Alla fine l'ho visto anch'io, Blonde, il film. Prima considerazione. Non
capisco questa disputa: è Marylin, no non è Marylin, è solo un personaggio a
lei ispirato come invita a fare anche Joyce Carol Oates, autrice del romanzo da
cui ha attinto l'intensa pellicola di Andrew Dominik.
Ora, nel film, nel romanzo non lo so, Marylin si chiama Marylin, e prima
ancora è Norma Jean e così tutti i personaggi di contorno, nominati senza
pseudonimi ma in corrispondenza con la biografia dell'attrice scomparsa.
Questo però non fa ancora da garanzia biografica, e in fondo il concetto
stesso di biografia è più narrativo di quanto appare: chiediamo conto di una
persona che conosciamo ad altri comuni conoscenti, e avremo risposte molto meno
omogenee di quanto potremmo attenderci, anche all'interno della stessa
famiglia. Un esito che fece affermare a Nietzsche che "non esistono fatti
ma solo interpretazioni".
Se prendiamo sul serio la citazione, fin troppo in voga, del filosofo,
dobbiamo concludere che non ci sono nemmeno persone ma solo personaggi. E
quello di Blonde è il personaggio Marylin Monroe, proprio lei, non altri,
nell'interpretazione di Dominik.
Vediamo allora, senza tanti fumosi distinguo tra vita e opera, cosa viene
colto nell'interpretazione cinematografica più vista su Netflix. Norma Jean è
una bambina che si sente rifiutata e, per tutta la vita, ricerca disperatamente
l'amore che le è mancato, prima di ogni altri da un padre assente e da una
madre fuori di testa. La strategia di surroga che trova è quella di essere totalmente amabile, conformandosi agli stereotipi del femminile – anche sessuali – in un luogo e un tempo definiti: L'America ipocritamente puritana degli anni Cinquanta e Sessanta, che fa con la destra ciò che nega con la sinistra.
Tra la ferita infantile che ancora sanguina e la donna frivola e
compiacente del personaggio inventato, nella vita non meno che sullo schermo,
rimane però uno scollamento che la conduce a esiti autodistruttivi, anche nei
confronti della maternità in cui viene replicato il copione familiare. I
bambini sono un intralcio, sembra avere interiorizzato il Super-io di Marylin.
Ma i bambini sono tutto grida l'inconscio bambino di Norma. Da qui la nevrosi.
Il compromesso tra le due voci che la abitano sembra essere il potere. Quel
potere, maschile, prima subito e poi agito attraverso il corpo, con cui scopre
essere a sua volta potere. La sequenza della gonna sollevata dallo sbuffo che
proviene dalla grata della metropolitana lo mostra meglio di ogni parola.
Questo è cinema, cinema in stato di grazia.
Una grazia che dopo le prime felici sequenze sfuma nell'abuso dei mezzi espressivi, impegnati a
ribadire l'interpretazione già accennata. Poco interessata
alle sfumature che emergono da altre testimonianze sull'attrice – ad esempio le
lettere, o il diario personale da cui è stato ricavato un bel documentario nel
2012, Love Marylin – la messa in scena appare comunque sincera e appassionata. Anche
i toni stilistici e raffinati del melodramma gli sono congeniali.
Scelta già chiara dalle prime sequenze: quando Norma Jean viene condotta
all'orfanotrofio, una regia reticente avrebbe potuto semplicemente fare uno
zoom avanti fino a inquadrare solamente gli occhi, a cogliere tutto il suo
dolore e senso di tradimento. Invece vengono messi in bocca alla bambina dei
dialoghi che più teatrali e, appunto, melodrammatici non potrebbero essere, con
lei che strilla "Non sono orfana, io ho un padre: HO UN PADRE!"
Il melodramma è però un genere e non uno stigma, e Douglas Sirk e Almodovar
hanno saputo ricavarne dei capolavori assoluti. Ciò che allontana Blonde da
quegli esiti è l'assenza di una sceneggiatura all'altezza; la definirei minimalista,
per quanto il termine sembra in conflitto con la stilizzazione melodrammatica.
Non si tratta infatti di minimalismo cinematografico (che so, una pellicola
di Jim Jarmusch) e piuttosto musicale, ricordando una composizione di Terry
Riley o Philip Glass: lo stesso nucleo tematico viene ripetuto con lievi e
quasi impercettibili variazioni.
Se all'ascolto ciò procura un piacevole stato di ipnotica sospensione,
l'assenza di uno sviluppo narrativo, poco importa che sia nell'azione o
nell'approfondimento psicologico dei personaggi, però non regge alla visione,
traducendosi in torpore, noia, fastidio. Al punto che dopo la prima mezz'ora a
uno viene da sbottare: ok, me l'hai già detto che Norma Jean era triste e sola,
e questo rende triste anche me. Ma adesso dimmi qualcos'altro!
Cosa che non avviene, e per due ore e mezza viene detta, ripetuta, ribadita
e incorniciata un'unica frase musicale, fino a renderla esausta e vanificare
l'empatia iniziale. Peccato, perché questa bambina santa e troia mi è cara come
pochi altri.