra perfetto: lo sono il soggetto, i dialoghi, la fotografia, la musica. Per non parlare degli interpreti – qui Renato Carpentieri è davvero in stato di grazia, ma non gli sono da meno Micaela Ramazzotti ed Elio Germano –, e dello sviluppo drammaturgico con la scelta, anche temporale, dei colpi di scena e della risoluzione finale. Un capolavoro dunque?
Eh no, purtroppo. Non perché non sia bello, intendiamoci. Io continuo infatti a preferirlo a La dolce vita. Ma gli spettatori, quei pochi almeno che si sono accostati alla pellicola, non avevano probabilmente interesse verso la medaglia simbolica che Amelio gli stava offrendo. Il tema è sempre quello caro al regista: figli che cercano padri, padri che cercano figli o, come in questo caso, proprio non ne vogliono sapere di assumere un magistero morale, ed è tutto uno sfuggirsi a vicenda. Ma in ultimo i legami familiari, quando scelti e non più subiti, tornano a ricomporsi, e da catena che imprigiona si trasformano in una panchina su cui sedersi fianco a fianco. Non di fronte come fanno gli amanti e i contendenti.
Tutte sfumature dell’anima che, nonostante se ne continui a parlare sui giornali e in televisione, con telepsicanalisti ad arringare il pubblico in abiti da beccamorto, scivolano probabilmente sulla retina senza piantare una bandierina, come seppero invece fare le forme procaci della Ekberg lambite dall’acqua fresca che zampilla dai marmi orchestrati da Nicola Salvi e poi Giuseppe Pannini.

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