venerdì 30 giugno 2017

Occidentali’s Karma



Da alcuni anni si sta diffondendo l'abitudine di curare i propri acciacchi con terapie cosiddette naturali. Erbe miracolose, intrugli senza alcuna etichetta sulla confezione, manipolazioni corporee. Ma anche pietre tonde tonde e cristalli aguzzi, campane tibetane, rituali collettivi, impulsi di guarigione insufflati tramite non meglio definite "energie". Un insieme composito e non di rado eccentrico di pratiche che, in comune, hanno spesso solo il prefisso bio (bio-qualchecosa, c'è sempre un bio di mezzo).
Non facendomi mancare nulla, anche a me capita di rivolgermi di tanto in tanto a terapeuti naturali, con risultati alterni. Non mi sento insomma di criticare o celebrare il fenomeno nel suo insieme, per quanto un dato generale mi pare di averlo colto.
Fateci caso: lo studio dei naturopati, o la loro abitazione, luoghi che spesso coincidono, non contengono quasi mai una libreria in cui facciano capolino dei testi narrativi. Puoi trovarci un prontuario di erboristeria, le memorie di Yogananda, qualche volume, perlopiù edito da Mediterrannee, sui chakra e le religioni orientali, ma in genere è finita lì. Anche a cercar bene, romanzi non ne trovereste, neppure un Baricchetto o un Pennac nei tascabili Feltrinelli.
Diversamente, i medici tradizionali non di rado espongono opere di narrativa nei luoghi in cui ricevono i pazienti – un libraio mi ha rivelato che un dentista gli commissionava i libri al metro: "Mi procuri un metro e mezzo di Adelphi, che ho un angolo da riempire..."
Un aneddoto gustoso che discende un velo di sospetto sulla lettura dei romanzi, allo stesso modo dei cataloghi artistici Electa e i Meridiani Mondadori, pure esibiti negli studi medici sempre intonsi. In ogni caso una presenza che, per quanto ornamentale, è come se contenesse il seguente sotto testo: "io sono un medico, e in quanto medico ti mostro il mio vincolo di discendenza dalla tradizione occidentale, che oltre alla scienza medica include la grande arte figurativa e romanzesca."
Forme di conoscenza ed espressione, perlopiù simboliche, molto diverse dalla brusca esattezza della ricerca scientifica, ma che con questa condividono una consapevolezza profonda della complessità dell'uomo, oltre che dei fenomeni naturali e sociali. Ed è ciò che intendono comunicarci i medici con la parata dei dorsi libreschi allineati, come tanti soldatini sull’attenti al passaggio del colonnello in rivista.
C'è dunque una relazione di continuità tra saperi differenti che, al contrario, i naturopati non sentono il bisogno di esibire, e per la mia limitata esperienza sembra che neppure assumano come propria. Non leggono romanzi, insomma, così come non coltivano interessi artistici, filosofici, culturali. Considerando probabilmente quei saperi corrotti rispetto alla Vera Sapienza che bisbiglia da un manualetto New Age di poche pagine, e la complessità viene vissuta come complicazione, "seghe mentali" da irridere o biasimare.
Senza voler giudicare, come già detto, i singoli casi anche virtuosi, a me sembra che il fenomeno meriterebbe qualche riflessione, da estendere alle pratiche misteriose a cui ci consegniamo con slancio vagamente superstizioso, sotto la comune ipoteca della semplicità che guarisce, la semplicità che non vuole ombre e dubbi.
Da qui la subentrata convinzione che la complessità del mondo, quindi del corpo umano che ne fa parte e forse riflette, possa essere accostata senza l'ausilio pensieri ugualmente complessi e alti, no, solo un prontuario di pensierini da Baci Perugina, e qualche incenso buttato qua e là a far pendant con una lagna monodica che sgorga dalle casse dello stereo. E che dunque Dante, Shakespeare, Rabelais, ormai siano solo una zavorra polverosa, di cui i naturopati si sono già liberati da un pezzo.

sabato 24 giugno 2017

L’anima gemella: e se fosse rimasta chiusa fuori…?



Gli amori, come le amicizie e le fragole, germogliano sempre da un terreno, che può essere comune in due sensi diversi, se non addirittura opposti.
Il terreno dell'identificazione, in cui ci si riconosce parte del medesimo campo arato dagli interessi, le passioni condivise e che possiamo visualizzarci con l'immagine di due persone che si trovino sedute accanto a un concerto di Jovanotti. In attesa dell’inizio, cominciano a conversare: “Maddai, anche tu, anche io ci vado matto… Pensa, mi sono fatto pure il tatuaggio!”
Di contro, come l’antimateria che i fisici ipotizzano ma nessuno l'ha mai vista né toccata, c’è un terreno che non ha luogo, è privo di fertilizzante sociale e potremmo associare a una fotografia in cui qualcuno è sfuggito all'inquadratura, se ne intravede solo un braccio o una gamba. 
Un fuori campo da cui non abbiamo alcuna informazione, uno strappo, come quello dei proscritti che si trovano a condividere non una patria ma il suo doppio fantasmatico, nella forma dell'esilio. E sono due persone che, a quel punto, hanno in comune solo la vita, nuda com'è sempre quando non c’è nessuna divisa a rivestirla.
Con linguaggio preso a prestito dal lessico della psicologia, io chiamerei questo secondo caso individuazione, non essendoci altro che il loro essere unici e indivisi, ossia l'intima soggettività (il mondo è fuori dal cerchio dell'incontro) con cui entrare in relazione, e da lì produrre un reciproco riconoscimento; sempre che ciò avvenga, e non avviene spesso.
Un caso emblematico, nella grande arte cinematografica, è quello di Gelsomina ne La strada di Fellini. Quando le suore, nel convento in cui si è rifugiata, le chiedono perché si ostini a seguire quell'energumeno di Zampanò, lei risponde: "Ma se non mi prendo cura io di lui, nessun altra lo farà..." 
Individuazione è dunque anche il riconoscimento dei limiti e dei difetti dell'altro, che comunque rendono quella persona ciò che è, più che amabile o seducente.
Per esperienza, mi sembra che i legami "individuati" – quelli tra chi non ha trovato posto al concerto, è inutile cercare il loro volto nelle fotografie di gruppo – anche se a volte possono apparire un po' tiepidi o masochistici, come nel caso di Gelsomina, una drop out ante litteram, sono molto più solidi e duraturi.
Semplice complicità tra il mendicante e il suo cagnetto, ribatterebbero, con una metafora spietata, i cinici e i romantici, che non di rado coincidono. Spirito di adattamento tra chi non abbonda certo in occasioni erotiche, facendo di necessità virtù. E anche questo non è del tutto sbagliato, almeno all'inizio. Io però credo che poi subentri altro.
Oltre a Fellini, ci può forse venire in aiuto Tolstoj, con la sua intuizione che tutte le famiglie felici si somigliano, mentre le famiglie infelici lo sono con una forma propria, esclusiva come le persone che le compongono.
Ma amore e amicizia si rinsaldano non in un generico perimetro di famiglia, familiarità, e piuttosto nel riconoscimento di una singolarità umana, un tu (non un altro, proprio tu) che per questa sua traccia esclusiva non è soggetto a generalizzazione, tanto meno a reversibilità come in quel vecchio spot del detersivo Dash, in cui un cliente si rifiuta di scambiarlo con due anonimi fustini.
Sarà forse tale costatazione che, in largo anticipo su Carosello, faceva ammonire San Paolo: Gli amici vanno sopportati, prima ancora che amati. E gli amanti si amano proprio perché c'è amicizia e sopportazione (traduzione molto libera).
Diversamente, nei legami per identificazione, abbiamo il ricorso alla mediazione dello stereotipo, o più precisamente a un processo di tipizzazione (mi piace quel tipo di uomo, quel tipo di donna o di amico, magari appartengono al nostro stesso club), che coincide con una rappresentazione idealizzata dell'altro. 
Per questo, il più delle volte, l'amore contiene una mediazione pubblica nella forma di un mito spettacolare e letterario, come quello che seduce la signora Bovary. O, per tornare al vocabolario psicologico, è presente lo zampino di ciò che in psicanalisi viene detto sublimazione; un termine un po' saputello che altro non vuol dire che mistificazione, abbellimento lezioso.
Più che un tu che incontra un io, abbiamo insomma un noi: noi che facciamo e amiamo certe cose, noi che ci identifichiamo per gusti e comportamento e siamo le famiglie felici di Tolstoj; almeno prima di scoprire che il racconto era invece Casa di Bambola di Ibsen, e tutta quella felicità aveva fondamento sulle macerie dell'equivoco. 
Ma come potevamo saperlo, prevederlo, quando eravamo ancora a quel concerto di Jovanotti? In fondo c’erano migliaia di persone, troppe forse, troppi noi per occupare un unico cuore...
Un riconoscimento esclusivo che i felici, gli integrati, quelli che fanno branco e non sanno intonare una melodia disperata con la tromba, o spaccare le catene con il petto come Zampanò, non potranno mai sperimentare.