martedì 22 febbraio 2022

Un giudice, o sui sogni e la carne



Molti anni fa, ritornando in automobile da Milano, deviai dalla strada principale (la Statale 36 anche detta Valassina) all’uscita per Arosio, e da qui continuai lungo la Provinciale 41 verso Erba.

Le prime prostitute che si incontrano stanno di fronte all’autolavaggio che precede un supermercato dell’Eurostar. Quando le famiglie più attardate, poco prima di cena, spalancano il portellone dei SUV e ci caricano i sacchetti della spesa, arrivano le prostitute a offrigli il cambio. Un’ideale staffetta a presidio di luoghi che forse non avranno storia, ma compensano in orizzontale con lo spazio.

Non ho nulla contro le donne di colore, in genere le trovo attraenti, sono i muscoli a incutermi un po' di timore, specie quando si gonfiano dentro a corpi femminili. E le nigeriane spesso lo sono, piene di muscoli senza bisogno di sfiancati sedute in palestra. Superai così quel primo sparuto gruppo di nigeriane e misi un cd su cui avevo scaricato la colonna sonora di Drive.

Leggo che la musica è stata composta da un disk jockey francese che si fa chiamare Kavinskyma non ho mai approfondito. Semplicemente, mi sembrava lo sfondo sonoro perfetto per ciò a cui mi stavo apprestando: la ricerca, anzi, la caccia di una femmina da contendersi con altri automobilisti che possono soffiarti la preda prescelta all’ultimo momento, costringendoti a estenuanti avanti-indietro prima che ritorni alla sua casella del Monopoli, in cui il contromondo notturno si spartisce le strade.

Ed è qui che Kavinsky si rivela insuperabile: converte il tempo profano dell’attesa in tempo sacro, e l'apparire della gonnellina rossa di una ragazza infreddolita in epifania. Una volta, in preda a questi lambiccamenti, provai a farmi fare un pompino ascoltando a palla i Canti Orfici di Dino Campana nella versione di Carmelo Bene, ma non funzionò e tutto divenne comico. Tornai così alle tracce percussive ed elettrificate di Kavinsky, che iniziano con il suono di un gettone che casca dentro un vecchio telefono e un lupo ulula in lontananza. Pagare per diventare lupi, una metafora più esatta della prostituzione non si potrebbe trovare.

E comunque eccomi qui, più giovane, più eccitato, forse anche un poco ubriaco (prima di andare con una prostituta è buona abitudine bere una o due Ceres, aiuta a sciogliere l’imbarazzo; mai tre, se no non funziona), eccomi arrivato a Lurago d’Erba, dove ci sono alcune buone zone di caccia.

In una parcheggia una prostituta greca, è di Atene proprio, una concittadina di Pericle e Platone, è questo che forse mi attrae; o magari il fatto che dopo parliamo sempre. Del lavoro, in Grecia, mi dice, non si trova lavoro dopo la crisi per il debito sovrano, e così ho preso una nave e sono venuta qui; oppure del padre, ho fatto due conti e deve essere mio coetaneo, ha avuto un'emorragia cerebrale ma ora si sta riprendendo, si confonde solo po' con le parole; la sorella invece sta per sposarsi dopo solamente due anni di convivenza, e sottolinea con la voce l’avverbio perché il matrimonio (sembra dire) è una cosa importante. Certo che è importante, annuisco io.

Arrivato al solito spiazzo però non vedo la Fiesta nera di Anna, è questo il suo nome, e così supero la rotonda al termine del paese e raggiungo il cimitero di Lurago, dove all’ingresso intravedo una ragazza non molto alta e rotondetta. È vestita in modo stranamente sobrio (tinte scure e pantaloni di lana, in luogo della minigonna d’ordinanza) e muove le gambe come se le scappasse la pipì, ma probabilmente è solo per riscaldarsi dal freddo.

“Sali le dico”, e alzo il riscaldamento al massimo mentre abbasso l’autoradio. Quindi ci accordiamo sul prezzo, che è quello di sempre: venti euro con la bocca e trenta per tutto quanto, il preservativo è a loro carico; ma se li porti tu, di marca, è più sicuro, poi ci pensano loro a buttarli dopo averli accumulati in un sacchetto che ricorda il paniere del pescatore.

Scelgo la prima opzione, scopare sul sedile del passeggero è un poco scomodo, le prostitute ti invitano a farlo inginocchiandoti sul pianale destinato ai piedi così da non gravargli addosso e sgualcire i vestiti che non tolgono, solo le mutandine, ma è scomodo lo stesso. Rimangono i mesi estivi, in cui si può fare sul cofano dietro a un capannone industriale con le tettoie in Eternit. L’unico problema sono le zanzare.

Al termine mi chiede una sigaretta, non fumo, poi un'altra cosa che non ricordo, e così iniziamo a conversare come faccio con Anna. Non è una cosa frequente – di solito hanno molta fretta, il tempo come si dice è denaro – ma credo che le sue ossa abbiano bisogno di incorporare altro calore, e lascio il motore accesso.

Mi racconta che è di Burrel, Albania centro-settentrionale, ho guardato su Google Maps, ma vive a Tirana da quando si è iscritta all’università, dove si è laureata in Legge è ora sta completando il corso di formazione per diventare magistrato. In Italia viene tutti gli anni, si paga gli studi a questo modo; in due mesi di fronte al cimitero di Lurago guadagna il denaro che gli serve per gli altri dieci, e spera così di realizzare il suo sogno. Usa proprio questa parola, sogno.

Un sogno che a distanza di tanto tempo non ho dubbi essersi trasformato in realtà. Prima di tutto perché mi sembrava alquanto sveglia, e poi perché ha visto ciò che alla maggior parte degli occhi è negato. Ma cosa avrà visto poi? Cazzi. In fondo solo questo. Cazzi grandi, piccoli, medi e anche il mio, che lei avrà saputo riconoscere e catalogare in un ideale almanacco di anatomia vissuta, restituendo alle ansie o alle fole maschili la giusta prospettiva. Alla fine, anche qui tutto è relativo.

E poi cazzi timidi o subito pronti a scattare, così scattanti da finire subito la corsa, altri cazzi invece sono lenti, indolenti, cazzi neri, circoncisi, ricurvi, cazzi che in realtà non c’entrano un cazzo con quello che stiamo dicendo. Se riuscite, dimenticativi dunque la parola cazzo, malgrado l’abbia ripetuta otto volte.

Sono piuttosto le persone che, sempre più stanche, se li portano appresso, le persone e le loro storie: il padre di Anna con le parole che gli muoiono in gola, una figlia in Grecia che tra poco si sposerà, speriamo bene... l'altra in Italia e non ha ancora capito bene che lavoro faccia, a volte si contraddice, racconta storie. Storie come quelle così comuni – lo è tutto ciò che è unico – di chi se ne contende il corpo in lunghi caroselli notturni. La storia di tutti, insomma.

Avere incrociato tante storie, seppure condensate in un dettaglio anatomico, forse non fa di te una persone migliore, ma un magistrato sì. Qualcuno che agisce in nome della Legge, ci mancherebbe, ma ha compreso che questa è niente senza l’ombra dell’eccezione, a conferirle sostanza di verità. Che è come dire umanità, dove l’idea platonica di membro maschile non esiste ma solo infinite e difformi appendici di carne.

Quanto a me, con certe cose ho dato un taglio. Ma continuo ad ascoltare Kavinsky quando guido l’automobile al tramonto, passo davanti a distributori di gpl e ricambio lo sguardo di vecchi cani assonnati, mi emoziono alla maestà architettonica di ipermercati colmi di tutto nel niente padano, i televisori si accendono dentro a villette geometrili, annuso dal finestrino e cerco di scomporre le note olfattive come in un profumo; mi sembra di riconoscere catrame, diossina, albicocca candita, l'odore e il sapore dolciastro della Ceres sorbita a garganella, adesso ne bevo solo mezza bottiglietta per non rischiare la patente. E il cielo a volte mi sembra sul punto di sanguinare.

lunedì 21 febbraio 2022

Stupidi intelligenti e intelligenti stupidi

 


È da alcuni giorni che mi si ripresenta un pensiero. Le persone stupide, quando sbarcano sui social, lo fanno con passo sicuro e per così dire "intelligente", è questo che penso sempre più spesso.

Più che il mondo, è il modo in cui si muovono in esso che in loro si fa piccolo ed elementare  – la stupidità, alla fine, si risolve in una semplificazione di ciò che è intimamente complesso –, ma sui social network può tradursi in vantaggio. Ad esempio nel richiamare l'attenzione con spudorata disinvoltura; una disposizione, altrettanto elementare, che non possiamo liquidare con la settaria albagia di chi si sente superiore alla minima grammatica del vivente, quando perfino in un cucciolo di labrador la carezza è il gesto che dischiude a ogni successivo piacere: essere riconosciuti, udire il dolcissimo suono del proprio nome a cui drizzare le orecchie.

L'immagine pubblica degli stupidi "ordinari", diciamo così, non intende infatti attestarne l'ingegno, ma è la strategia di sopravvivenza di chi cerchi di rendere la propria vita più sopportabile, se non proprio felice – sì, anche postare il selfie ammiccante di una prova costume con cui vedere i tuoi contatti maschili strisciare ai tuoi piedi è un comportamento intelligente, almeno se contribuisce a farti stare bene, giusto un po', poi ti inventerai un nuovo stratagemma per racimolare un centinaio di like.

Al contrario, gli intelligenti, i colti, i complessi, mi sembra che il più delle volte si accostino ai social in modo stupido, e cioè (nella stessa ottica di partita doppia del piacere) creando le condizioni per stare peggio di prima: o perché hanno scritto una cosa bellissima che il mezzo digerisce in quattro o cinque ore al massimo e poi espelle, evacua in forma di repentino oblio, lasciandogli l'amara percezione di essere dei geni incompresi; o perché si autodiminuiscono, si fanno piccini piccini per replicare le strategie vincenti degli stupidi.

Alcuni esempi. Storpiare la lingua in improbabili gramelot, quasi a sottolineare un abbassamento volontario ai gironi plebei; oppure sferzare i mulini a vento di cui, a loro, più vigili del vigile urbano di Rodari, quello che ferma il tram con una mano, non sfugge certo la natura di giganti cattivi (il sistema editoriale corrotto, la scrittura paratattica dei semplici, i fascisti in un'accezione talmente estensiva che di fatto né azzera il significato, mentre ciò che accade in Donbass scivola come gocce di pioggia sul parabrezza, prontamente rimosse dal tergicristalli), ma anche di bambini a cui regrediscono facendo battutine da due soldi per rendersi almeno simpatici, se non proprio memorabili come sentono e forse davvero meritano di essere.

Ed è in fondo un'umana richiesta d'attenzione – la stessa degli stupidi, appunto – che si traveste infine da richiesta tout court: ehi, amici, amici, consigliatemi un libro, ma di quelli intelligenti che leggiamo noi intelligenti, oppure una serie tv che sia naturalmente metatestuale e con mise en abyme degli attanti, cose così, che ottengono l'effetto di farli sentire ancora più tristi e frustrati, come Buster Keaton in un film di Franco e Ciccio.

Rimane da capire a quale genere di stupidità appartenga questo post...

lunedì 14 febbraio 2022

Club, o sul frazionamento dell’umano


Mi ha colpito un dato riferito da Lucio Caracciolo: negli Stati Uniti solo il 3% dei matrimoni è composto da coppie che votano diversamente; in pratica, quasi tutti i repubblicani sposano donne repubblicane, e lo stesso per i democratici. Neanche tra le razze canine avviene una tale disciplinata convergenza.

In Italia non abbiamo informazioni al riguardo – o perlomeno non le possiedo io –, ma la sensazione è che stia avvenendo qualcosa di simile. Non però in senso strettamente politico, come testimonia la macedonia delle attuali forze di governo, ed è piuttosto la società a presentare una disposizione per compagini umane sempre più fieramente ostili; l'incomunicabilità è solo un effetto di secondo grado, conseguenza di una scelta di parte avvenuta ben prima del confronto che è sempre mancato, anche quando avviene all'interno di talk show televisivi che si trasformano in zuffe.

Lo conferma la consultazione di quel trattatello di antropologia pratica che sono i social network, in cui uno dei primi parametri di sbarramento è riservato ai vaccini – nel corso di questi due anni sono andati progressivamente scomparendo i miei contatti contrari ai vaccini: o perché loro rimuovevano me, o perché io rimuovevo loro. Le rare volte che ci siamo incrociati è stato per insultarci.

Una sorta di setaccio in cui i cercatori d'oro trattenevano le pepite, sulla cui superficie ancora ci riflettiamo per verificare quanto siamo buoni, belli, giusti e cioè nel giusto noi, i simili. Mentre i diversi sono cattivi, o, nella migliore delle ipotesi, sassi e ghiaia da restituire al fiume. Mancano infatti di lucentezza, "shining", come viene detto nell'omonimo film di Kubrick.

Una polarizzazione per antinomie – repubblicani e democratici, vax e no vax – che ha natura frattale e lascia spazio a insiemi ancora più minuti, parcellizzati dentro bolle di emozione più che di sapone; e così gli stessi virologi cominciano a incanaglirsi tra di loro. Potremmo vederli come dei club, in cui non c'è però bisogno di tessera e hanno costituzione non locale (il vecchio campanile che un tempo frazionava gli animi) ma astratta, impalpabile e dunque più difficile da superare. 

Certo, ragione e torto, etica e abuso, scienza e superstizione sono termini da non confondere in una falsa dialettica crepuscolare, in cui per dirla con Hegel tutte le vacche diventano nere. Ma ciò non esonera dal difficile esercizio di riconoscere il seme del negativo dentro di sé, come il puntino scuro all’interno del Tao. Per concludere infine con Groucho Marx: “non mi iscriverei mai a un club che accetti uno come me tra i suoi soci”.

venerdì 4 febbraio 2022

Revenge porn e velo islamico, uno sguardo disallineato

Lo chiamano revenge porn, rivincita porno, in italiano, lasciando intendere che qualcuno che ha perduto qualcosa (ma più spesso qualcuno) avrebbe a questo modo un’occasione di rivalsa. Ma quale modo? Mostrando sul web o in una perversa catena di Sant’Antonio, da smartphone a smartphone, momenti di intimità sessuale documentata per immagini o video, nei quali è coinvolta la persona che così si intende punire – una donna, ovviamente. Per un uomo l’intimità sessuale è infatti ancora vissuta come prodezza, non come colpa. Di più: trofeo.

È di oggi l’ennesimo episodio denunciato da Diana Di Meo, giovane arbitro di calcio pescarese a cui va tutta la nostra solidarietà, oltre al biasimo per il bellimbusto che si è illuso di prendersi la sua vigliacca rivincita. Ma, a costo di essere biasimato a mia volta, ho provato ad approfondire la vicenda, e il primo e più semplice passo era visionare pochi secondi dei brevi filmati realizzati dalla vittima. Non si trattava infatti di uno di quei casi, ancora più ripugnanti, in cui la donna viene ripresa a sua insaputa, per quanto la condivisione è ugualmente riprovevole.

Non racconterò naturalmente ciò che ho visto – niente che non avessi già visto, niente di scandaloso –, per quanto mi ha colpito il fatto che quelle sequenze amatoriali possedevano una incontrovertibile natura di fiction, con la donna che del tutto legittimamente, sia chiaro, si mostrava secondo gli stilemi propri della messinscena cinepornografica. Ma non tanto per via del contenuto, scabroso solo agli occhi di una ormai vetusta pruderie; era piuttosto la studiata intenzionalità a sancire, come in qualunque immagine in posa, mettiamo quella di una fototessera, una distanza tra l’oggetto immortalato e il suo fruitore, fosse pure il carabiniere che anni dopo ti controlla la patente.

Certo, nella circostanza l’immagine non era destinata a me e piuttosto allo stronzo che ha messo il tutto sul web, mentre in una fototessera lo sguardo si fa vago e stranito, non possiede un interlocutore individuato ma prova a contenere l'orizzonte mondo. Eppure, anche nel primo caso, il corpo smette di essere evento e si fa testo.

Per chiarirci: pensiamo ai giochi erotici che gli amanti hanno sempre inscenato, pensiamo allo striptease di Sofia Loren in Ieri, oggi e domani, con un ululante Marcello Mastroianni quale fortunato spettatore. Se quell’episodio fosse stato vita vissuta e non cinema sarebbe stato un evento, la cui possibilità di essere ammessi è limitata a un luogo e a un tempo definiti, ma soprattutto a un altro che si dispone alla condivisione di quel tempo e quel luogo. È solo in tale situazione reale che il corpo sì dà in quanto corpo, anche un solo minimo scarto dischiude la porta alla documentalità dell'apparire. Il testo, appunto.

Terminata l’esperienza – perché un evento è un’esperienza, e cioè un sentire che non ammette mediazioni – si può richiamare il momento vissuto solo attraverso le forme imperfette e sempre più sbiadite del ricordo. Morti i presenti, per dirla con le parole dell’androide di Blade Runner, l’evento si scioglie come lacrime nella pioggia. Mentre il testo rimane.

Perciò mi viene da dire che le immagini di Donatella Di Meo fossero già da subito pornografia: non per via della loro qualità estetica o morale – non sono così bigotto –, ma perché il differimento cronologico e spaziale era già da subito previsto, era sesso solo in quanto meccanica di corpi, non accadere.

La dilazione cronologica, più che alla riproduzione del vivente, si addice infatti alla produzione di merci o servizi, di cui il porno è fiorente attività. Beninteso, in questo caso la ragazza (non dimentichiamolo mai) ha subito lo scarto involontario di funzione, ritrovandosi bersaglio del proprio gesto che all'essenza era dono. Un dono, quello del proprio corpo, che non è mercato, ripetiamolo pure a rischio di pedanteria. Come una lettera raccomandata indirizzata a una sola persona, dopo averci spruzzato sopra un bel profumo di violetta.

Nasce però a questo punto un problema. Cosa succede quando una lettera viene aperta, letta, riletta, quindi riposta dentro un cassetto chiuso – si estingue?

No, può essere distrutta solo dal destinatario, altrimenti il testo mantiene il suo carattere di traccia significante per un tempo indefinito. Quand’anche il contenuto, come nella circostanza, sia formalmente riservato, comunque conserva tale sfondo di generalità discorsiva, è l’altro a custodirne il senso ultimo, traducendosi in un atto d’affido. Non cambia molto rispetto all’ermeneutica letteraria, Umberto Eco ne parlava come di opera aperta. Ne ricaviamo che se un falegname legge Pinocchio lo potrebbe scambiare per una trattazione di settore, mentre se tu mandi con WhatsApp le immagini del tuo corpo a una testa di cazzo lui le possa convertire in pornografia.

Detto più semplicemente: un testo contiene sempre una disposizione fiduciosa nell’interprete, da cui ci si ritrae attraverso la consegna del messaggio. Mentre un gesto concreto, un atto in cui viene inclusa anche la parola pronunciata, è più prudente, l’altro non è il depositario di qualcosa ma interlocutore presente: lo si vuole toccare, baciare se è un gesto erotico, verificare, non ci basta credere in lui. Forse nella ritrosia di Socrate verso la scrittura era già presagita, con millenni di anticipo, la deriva del revenge porn.

Quando poi il testo coincida con l’immagine del proprio corpo, abbiamo il ritrarsi intimorito di quelle persone che, con sguardo miope e colonialista, ci ostiniamo a chiamare “primitive”, le quali vedono nello scatto fotografico un furto d’anima con cui lo spirito viene reificato, per essere trasformato in merce di scambio. Ma non è forse questa la miglior definizione di pornografia?

Se dunque con pornografia ci riferiamo, come io credo sia giusto, allo scambio del corpo in quanto evento con il corpo-testo, sperimentiamo l’annichilimento della dimensione dell’intimità (affettiva, erotica, sessuale – non importa), che sopravvive solo in forma di simulacro; la somiglianza è tra quello che potremmo fare se fossimo entrambi presenti e a portata di sensi, con le immagini replicabili a generare quest’illusione.

Se ciò che è simile, per definizione, non è mai lo stesso, l’essenza di ogni porno non starà allora proprio in tale riproduzione, asimmetrica alla vita? 

Un'asimmetria, sia cronologica sia spaziale, tra il momento dell’esibizione del corpo e la sua fruizione, che non potranno mai coincidere. E in questo disallineamento anche la possibilità, sempre in agguato e come ho anticipato perfino condizionale, del tradimento delle attese. Con il bastardo che edita il tuo corpo mettendolo sul web, allo stesso modo del macellaio quando espone un cosciotto di prosciutto in vetrina.

Ma in fondo anche Mary Poppins, con un po' di ironica disinvoltura, può essere ascritto al genere cinematografico della pornografia, dal verbo greco pernia, vendere. Nella circostanza è il corpo di Julie Andrews a essere sottratto alla relazionalità incarnata del suo accadere per essere fissato in testo, quindi venduto.

Per avvicinarci a una sintesi possibile: il revenge porn, non abbiamo nemmeno il coraggio di chiamarlo nella nostra lingua, è quanto di più odioso e vile, oltre a essere giustamente un reato. Mentre è del tutto legittimo inviare delle immagini, di qualsiasi natura, a un’altra persona, e quanto più sono legate a un rapporto personale quanto più si dovrebbe averne cura.

Ma se vogliamo la certezza che il nostro corpo non si trasformi in testo da trafugare (una fuga di capitali potremmo chiamarla in continuità al registro economico che si affaccia nella conversione), è utile proteggere la sua natura di evento, e cioè di esclusiva per chi ne condivida l’apparire: qui, ora. Altri luoghi e tempi non esistono per un corpo che non voglia farsi merce ma relazione.

Se proviamo ad allargare la cornice del quadro, ci accorgiamo che, più in generale, è l'intero sistema della comunicazione attuale a indirizzare il corpo verso la pornografia, dove il termine stesso comunicazione rappresenta un'estensione impropria, quando l'espressione corretta dovrebbe essere "testualizzazione": posti su Instagram una fotografia mentre indossi un nuovo cappelletto, o su Facebook uno scatto in costume sulla battigia, cinquantaquattro like, wow!, stai andando forte, ma stai comunicando?

No, stai trasformando il tuo corpo in testo, e a questo modo creando la premessa della sua conversione in dati, merce, capitale. Una dimensione da cui viene esclusa l'esperienza dell'intimità, ossia e di nuovo del corpo come evento. Detto in altre parole, Diana Di Meo c'est moi, c'est toi, è tutti noi che ci disponiamo al differimento continuo della vita.

A costo di essere politicamente scorrettissimo, mi viene però a questo punto un ultimo dubbio. Non sarà che il velo islamico, almeno quando scelto dalla donna e non imposto con forme di coercizione più o meno esplicite, a rappresentare il segno di un’ipoteca del maschio sulla “sua” femmina (ed è certamente anche questo, forse soprattutto questo), non sarà che il velo restituisca una tutela garbata della natura di evento del corpo femminile, sottraendolo alla sua riduzione a testo? Evento da cui vengono esclusi tutti coloro che non sono in rapporto di intimità, e con ciò impedendo la conversione in pornografia.