sabato 29 ottobre 2022

Memo Remigi c'est moi

Un uomo di ottantaquattro anni, di recente rimasto vedovo, fa scivolare la mano avvizzita sul sedere di una trentacinquenne, il tutto in diretta televisiva e ahimè (per lui) in favore di camera. Ciò che rende doppiamente triste una vicenda già squallida, è che quella mano appartiene a chi, cinquantasette anni prima, nel 1965, cantava:


"Sapessi com'è strano

Sentirsi innamorati

A Milano


Senza fiori, senza verde

Senza cielo, senza niente

Fra la gente, tanta gente


Sapessi com'è strano

Darsi appuntamenti

A Milano


In un grande magazzino

In piazza o in galleria

Che pazzia


Eppure

In questo posto impossibile

Tu mi hai detto ti amo

Io ti ho detto ti amo..."


Un testo di ingenua e delicata poesia sulle belle note di Alberto Testa, a insinuare il dubbio che l'episodio  si chiamano molestie sessuali, nessuna reticenza o assoluzione nel denunciarlo  celi una versione aggiornata dell'enigma della Sfinge risolto da Edipo: chi è quella creatura che all'alba gioca a biglie nei cortili; quando la luce è meridiana si innamora, non di rado ricambiato, spremendo il meglio dal proprio cuore; e al crepuscolo plana con pericolosi sussulti, come un aeroplano in avaria, su tutto ciò che gli ricorda quel meglio ormai perduto, specie se possiede la geometria tonda di un bel culo femminile?

No, la risposta non è Memo Remigi, troppo facile. Piuttosto il maschio occidentale tout court, che, a differenza delle donne, fatica a interiorizzare il monito biblico per cui "c'è un tempo per ogni cosa": tempo per giocare, innamorarsi, cantare e tastare culi  bada bene: il desiderio della mano deve fare da riflesso a quello del culo di essere tastato, in quel gioco erotico condiviso che si chiama petting.

Nel maschio i piani tendono piuttosto a confondersi. Ed è così con malinconia, più che con rabbia, o scherno, che riesco a commentare l'accaduto: "Memo Remigi c'est moi", anche se non ho mai carezzato sederi che non mi concedessero questo antico privilegio.

mercoledì 26 ottobre 2022

Lettera aperta all'Onorevole Soumahoro


Gentile Onorevole Aboubakar Soumahoro, il suo tweet in risposta a Giorgia Meloni che, oggi, nel discorso parlamentare di insediamento si è rivolta a Lei dandole per errore del tu – errore di cui si è prontamente scusata, e poco importa se celi o meno un lapsus freudiano –, andrebbe incorniciato e utilizzato come modello per una Sinistra che si voglia a vita perdente: il piagnisteo, la presunzione di superiorità morale, i cavoli a merenda e insomma tutto quell'armamentario vittimistico che ha davvero sfinito, basta, non se ne può più!

Per dissipare l’equivoco di un affondo polemico di parte, aggiungo che la parte di chi Le scrive sarebbe volentieri la medesima: con tutto il cuore vorrei tornare a votare come sempre ho fatto a sinistra, ma vengo puntualmente respinto da discorsi come i suoi. E mi dispiace perché ho stima di Lei, Onorevole Soumahoro, della sua storia personale e di ciò che in Parlamento rappresenta.

Discorsi che partono bene, intendiamoci, mossi dal vento in poppa dei valori rivoluzionari (libertè, egalitè, fraternitè), per poi afflosciarsi nell'assenza di una traduzione politica ed economica coniugata al presente, alla quale sopravviene la nostalgia per l'assalto alla roccaforte della Bastiglia, dove il marchese de Sade sognava le morbide cosce di Justine. Al suo posto, ricordo nel caso Le fosse sfuggito, sorge ora un'ampia e trafficata piazza, fallico anche il monumento di discutibile gusto che svetta al centro.

Quanto al fatto che "con il colonialismo e lo schiavismo i neri non avevano diritto al Lei", verissimo. Peccato che nell'agenda politica dell'attuale Governo, verso il quale condividiamo un caparbio dissenso, non sia prevista la conversione delle campagne in piantagioni di cotone a uso ma non consumo di chi ha una pigmentazione cutanea simile a quella che La rende giustamente orgoglioso delle proprie origini; nel nostro bel meridione ci sono già delle splendide distese di pomodori, la cui raccolta ha salari che gridano vendetta.

Di questo si occupi per piacere, come ha già fatto con merito nel passato, se vuole rappresentare non dico me che ho ancora qualche porzione di culo bene al caldo, ma il freddo vero che entra nelle ossa, o le estati senza tregua e Pinguino de Longhi che infiammano il Pianeta e confondono pecore e lupi, la disperata fuga di gommoni straripanti degli ultimi, da cui ringhianti si difendono i penultimi. Mentre ad ardere qui è solo la sua lunga coda di paglia.

Distinti e non pregiudizievoli saluti

Guido Hauser

lunedì 24 ottobre 2022

La Sinistra e il burrone

"Una delle disgrazie del nostro paese, negli ultimi sessant'anni, è stata di non avere avuto veri nemici. Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell'affrontarlo, il valore nostro. Pertanto, quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo."

Lo scriveva Umberto Eco in un pamphlet ripubblicato nel 2020 da La nave di Teseo, Costruire il nemico è il titolo. Pensando alle recenti elezioni mi viene il dubbio che Eco abbia colto solo una delle due facce del problema, la più illuminata, ma difetti della dark side, come quella della luna cantata dai Pink Floyd.

Se infatti riduciamo il quadro alla porzione di Paese costituito dalla Sinistra, ci accorgiamo che negli ultimi ventotto anni un nemico è ben presente e si chiama Silvio Berlusconi. Dalla sua "discesca in campo", così si esprimeva, con metafora sportiva, il 27 marzo del 1994, la Sinistra non ha pensato ad altro, facendo dell'antiberlusconismo la propria ragione politica. L'unica ragione politica, meglio.

Forse, più che un nemico, le è mancata una domanda di schietto candore, come quella posta Phoebe Josephine Caulfield al più celebre fratello: "Ok Holden” gli dice al termine di una lunga filippica in cui lui esprime tutto il suo astio verso la società conformistica degli anni Cinquanta, "quello che ti fa schifo l'hai detto, l'hai ripetuto allo sfinimento. Ma c'è una cosa che ti piace e vorresti fare nella vita?"

“…”

Qui Holden vacilla, arresta il flusso idiosincratico di parole, la bocca semiaperta ma nessun suono fuoriesce. È preso alla sprovvista.

Poi gli viene l’immagine, geniale, dell'acchiappatore nella segale, the catcher in rye, che fa da titolo al celebre romanzo di Salinger. "Io vorrei stare", dice Holden, "in un campo di segale dove giocano dei bambini. Al limitare del campo si apre un burrone. I bambini non lo vedono, loro sono piccoli e alta la segale. Così ogni tanto qualcuno precipita. Ecco, io starei lì per afferrare i bambini un attimo prima che precipitino.”

Ma non è quando dovrebbe fare anche la Sinistra, una Sinistra degna di questo nome? Acciuffare per la collottola i precari, gli esodati, i malpagati e i drop out, prima che il burrone del capitalismo finanziario se li ingoi.

All’assenza della domanda di una moderna Pohebe è però mancata anche la risposta della Sinistra, che da ventotto anni continua nella sua geremiade contro un nemico spesso solo immaginato. Prima era Berlusconi, Berlusconi non mi piace, Berlusconi cacca, schifo, buuuu. Adesso è la Meloni a fare storcere il naso, per non dire del bavero sollevato nelle polo Ralph Laurent, roba da burini di periferia.

Ma un'idea di mondo che sia una e non solo formazione reattiva, come direbbe uno psicologo, non è stata in grado di produrla. E gli elettori che giocano nella segale se ne sono accorti, almeno quelli che non sono ancora precipitati nel burrone.

giovedì 20 ottobre 2022

Assemblea condominiale

Ieri sera, in assemblea condominiale su Zoom, un tizio piccolo, biondo e affetto da rotacismo come la casta dei ricchi meridionali a cui forse appartiene per antica stirpe, ora trapiantata nella periferia settentrionale di Milano, questa miniatura del principe di Casador nella formidabile interpretazione di Totò continuava a interrompermi con paternalistica supponenza.


Raggiunto il mio (purtroppo basso) livello di ebollizione, ho sbottato: "Io dico tutto quel che mi pare e come mi pare, non rompermi i coglioni!" E al suo balbettante tentativo di replica ho aggiunto: "Taci, stronzo."

A quel punto mi sono accorto di essermi trasformato in Sgarbi con Mughini, o viceversa 
 credo di averlo anche minacciato di calci nel culo. Prima di realizzare che non è il mondo, in questi anni sballati, a essersi televisivizzato, ma la televisione e i social a essersi condominizzati.

venerdì 14 ottobre 2022

Lateral thinking


Sta girando sul web 
questo filmato, mostra due giovani ecologiste lanciare della zuppa in scatola su I girasoli di Van Gogh, subito dopo chiedendo: "Cosa è più importante, l'arte o la vita? E siete più interessati alla protezione di un'opera d'arte o a quella del pianeta e delle persone che lo abitano?"

Questioni senza dubbio cruciali, e il fatto che ne stiamo discutendo testimonia che gesti stupidi comunque generano pensiero, altrimenti dirottato sull'esito di una partita di pallone, o sulle ripicche nella separazione tra Totti e Blasi.

Ma è un gesto, per l'appunto, stupido, perché il pensiero prodotto a questo modo è inefficiente, non produce a sua volta azione. Potremmo andare avanti settimane a commentare l'accaduto, ma nulla cambierebbe: né nei nostri rapporti con l'arte, né in quelli con il pianeta e i suoi complessi equilibri.

Quindi, di tutta la faccenda, a me interessano altre domande: cosa si sono spalmate sulla mano dopo avere lanciato la vernice? Colla, immagino, per incollarsi alla parete, come mosche alla striscia gialla che pende dal soffitto. Ma come si rimuove un essere umano da una parete? Quanto tempo ci si impiega? Chi se ne occupa? Esiste la figura professionale dello scollatore di ecologiste radicali dalle pareti dei musei?

Dubbi laterali insomma, digressioni dalla via maestra della stupidità. Come Holden Caulfield quando si chiede dove volino le anatre del Central Park durante l'inverno.

domenica 9 ottobre 2022

Scrittori e critica


Mi dicono che, di tanto in tanto, una scrittrice che chiameremo Carolina, fa il mio nome sui social con sprezzo e sarcasmo. Bene, ne ha tutto il diritto. Immagino lo faccia come conseguenza a un mio intervento di quasi due anni fa, in cui criticavo ciò che nel frattempo lei andava cianciando sui nuovi vaccini a mRNA messaggero, a suo dire espressione di una terapia genica pericolosissima.

Sulla questione non ho nulla da aggiungere: non conosco Carolina, non ho mai letto un suo romanzo e, in genere, prima di addormentarmi un tempo mi masturbavo e ora guardo le serie tivù. Leggo poco insomma, anche se qualcuno, di cui ho considerazione, mi ha detto che è brava. Quindi per me la questione è chiusa qui, senza rancore.

Si apre invece una riflessione più generale sul rapporto tra scrittori e critica; e quella che io facevo sui vaccini era appunto una critica al testo, non alla persona. Nella fattispecie, non penso che tutti gli scrittori assomiglino a Carolina – la mia affermazione non è beninteso un giudizio di valore – ma tutti gli scrittori producono parole pubbliche. Lo fanno, il più delle volte, sulla base di un pungolo che nasce dal pathos, non dal logos o dall’ethos.

Successivamente questa massa informe viene rielaborata e gestita, in un’operazione che mi ricorda le mucche quando, la sera, nel tiepido della stalla, richiamano dall’abomaso il bolo d’erba brucato durante il giorno: per rimasticarlo con più calma, assimilarlo nella seconda digestione.

Detto diversamente e un po’ brutalmente, il mio sospetto è che nella categoria degli scrittori sia presente una quantità di persone con un’istintualità leggermente superiore alla media, e una razionalità leggermente inferiore. In ciò sono pari forse solo agli attori, che Giorgio Strehler chiamava parco buoi.

Ecco, io penso che il parco buoi degli scrittori faccia benissimo a ruminare il proprio immaginario in disparte, a proteggerlo da interferenze predatorie, da cui anche i bovini sanno difendersi con calcioni ben assestati. Un immaginario tanto più vivo quanto ancora confuso, come si confonde, pazienza, non siamo a un congresso scientifico, una terapia genica con un vaccino a mRNA.

Ma un confronto pubblico tra tale disposizione concreta, materna, protesa al mondo per brucarne anche i minimi germogli che sfuggono ai più, e pensiero critico astratto non è di giovamento per nessuno.

Gli scrittori continuino a tracciare parole di latte e i critici a interpretarle. Meno interferenze personali ci sono tra parco buoi e pastori – la cui attitudine è parassitaria, le loro mammelle avvizzite – meglio è. Al massimo, quest'ultimi possono fare il formaggio, cagliando in forme robuste e saporite una materia estranea.

Quindi non riportatemi cosa va sparlando Carolina, nemmeno quando io ne rappresento l'oggetto. Ve lo chiedo per piacere. Le auguro ogni bene, immaginandola pascolare felice nel verde in cui fiammeggia il tarassaco, con cui allattare parole avide, parole intense. Accompagnate, di tanto in tanto, da colossali sciocchezze.

venerdì 7 ottobre 2022

Blonde

Alla fine l'ho visto anch'io, Blonde, il film. Prima considerazione. Non capisco questa disputa: è Marylin, no non è Marylin, è solo un personaggio a lei ispirato come invita a fare anche Joyce Carol Oates, autrice del romanzo da cui ha attinto l'intensa pellicola di Andrew Dominik.

Ora, nel film, nel romanzo non lo so, Marylin si chiama Marylin, e prima ancora è Norma Jean e così tutti i personaggi di contorno, nominati senza pseudonimi ma in corrispondenza con la biografia dell'attrice scomparsa.

Questo però non fa ancora da garanzia biografica, e in fondo il concetto stesso di biografia è più narrativo di quanto appare: chiediamo conto di una persona che conosciamo ad altri comuni conoscenti, e avremo risposte molto meno omogenee di quanto potremmo attenderci, anche all'interno della stessa famiglia. Un esito che fece affermare a Nietzsche che "non esistono fatti ma solo interpretazioni".

Se prendiamo sul serio la citazione, fin troppo in voga, del filosofo, dobbiamo concludere che non ci sono nemmeno persone ma solo personaggi. E quello di Blonde è il personaggio Marylin Monroe, proprio lei, non altri, nell'interpretazione di Dominik.

Vediamo allora, senza tanti fumosi distinguo tra vita e opera, cosa viene colto nell'interpretazione cinematografica più vista su Netflix. Norma Jean è una bambina che si sente rifiutata e, per tutta la vita, ricerca disperatamente l'amore che le è mancato, prima di ogni altri da un padre assente e da una madre fuori di testa. La strategia di surroga che trova è quella di essere totalmente amabile, conformandosi agli stereotipi del femminile  anche sessuali   in un luogo e un tempo definiti: L'America ipocritamente puritana degli anni Cinquanta e Sessanta, che fa con la destra ciò che nega con la sinistra.

Tra la ferita infantile che ancora sanguina e la donna frivola e compiacente del personaggio inventato, nella vita non meno che sullo schermo, rimane però uno scollamento che la conduce a esiti autodistruttivi, anche nei confronti della maternità in cui viene replicato il copione familiare. I bambini sono un intralcio, sembra avere interiorizzato il Super-io di Marylin. Ma i bambini sono tutto grida l'inconscio bambino di Norma. Da qui la nevrosi.

Il compromesso tra le due voci che la abitano sembra essere il potere. Quel potere, maschile, prima subito e poi agito attraverso il corpo, con cui scopre essere a sua volta potere. La sequenza della gonna sollevata dallo sbuffo che proviene dalla grata della metropolitana lo mostra meglio di ogni parola. Questo è cinema, cinema in stato di grazia.

Una grazia che dopo le prime felici sequenze sfuma nell'abuso dei mezzi espressivi, impegnati a ribadire l'interpretazione già accennata. Poco interessata alle sfumature che emergono da altre testimonianze sull'attrice  ad esempio le lettere, o il diario personale da cui è stato ricavato un bel documentario nel 2012, Love Marylin  la messa in scena appare comunque sincera e appassionata. Anche i toni stilistici e raffinati del melodramma gli sono congeniali.

Scelta già chiara dalle prime sequenze: quando Norma Jean viene condotta all'orfanotrofio, una regia reticente avrebbe potuto semplicemente fare uno zoom avanti fino a inquadrare solamente gli occhi, a cogliere tutto il suo dolore e senso di tradimento. Invece vengono messi in bocca alla bambina dei dialoghi che più teatrali e, appunto, melodrammatici non potrebbero essere, con lei che strilla "Non sono orfana, io ho un padre: HO UN PADRE!"

Il melodramma è però un genere e non uno stigma, e Douglas Sirk e Almodovar hanno saputo ricavarne dei capolavori assoluti. Ciò che allontana Blonde da quegli esiti è l'assenza di una sceneggiatura all'altezza; la definirei minimalista, per quanto il termine sembra in conflitto con la stilizzazione melodrammatica.

Non si tratta infatti di minimalismo cinematografico (che so, una pellicola di Jim Jarmusch) e piuttosto musicale, ricordando una composizione di Terry Riley o Philip Glass: lo stesso nucleo tematico viene ripetuto con lievi e quasi impercettibili variazioni.

Se all'ascolto ciò procura un piacevole stato di ipnotica sospensione, l'assenza di uno sviluppo narrativo, poco importa che sia nell'azione o nell'approfondimento psicologico dei personaggi, però non regge alla visione, traducendosi in torpore, noia, fastidio. Al punto che dopo la prima mezz'ora a uno viene da sbottare: ok, me l'hai già detto che Norma Jean era triste e sola, e questo rende triste anche me. Ma adesso dimmi qualcos'altro!

Cosa che non avviene, e per due ore e mezza viene detta, ripetuta, ribadita e incorniciata un'unica frase musicale, fino a renderla esausta e vanificare l'empatia iniziale. Peccato, perché questa bambina santa e troia mi è cara come pochi altri.

martedì 4 ottobre 2022

Ovunque proteggi


Marylin Monroe, riporta in un'intervista Arthur Miller, scostò le tende del suo ufficio a Manhattan, ed esclamò in una tarda tiepida mattina di inizio marzo: "Ma è primavera!" Come se quella, continua Miller, fosse la "prima vera", la prima volta in cui il mondo fiorisce, fino a quel momento ci fossero stati solamente inverni.

Un aneddoto, forse inventato, che per me è stato una profonda lezione di vita, oltre che di scrittura: contattare, ogni volta che mi sporgo fuori da me, lo sguardo stupefatto di Marylin, per pronunciare l'inaudito che ancora si nasconde dentro la primavera, o in autunni infinitamente dichiarati e mai guardati sotto il velo di foglie esauste, estati con le ginocchia sbucciate e il colorante rosso dei ghiaccioli che cola piano sulla dita.

La parola giusta è accorgersi. Di qualcosa che forse già sapevo da sempre, ma non me ne ero mai accorto; o ancora più nel profondo è uno specchio: riflette ciò che sono in potenza, e solo così lo divento (diventa ciò che sei, come invitava a fare Nietzsche). E quel nuovo essere mi allarga, mi allaga.

Pazienza se suona un poco retorico a dirsi. Anche io, come Joyce Carol Oates che si è accorta del personaggio di Blonde, da cui ora è stato tratto un film controverso, ho una Marylin tutta mia. E cerco di averne cura, le rimbocco le coperte la sera. Per farla addormentare le sussurro il refrain di una canzone che non smette di risuonarmi in testa: "ovunque proteggi la grazia del mio cuore..."

lunedì 3 ottobre 2022

Come è profondo il mare


Ieri ho scritto un post in cui difendevo Rula Jebreal, di cui avevo letto un tweet che parla di Giorgia Meloni. Il tweet era il seguente:

"La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali, NON colpe/punizioni collettive".

Le parole trascritte mi appaiono un'impeccabile critica alla cultura della nuova destra sovranista, che fa, è il caso di dirlo, di ogni erba un fascio. Ma se ribaltiamo la prospettiva nel modo suggerito dalla Jebreal, quella disposizione sommaria può rivolgersi contro a chi la esercita, secondo un altro celebre proverbio per cui chi di spada ferisce di spada perisce.

Jebreal mostra così che la spada dei sovranisti è di plastica, e l'avere avuto un padre che ha commesso gravi reati non rende, automaticamente e a prescindere dai rapporti (Meloni non rivolge la parola al proprio padre da molti anni), colpevole anche te. Come i crimini compiuti da uno o più extracomunitari non sono trasferibili a tutti gli extracomunitari, le responsabilità sono individuali, perfetto, ottimo paragone e ottimo ragionamento. Brava Rula!

Scopro però solamente ora che la stessa giornalista israelo-palestinese ha scritto un altro tweet, non so se sia venuto prima o dopo. Trascrivo anche questo:

"Durante la sua campagna elettorale la nuova premier italiana ha diffuso un video di stupro insinuando che i richiedenti asilo siano criminali che vogliono sostituire i cristiani bianchi. Ironicamente, il padre della Meloni è un noto trafficante di droga/criminale condannato che ha scontato una pena in un carcere spagnolo."

Parole che sembrano negare lo spirito delle precedenti. Se nelle prime lo slittamento sulla base di qualche pretestuosa analogia – per affinità alla linguistica l'ho chiamato metonimia – veniva destituito dalla colpa, qui sembra essere ripristinato quel nesso mitologico. A ciò si aggiunga un'ignobile pratica anch'essa derivata dalla retorica classica, in cui prende il nome di argomentum ad hominem: per contrastare gli argomenti attacco la persona che li esprime, la sua famiglia, merda ovunque.

Ma qual è allora la "vera"Jebreal: quella che finemente decostruisce, con spirito illuminista, la sottocultura superstiziosa e medievale della nuova destra (Dio, Patria e famiglia, ma è il Dio geloso occhiuto che fa ricadere sui figli le colpe dei padri per quattro generazioni), o quella che dello stesso pensiero si fa violenta espressione, rimarcando un atteggiamento ideologico che già le abbiamo visto assumere in altre occasioni, ideologico e permaloso? Colpo finale di teatro, infatti, Jebreal conclude che chi la critica lo fa per via del colore della sua pelle.

Non so rispondere. Di più: non lo voglio sapere, non mi interessa, non dovrebbe interessare nessuno. Prendiamo le parole buone che ci offre, quando arrivano e senza chiederci da quale ispirata fonte – San Tommaso suggerisce l'esistenza di un "intelletto potenziale", che talvolta si attiva anche negli sciocchi –, e usiamole per pensare, per affinare la nostra idea di mondo. Ma restituiamo quelle cattive al mittente: no, grazie, queste scemenze te le tieni per te. Che il cielo è sempre più blu, e anche il mare, blu e tanto più profondo di me, di te che stai leggendo e di Rula Jebreal. Come è profondo il mare...

domenica 2 ottobre 2022

Brava Rula!


Premessa. Rula Jebreal dice a volte cose che condivido, ma in altre occasioni mi appare scontare più di un pregiudizio ideologico, ponendosi con astio preventivo nei confronti degli interlocutori. Pregiudizio che cercherò di evitare nel commentare le sue recenti parole su Giorgia Meloni, che hanno già sollevato una quantità di polemiche.

Analizziamo la frase, pubblicata su Tweeter, nel dettaglio, stando a ciò che scrive e provando per un momento a scordare quel che sappiamo di lei. Il migliore aiuto ci viene dalla linguistica, con cui penetrare il seguente testo: "La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali, NON colpe/punizioni collettive".

Il fatto che Jebreal si riferisca, in forma implicita, al reato di spaccio di stupefacenti per cui il padre di Giorgia Meloni, Francesco, con cui lei non ha più rapporti, è stato condannato ventisette anni fa, potrebbe essere inteso come ciò che nella retorica classica viene chiamato argomentum ad hominem: screditare la persona per colpire le sue idee. Che è quanto le viene rimproverato dai detrattori, tra cui Calenda e Giuseppe Conte, che subito si sono precipitati a dichiarare la loro solidarietà a Giorgia Meloni.

L'argomentun ad hominem, per assumere la forma di un indice colpevolizzante, si deve però in questo caso appoggiare a un' altra figura della retorica classica, quella della metonimia. Si tratta di uno scambio, uno scambio di nome ci dice l'etimologia greca del termine (metōnymía), o più in generale uno slittamento semantico, con le colpe dei padri che vengono trasferite ai figli ("perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione" viene scritto in Esodo 20-5, e a parlare è quel Dio a cui si appella Meloni nei comizi).

Ma leggiamo bene il suo testo: è esattamente ciò che Jebreal denuncia, non pratica. Lo strumento retorico di Jebreal è infatti quello del paragone, a indicare la falla presente in questo modo di argomentare. Attenzione, ci dice, a spostare le colpe di un extracomunitario (la famigerata mela marcia) su tutti gli extracomunitari, perché seguendo lo stesso procedimento difettoso finiamo con l'essere colpevolizzati per le colpe commesse dai nostri genitori.

Una democrazia matura però non funziona a questo modo, e tale confusione linguistica, in effetti, è stata utilizzata di frequente nei proclami demagogici di Giorgia Meloni, che ora rischia di vedersela rivolgere contro. E così Jebreal, per un paradosso sfuggito ai più, preventivamente la difende dall'equivoco, forse perché ha troppe volte sperimentato sulla propria pelle la sineddoche (una forma particolare di spostamento, in cui la parte sta in luogo del tutto) per cui qualche donna bella e scema dovrebbe rendere sceme tutte le donne belle; e che Rula Jebreal sia una delle donne più belle del mondo mi appare una costatazione oggettiva, non un'insinuazione sessista.

Ed è così che la bella e intelligente Jebreal invita l'altrettanto bella e intelligente Meloni a distinguere tra responsabilità personali e responsabilità collettive. E dunque brava Rula, la logica, oltre che l'estetica, questa volta sono dalla tua parte!

sabato 1 ottobre 2022

Se incontri il fantasma di Pasolini per strada, uccidilo!



Ho appena finito di ascoltare il podcast di Walter Siti su Pasolini. È realizzato molto bene, il tono affabile e coinvolgente. Ma forse avrebbero dovuto aggiungere una locuzione ora in voga: Pasolini for dummies, nel senso che è rivolto a chi di Pasolini non sa quasi nulla (e questa non è una colpa, ma una scelta editoriale) rimanendo su un piano biografico senza mai approfondire le opere.

Conoscevo anche il fatto, qui confermato, che Pasolini aveva perlopiù rapporti con minorenni; non si trattava comunque di bambini, come nel caso di Sandro Penna. Piuttosto mi ha sorpreso che per farlo si giovava, soprattutto negli anni della fama cinematografica, ma in fondo già da professore, di una posizione di potere.

I giovani venivano lusingati con la promessa, quasi mai mantenuta, di essere introdotti nel mondo del cinema; lo fece anche nel corso dei suoi numerosi viaggi africani, possiamo immaginare quale fosse l'oggetto dello scambio... Sembra così di vederlo: un Alì tutto nero ma dagli occhi azzurri, come recita in una sua celebre poesia. Ali appena giunto dal Kenya, dalla Tanzaniana, dal Mali o dal Senegal. Con difficoltà si districa nel traffico romano alla ricerca del piccolo uomo bianco dagli zigomi pronunciati, che gli aveva promesso una parte in un film. Connaissez-vous Pasolinì?

Per un ribaltamento di prospettiva frutto di battaglie civili in buona parte meritorie, ora è divenuto un comportamento (piccolo borghese l'avrebbe definito lo stesso Pasolini, prima ancora che vigliacco e meschino) che produce scandalo entro i confini, fino a pochi anni fa tollerati, dell'eterosessualità. E penso naturalmente ad Harvey Weinstein, oppure a Fausto Brizzi.

Persone che, comunque, hanno sfruttato la loro posizione di potere e prestigio con donne maggiorenni e consenzienti. Con l'accusa di violenza (per la quale Weinstein si trova tutt'ora in carcere) è stata dunque sanzionata l'asimmetria di ruolo, accompagnata dalla pressione psicologica sulle vittime e il do ut des raramente mantenuto. Non li assolvo naturalmente, ma mi appare una versione light del comportamento di Pasolini.

Mi chiedo infatti quanta violenza subita ci sia in un ragazzino che gira per Roma con una misera valigia piena di stracci, alla ricerca di un uomo adulto e famoso che lo sfugge, si nega, dite che non ci sono, dopo averlo illuso a migliaia di chilometri di distanza. Sembra una sequenza di un film di Fellini, con il regista teatrale che ci prova con i vitelloni romagnoli, oppure Alberto Sordi che si dondola sull'altalena in versione sceicco bianco.

La scoperta di un'ombra nella biografia di Pasolini è però stata un'occasione preziosa, sottraendomi all'ipoteca che il suo pensiero ha agito su di me per molti anni. Non smetto di riconoscergli gli infiniti meriti artistici e sociologici, ma è con arioso senso di liberazione che posso prenderne le distanze, non difenderlo con parole e pugni se qualcuno lo chiama busone o pederasta o stronzo, come faceva il fratello Guido sotto i portici di Bologna.

Una celebre sentenza zen recita: "Se incontri il Buddha per la strada uccidilo!" E oggi, sulla strada in cui mi fatto da guida partecipe e sorniona Walter Siti, ho ucciso il mio Buddha.