venerdì 30 settembre 2022

Rimbambiti

Scopro ora dell'ennesima polemica che corre sul web, Selvaggia Lucarelli è ovviamente in prima fila. L'oggetto, tesi della più feroce fazione, è se i vecchi siano (testuale) rimbambiti.

Se penso a Vittorio Foa, Socrate, Junger, Scalfari e Gillo Dorfles, direi proprio di no. L'ultimo, morto a 107 anni, era amico di un mio amico, con cui condivideva la passione per lo sci. Andavano assieme a sciare a Bormio quando Dorfles era prossimo a compiere un secolo, in cui mai ha pronunciato pensieri meno che arguti.

Insomma, via, è una sciocchezza, torniamo a parlare d'altro. Ad esempio del divorzio Totti Blasi. Però mi viene in mente che rimbambito è la prima etimologia che ho imparato, già in quinta elementare sapevo che significa tornare bambini.

Ma allora sì, i vecchi sono rimbambiti: necessitano di accudimento come i bambini, cure genitoriali, affetto, e non sempre trovano la parola giusta al volo. Ciò vale anche per i quasi vecchi come me; o perlomeno io già mi commuovo con maggiore frequenza, e ho ripreso ad acquistare le merendine Fiesta quando vado al supermercato, in luogo della Ceres.

Paolo Conte, al solito, riesce a dirlo meglio di tutti: "Mangiano più gelati e panna / da settant'anni in su / che in tutta la loro vita di ragazze, / adesso o mai più / senza chimere o tabù /la vita vale un Perù..."

giovedì 29 settembre 2022

Il liceo classico Manzoni

Il liceo classico Manzoni si trova in via Orazio 3 a Milano, dove gli appartamenti costano ottomila euro al metro quadro e i figli dei figli dei baby boomer studiano Ovidio e aspettano il loro turno per salire sulla vetta, come turisti alpini incolonnati alle pendici dell'Everest. Al liceo classico Manzoni si sono diplomati Rossana Rossanda e Matteo Salvini, Enrico Mentana e Alessandro Profumo, che con quel nome lì avrebbe potuto fare qualsiasi cosa – l'attore, la giovane proposta a San Remo, il sarto e ovviamente il profumiere – ma si è accontentato di essere uno degli uomini più ricchi di Italia. Il liceo classico Manzoni è stato occupato oggi dai suoi studenti, quaranta di loro hanno dormito lì, o forse è stato ieri, non lo so bene perché mentre mia madre seguiva il telegiornale io stavo sentendo gli Smiths. Allo sfumare delle note di This Charming Man, ho colto che l'occupazione del liceo classico Manzoni è avvenuta per protesta contro "la vittoria di un partito storicamente legato a immagini e retoriche fasciste, l'alternanza scuola lavoro e l'emergenza climatica". Si esprimono con proprietà di linguaggio gli studenti del liceo classico Manzoni, non siamo mica a un qualsiasi istituto per geometri o ragionieri, dove avrebbero solo detto che ha vinto la Destra e bon, si riprende a tirarsi le gomme e a guardare le gambe della professoressa accavallate sotto la cattedra. Vinto, ma è solo un dettaglio, con ampio consenso dopo elezioni regolari, a cui i genitori degli studenti del liceo classico Manzoni hanno certamente partecipato, rinunciando al meritato riposo nella seconda casa di Bormio o Rapallo pur di compiere il loro diritto e dovere alle urne. Una bella lezione di vita, di "rispetto per le istituzioni e gesto di responsabilità verso la cosa comune" dichiarano i padri, le madri, gli zii degli studenti del liceo classico Manzoni, e intanto controllano gli indici azionari sullo smartphone (si sa che le elezioni procurano una scossa ai mercati) e con l'altro occhio leggono l'editoriale di Gad Lerner, che però ha studiato al Berchet. Cambia il tono, questa volta sussurrato, ma la proprietà di linguaggio è la medesima, in fondo da qualcuno avranno pure imparato i loro cuccioli, non come quei genitori che ti strillano di non rompere il cazzo mentre guardano la partita in tivù. Ecco, questo è tutto quello che so del liceo classico Manzoni. Molto poco, a ben vedere. Ad esempio non so se nel programma di studio del liceo classico Manzoni, sempre quello, in via Orazio 3 a Milano, sia compresa una celebre poesia di Pasolini, la scrisse in occasione degli scontri a Valle Giulia avvenuti il primo marzo del 1968. L'ho riletta. A un certo punto dice: "Avete facce di figli di papà. / Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio cattivo. / Siete paurosi, incerti, disperati / (benissimo) ma sapete anche come essere / prepotenti, ricattatori e sicuri: / prerogative piccoloborghesi, amici. / Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti..."

lunedì 26 settembre 2022

Autobiografia

Piero Gobetti suggeriva che il fascismo fosse l'autobiografia della Nazione.

Io non penso che il programma elettorale della Meloni sia fascista – cosa lei sia nel suo intimo non mi interessa, la politica si giudica dai fatti – e piuttosto securitario e ottusamente sovranista, in un paese che già a partire dalla geografia (prima ancora che dall'assenza di materie prime) è destinato alla mediazione.

Confido dunque che a quel programma miope si atterrà, senza manganelli e olio di ricino. Ma rimane la formidabile intuizione di Gobetti, per cui siamo una nazione vocata a destra.

Aggiungo una cosa impopolare: sono felice che questa vocazione sia stata intercettata dal post fascismo di FDI e non, mettiamo, dal neo fascismo di Salvini, o peggio di Paragone o altri mediocri figuri che avrebbero potuto manifestarsi e attrarre consenso.

Giorgia Meloni mi sembra insomma il "meglio" che un paese naturaliter destrorso si potesse augurare; e non essendo di destra, preciso, a scanso equivoci, non è il mio meglio.

Appartengo però anche io alla biografia nazionale. Parte da lontano, come ogni biografia, e supera oggi il 26% cento alle urne. Non per ignoranza, come sostiene il vignettista Makkox, ma per emozioni, inconscio.

Se vogliamo cambiare biografia la psicanalisi ci insegna che l'inconscio va interrogato con pazienza, i suoi oscuri simboli tradotti, a volte anche condisceso secondo necessari compromessi tra cuore, cervello e pancia. Bisogna insomma avere molto lavorato su di sé.

Cosa che questo Paese non ha nessuna intenzione di fare. E mi sembra il dato più significativo delle presenti elezioni: rivendicare con forza ciò che siamo, a scapito di ciò che potremmo essere.

domenica 25 settembre 2022

Sineddoche e metonimia, un dubbio misogino part II


Ho da poco pubblicato un post giocosamente misogino. In realtà, non credo di esserlo, o perlomeno non più di qualsiasi animale che guarda a una femmina della propria specie con un misto di desiderio e soggezione. Provo così a offrirne ora una versione più analitica e meno scherzosa.

Il successo con cui vengono premiate, attraverso i like, immagini e parole pubblicate da donne giovani e belle sui social, è sintomatico di una novità storica su cui sarebbe interessante sostare. Con un po’ di avventuroso slancio e seguendo il solco dell'intuizione pasoliniana, possiamo considerarla il segno di una mutazione antropologica in corso. Donne giovani e belle che scrivono talvolta pensieri notevoli, intendiamoci, ma il più delle volte e come tutti cavolate. Con la differenza che tutti non hanno lo stesso riscontro.

Per analogia tra parole mondo, possiamo inquadrare questa mutazione (dall'irrilevanza femminile, nella società patriarcale, all'ipervalutazione delle comunità virtuali) attraverso due figure della retorica classica. Fino a qualche decennio fa, con disposizione decisamente sessista, si assumeva che se una donna fosse bella dovesse essere anche un po’ scema, e poco importava che Jane Mansfield avesse un quoziente di intelligenza di 162, un punto in più di Albert Einstein.

Possiamo così fare coincidere tale disposizione con la figura retorica della sineddoche, per cui la parte, sì proprio quella parte lì che distingue l’uomo dalla donna, sta in luogo del tutto. E se si trattava di una bella parte, un bel corpo, una bella "fica", va da sé che il tutto femminile si risolveva nel suo aspetto. Non c’era spazio per altre qualità.

L’attuale e tardiva e, dobbiamo augurarci, definitiva apertura di credito alle capacità femminili, seguita alla rivoluzione culturale degli anni Sessanta e Settanta, ha creato la premessa per il riconoscimento di altri talenti, che sono sempre esistiti. Ma questi talenti, come la bellezza, sono limitati: se tutti fossimo belli non esisterebbe il concetto di bellezza, e così per ogni altra virtù. Sui social la qualità viene però presupposta distrattamente, e ciò avviene, di nuovo, proprio a partire dalla bellezza, l'antico marchio del femminile. Ed è qui che compare l’altra figura retorica a cui accennavo. La metonimia.

Provo a dirlo in parole semplici. Se una donna possiede il dono abbagliante dell’apparire, avviene una sorta di slittamento, di scambio (metonimia significa scambio di nome) tra contenitore e contenuto, forma e sostanza, stato e azione, andando a illuminare anche i gesti compiuti dalla medesima persona, ad esempio scrivere un post su Facebook. La bellezza di chi scrive, insomma, diviene la bellezza del testo. E se ci fossero dei dubbi sul primo aspetto, vengono dissipati da una quantità di selfie in pose seduttive e gattamortesche. Da qui la pioggia di like, perlopiù e come ovvio maschili.

Potremmo considerare questa mutazione come un’emancipazione rispetto al vecchio pregiudizio sessista, non ho difficoltà a riconoscerlo. Ma rimane il dubbio che permanga, non solo, una discriminazione implicita nei confronti di donne meno avvenenti – ed è sessismo anche questo – quanto una sostanziale continuità dentro la cultura della confusione.

Non sarebbe allora più semplice e onesto se un bel culo ottenesse il giusto consenso in quanto culo, e un bel pensare, scrivere, disegnare mondi con parole e gesti, fossero premiati al netto dell’aspetto fisico dell’estensore? E che ben vengano le sovrapposizioni di stato, i culi pensanti e le parole avvenenti. Come la già citata e sublime Jane Mansfield.

Dubbio misogino

Ogni tanto, per non dire spesso, mi capita di leggere dei pensieri semplici semplici, sono scritti in una prosa che vorrebbe essere alta e sapiente ma è solo pomposa. Tutto ciò avviene sui social, immagino sia esperienza diffusa.

Dovevano apparire così i miei temi delle medie agli occhi della professoressa Cozzini, che comunque mi dava sempre la sufficienza; quanto fosse generosa lo comprendo solamente adesso. Pensierini, simili a parole adolescenziali e maldestre, a cui in calce trovo un'impressionante quantità di like.

Vado allora a frugare dentro al profilo dell'autore e mi accorgo che appartengono quasi sempre a donne, o meglio ancora donne giovani e belle; particolare attestato da un numero altrettanto considerevole di selfie, le pose sono seduttive.

Ovviamente, non tutte le donne giovani e belle e seduttive scrivono come scrivevo io alle medie, per quanto non ritrovo lo stesso numero di like sotto ai pensieri, ugualmente semplici, di uomini giovani e belli, le cui sciocchezze non si fila come giusto nessuno (a meno che non siano cantanti famosi, sportivi, influencer ecc.).

Dagli e dagli, va così a finire che mi viene un dubbio un po' misogino... E se non fosse un caso? Ipotizzo insomma un antico e scandaloso nesso - bellezza e superficialità -, una relazione non occasionale di cui provo vergogna al solo pensiero.

Pensiero che è rimasto sintonizzato ai tempi delle mie scuole medie, a cavallo degli anni Ottanta. C'era nel periodo un telefilm molto in voga, si intitolava Kung Fu, io lo guardavo tutti i pomeriggi invece di studiare. Il protagonista era David Carradine, completamente rasato interpretava un monaco Shaolin.

Durante una puntata, senza alcuna ragione né preavviso, il monaco sferra un cazzotto sul naso di un ragazzino che passava di lì per caso, glielo spezza. Chi assiste alla scena gli fa allora la domanda che anche a me frullava in testa: "Ma perché l'hai fatto...?!"

E David Carradine, imperturbabile come sempre: "Perché era troppo bello. Da grande sarebbe diventato saputo e arrogante."

Affermazione da cui ricavo due considerazioni finali: 1) grazie a dio quello era solo un telefilm, altrimenti tutte le belle ragazze che incrociamo per strada somiglierebbero a Rocky Marciano; 2) ma quei nasini, fortunatamente integri, hanno un prezzo, che scontiamo ogni giorno scorrendo la bacheca di Facebook.

mercoledì 21 settembre 2022

Capitalismo e depressione

"No era depresión era capitalismo". La scritta compare, tracciata con la vernice nera soffiata da una bomboletta, su alcune facciate a Santiago del Cile, durante le contestazioni del 2019.

Ci ripenso in occasione delle imminenti elezioni, in cui un argomento ripetuto dalla Destra è che la cultura, da decenni, non solamente in Italia è ipotecata a sinistra. Non mi piace l'espressione ipotecare – presuppone un calcolo notarile, che non vedo – ma è un fatto che registi, scrittori, artisti, attori, filosofi sono in buona parte di sinistra.

Evidentemente, lavorare con parole e immagini conduce verso una coscienza politica sbilanciata da un lato, che è anche il mio. Ma mi chiedo: questa diversa coscienza a cosa conduce?

Sui giornali e nelle trasmissioni televisive (semplifico) di sinistra, da qualche tempo è d'obbligo la presenza di psicologi e psicanalisti. Qualche nome: Massimo Recalcati, Umberto Galimberti, Paolo Crepet, Maria Rita Parsi, Stefania e Vittorino Andreoli, Marta Zoboli, Raffaele Morelli ecc.

Di alcuni di loro ho stima, di altri molto meno. Nel complesso mi sembra comunque positivo sollevare il lembo del tappeto sotto cui viene spazzata la polvere, come avviene in una celebre sequenza di Bergman.

Mi viene però ora un dubbio. Tutta questa attenzione psicologica al disagio non sarà un modo per distogliere l'attenzione dalle sue cause; la psicanalisi la chiama rimozione, per quanto si ostini a riferirla solamente a stimoli sessuali.

Ma ci sono anche gli stimoli economici, c'è la vita concreta delle persone entro specifici rapporti di scambio e di potere, che con Marx prende il nome di struttura, da cui la sovrastruttura in cui artisti e intellettuali scoccano le loro frecce. Una visione nuovamente semplificata ma che aiuta a farsi un'immagine dei componenti del motore, una volta ricomposto prende avvio la macchina capitalistica.

In sintesi: il capitale economico tende a gonfiare a dismisura sé stesso, in una forma ormai del tutto svincolata dagli agi che dal denaro si possono trarre. È diventato un simbolo, insomma. Nietzsche lo diceva in modo più suggestivo e forse acuto: "il mondo si è fatto fabula".

Se la fabula del mondo è il capitale e la tecnica, attraverso cui accrescerlo, la sua leva, concentrarsi sugli effetti psichici è allora fare cattiva psicologia, già che si rinuncia a quella componente preliminare costituita dall'eziologia.

Tutto ciò porta alla riemersione del sintomo, mi sembra inevitabile. Che inascoltato anche a sinistra, soprattutto a sinistra e con maggiore responsabilità, come una psoriasi grida sulla pelle di Santiago del Cile. A ricordarci che quella che chiamiamo genericamente depressione possiede un nome più preciso: capitalismo.

E avere smesso di indagare il suo inconscio post industriale e finanziario equivale non solo a fare cattiva psicologia, ma cattiva politica.

giovedì 15 settembre 2022

La differenza italiana


Se venisse dimostrato che un importante partito italiano ha ricevuto una quota dei trecento milioni di dollari elargiti dal Cremlino, secondo l'intelligence americana, a una ventina di forze politiche europee a partire dal 2014, mi chiedo: gli elettori di quel partito come la prenderebbero?

Intanto, sotto elezioni, potrebbero mutare intenzione di voto, oppure richiedere un immediato cambio di dirigenza, come negli Stati Uniti avverrebbe per molto meno. Ma qualcosa mi fa credere - sempre se l'importante partito a cui penso, ci stiamo pensando tutti, fosse coinvolto, siamo pur sempre garantisti - che la cosa inciderebbe in misura prossima all'irrilevanza. Non cambierebbe nulla, insomma.

La cosiddetta differenza italiana si giudica anche da questi particolari, come un giocatore si giudica dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia. Lo cantava Francesco De Gregori in una canzone in cui ci siamo sempre riconosciuti  il Paese della fantasia diciamo con orgoglio, della creatività, la moda, gli stilisti. E poi il coraggio nel rischiare a fare impresa, l'altruismo se non altro verso i membri del clan, la famiglia e i figli prima di tutto.

Eppure esistono anche altri particolari. L'indifferenza, il fatalismo, l'autoindulgenza di derivazione cattolica, per cui una bella confessione rimuove anche le macchie più ostinate, secondo lo slogan di un noto detersivo. E in ogni caso le cose si aggiustano e una mano lava l'altra, in fondo lo fanno tutti.

Particolari antropologici, prima ancora che politici. O meglio politici perché antropologici. Quindi basta sputare contro il Palazzo: indirizziamo il fiotto di saliva verso lo specchio, se proprio vogliamo esercitarci al tiro al bersaglio.

Dacci oggi la nostra polemica quotidiana

Non credo ci sia molta differenza tra i tifosi del Livorno che accolgono l'ingresso dei giocatori intonando Bella ciao e Laura Pausini che al contrario si rifiuta di cantarla. Il livello è il medesimo: tifo da stadio, anche in chi ora la critica. Massì, che canti pure ciò che le pare, il repertorio non le manca.

Ma un conto è criticare e un conto preferire  di gran lunga, nel mio caso  i tifosi del Livorno all'interprete romagnola che recalcitra; mi ricorda una minuscola barchetta nel golfo di una città piena di fiori. "Guarda che belli i fiori in quella città che mai mi ha visto e mai nemmeno mi vedrà", intona Francesco De Gregori in una canzone dedicata a Luigi Tenco, riferendosi al festival in cui ha concluso la sua vita e Pausini trovato investitura, "guarda che mare, guarda che barche piccole che vanno a navigare..."

Mentre la musica e il testo di Bella ciao, chiunque la canti, non serve neppure essere intonati o politicamente schierati per dire no alla prepotenza fascista, non equivalendo a un sì per nessuno dei piatti di portata nell'attuale menu elettorale, al cospetto della Pausini sono l'Amerigo Vespucci con tutte le vele spiegate.

domenica 11 settembre 2022

Livella

Alessandro Gassmann, un attore dagli infiniti denti e centimetri e capelli che può piacere o meno (a me piace, pur scontando il confronto inevitabile e perdente con il padre), ha accolto la scomparsa della regina Elisabetta con parole di misurato cordoglio, dichiarando, su Twitter, simpatia verso una persona che incarnava un ruolo a lui evidentemente meno simpatico.

Evita infatti ogni riferimento alla regalità, definendola, senza alcun sarcasmo, "anziana signora" che ci lascia; e come in ogni vita che si spegne rimane una voragine affettiva in chi l'ha conosciuta e le ha voluto bene.

Si chiama morte, e come suggeriva uno dei nostri più grandi attori, forse perfino più grande del padre di Alessandro Gassmann, rappresenta una sorta di livella, che riconsegna alla medesima prospettiva orizzontale re, regine, principi e loro vetturini, intabarrati sulla cassetta della carrozza dal cui tiepido interno i regnanti salutano la folla.

Irriverente, come a molti è apparso a partire dal consueto incontenibile Sgarbi, non è dunque il mancato riferimento allo status sovrano di Elisabetta, e piuttosto chi oltre la livella della morte continui a proiettare categorie del tutto storiche e simboli di un potere che si vorrebbe semidivino, ma a ben vedere fin troppo umano; totem e tabù li chiamerebbe Freud. Senza la sua finezza di analisi, a noi laici e repubblicani, fanno però un po' sorridere.

Tanto che lei stessa, regina finalmente tornata donna e poi, un giorno, senza fretta, polvere, forse gradirebbe un saluto livellato all'assenza del suo corpo, e non alla permanenza del suo scettro; ora passato a Carlo, un signore anch'esso anziano e simpatico e fortunatamente vivo e in buona salute. Non si deve più trincerare dietro cappellini, borsette, valletti e sorrisi a mezza bocca, senza schiudersi mai in quella risata piena e liberatoria che anche la divina Garbo una volta si concesse, in una memorabile sequenza di Ninotchka.

O perlomeno, a me piace immaginarla così: un' anziana o più propriamente vecchia signora, quello di Gassmann era un garbato eufemismo, che sulla stessa nuvoletta di Battiato se la ride del pollaio social, dove "stupide galline si azzuffano per niente", contendendosi la Bastiglia che da secoli non esiste più; al suo posto una piazza in cui si innalza la Colonna di luglio che culmina con la statua del Genio della libertà di Dumont. 

Intanto, alle 11 in punto, a Buckingham Palace, uomini muti con una giubba rossa e un peluche di vera pelle d'orso canadese in testa, replicano l'immutabile rituale del cambio della guardia, e va ugualmente bene così. A ciascuno i piccoli inoffensivi giochi che preferisce. Da noi si è giocato alle libere elezioni il 2 giugno del 1946, per decidere le sorti della monarchia. Ma in questi tristi giorni non tutti si ricordano del risultato.

venerdì 9 settembre 2022

Amoreee!


Le giovani donne che esclamano "amoreee!" ogni volta che incrociano un cucciolo, meglio se di razza, mentre si chinano leggermente in avanti nella direzione dell'animale (nel farlo accostano le ginocchia lasciando temere che stiano per calarsi il perizoma e fare pipì), sono le stesse che dicono "No grazie, non ho bisogno di niente" quando un mendicante protende la mano. Come se egli offrisse, e non richiedesse, qualcosa.

lunedì 5 settembre 2022

Breve manifesto per una Sinistra realistica, e un poco stronza

Si dice che la Sinistra perderà – e perderà quasi certamente – le prossime elezioni per eccesso di frammentazione. Una sua vecchia tara a cui possiamo dare anche il nome di egoismo: ogni partito, partitino, corrente e giù giù fino al singolo militante è incapace di mediare sulle proprie aspirazioni politiche, in un rapporto dialettico con forze diverse ma complementari. Come se ogni mediazione fosse sinonimo di impurità.

A me pare che questo atteggiamento, incontestabile, inquadri solo parte del problema, forse nemmeno ciò che più incide nella perdita di consenso. Esiste infatti anche l’altra proverbiale faccia della medaglia, che simmetricamente possiamo far coincidere con l’altruismo. Intendo: e se la Sinistra non fosse invece troppo altruista, e cioè ipotecata dal fantasma dell'altro a scapito della polpa di sé?

Mi riferisco alle politiche (spesso condivisibili e virtuose) a favore di minoranze neglette; gli extracomunitari, la diversità di genere, il movimento LGBTQIA+ ecc. Ma fatta salva la bontà delle intenzioni, quanti sono gli extracomunitari che votano (nessuno, se non contiamo quelli successivamente integrati e con cittadinanza italiana), oppure i transgender, gli indiani cicorioni per i cui diritti si batteva un giovanissimo Nanni Moretti, o ancora chi sia interessato a vedere il suffisso di genere convertito nell’indifferenziato della\o schwa?

Esattamente non so, ma immagino pochi, molto pochi. Ho letto nei giorni scorsi numerosi commenti ironici su Walter Siti. Riguardavano un suo articolo su Domani in cui lamentava la scarsa attenzione del PD nei confronti degli “operai e delle campagne”, a essi sostituendo la prospettiva, compassionevole, della classe media acculturata, che assume da oltreoceano i sensi di colpa per il colonialismo dei secoli scorsi. Una disposizione che quando vuole essere schernita prende la sigla (inflazionata) di radical chic, altre volte di Veltronismo o di Jovanottimsmo: "credo in una grande chiesa che va da Che Guevara a Maria Teresa", ma senza un metalmeccanico che sia uno.

Come se operai e contadini, a giudicare dalla reazioni al testo di Siti, rappresentassero variabili politiche eccentriche, anacronistiche. Di certo sono comparti professionali fortemente ridimensionati negli ultimi decenni, quale effetto delle esternalizzazioni, della New Economy, il terziario avanzato e la precarizzazione del lavoro. Ma è un fatto che contadini e operai ancora esistono, e votano al pari dei transgender.

Vanno aggiunti al presepe postmoderno i disoccupati, gli esodati, i corrieri espressi, i lavoratori a cottimo e, più in generale, i mal pagati e i drop out. Se volessimo sintetizzare questa molteplicità poliforme potremmo anche chiamarla senza troppe forzature poveri, che ora si dice votino a destra. In ciò è contenuta una mezza verità, a coprire ciò che a sinistra ancora rappresenta un tabù: la specie a cui apparteniamo è intimamente egoista, e quando stai andando a fondo pensi come prima cosa ad afferrare un salvagente; poi, eventualmente, a salvare gli altri.

I partiti storici della Sinistra, a cominciare dal Partito Socialista e da quello Comunista che si rese indipendente nella scissione di Livorno del 1921, con strategie ed esisti diversi non hanno mai rimosso tale dato antropologico, perseguendo il proprio interesse particolare (la famigerata dittatura del proletariato) prima ancora di quello del Paese; concetto forse troppo astratto per smuovere voti e passioni. Nel Paese reale ci stavano infatti anche nobili, proprietari terrieri, capitani di industria e banchieri. Il Paese erano insomma due paesi, e il mondo due mondi. Se una differenza possiamo riscontrare con il passato è che quei due mondi sono nel frattempo divenuti multimondi, ma sempre disposti sulla scala gerarchica del privilegio. Che rende più che mai attuale la nozione politico spaziale di Sinistra.

Distinguere il grano dal loglio a proprio vantaggio – e utilizzo di nuovo un termine politicamente scabroso – appariva nel passato prossimo della prima Repubblica la scelta politica più spontanea, a scapito talvolta della giustizia. Un altro concetto astratto quando fatichi a mettere assieme il pranzo con la cena. Roba da filosofi, o da nuova sinistra dei diritti. Se volessimo giocare al gioco delle sedie, è come se la Sinistra cercasse ora di occupare il posto lasciato semivacante dal liberalismo radicale; quello che diede vita al Partito Radicale Italiano, non a caso. Che non era di sinistra.

Eppure non è vero che la Destra, anch'essa giocando lo stesso gioco e scivolando sulle faglie dischiuse dalla storia, abbia occupato la sedia della Sinistra sociocomunista, prendendo a cuore la moltitudine degli svantaggiati; meglio chiamarli così, già che anche le classi sociali sono nel frattempo diventate fluide. Pensiamo alla flat tax, a chi giova?

Non certo agli operai e ai contadini di cui Siti ci ricorda l’esistenza. Ma perché allora la Sinistra non si congeda dal suo atteggiamento fintamente super partes e lo afferma senza falsi pudori: se sei ricco non votare per noi, la Destra fa piuttosto al caso tuo. I servizi pubblici saranno probabilmente migliori, ma ti costeranno qualche soldo in più, ebbene sì, un po’ dei risparmi che hai accantonato per le dodici future generazioni di rampolli biondi e bellissimi che frequentano scuole steineriane. Ma se invece vieni messo a margine dalla ristrutturazione finanziaria, amico mio, noi siamo egoisti quanto te, non vogliamo annegare! Uniamo allora le forze e infiliamo un bell’ombrello nel sedere a chi cerca di infilarlo a noi, come avviene nelle vignette di Altan.

Purtroppo non è quanto avviene nella campagna elettorale in corso. La Sinistra, questa Sinistra è troppo buona, troppo ingenuamente altruista per ammettere un autentico crimine psichico come l’egoismo. Lacan diceva che il vizio costitutivo della Sinistra è la bêtise, ossia la stupidità, e quello della destra è l’egoismo. Per vincere la Sinistra non ha bisogno di diventare intelligente, già che l’intelligenza, come il coraggio, uno non può darsela da sola. Ma egoista sì, egoista almeno quanto la Destra. E alla fine i poveri sono sempre stati e sempre saranno in numero superiore ai ricchi, per loro la democrazia dovrebbe essere una cuccagna: la mano che infila il voto nell'urna come quella che coglie la mela matura dal ramo, senza nessun padrone o Dio a dirti non toccare, è roba mia!

Invece non è così. Come ogni altra cosa, nel presente anche la politica ha finito con l’essere attraversata da correnti finzionali, e al proprio immediato tornaconto si sovrappongono ombre cinematografiche, rappresentazioni a forte carica affettiva e desiderante. Si tratta di una forma di perversione più sottile della demagogia del siamo tutti buoni volemose bbene, che secondo le categorie psicanalitiche potremmo chiamare identificazione proiettiva.

Da qui il paradosso politico, non solo italiano, per cui un poveraccio (ed esistono ancora anche i poveracci, oltre a operai e contadini) smette di riconoscersi in quei partiti politici che ne favoriscono gli interessi concreti, e piuttosto si disincarna per ricostituirsi entro i confini di un’immagine virtuale di sé. Lo schema para-logico è il seguente: provvisoriamente mi trovo in una situazione di merda, ok, ma se vinco al gratta e vinci – e prima o poi vincerò! – verrò ammesso al privè del Billionaire. Se quello è mio vero io, di conseguenza voterò per i partiti che fanno gli interessi del mio futuro ipotetico, non del mio presente reale (e marginale).

Il compito di una Sinistra che si proponga come rappresentativa prima ancora che vincente – o meglio: vincente perché rappresentativa dei molti sui pochi – diviene così particolarmente arduo, sdoppiandosi in un processo ugualmente necessario di svelamento: liberarsi dall’abito della finta bontà, in cui viene occultato il proprio interesse troppo umano per essere ammesso in un sequel di Bambi, oltre che dalla menzogna che perverte la realtà in sogno, per consegnare all’incubo il risveglio. Se fossi lo Spin Doctor del PD il mio slogan sarebbe: stay awake, e stay nu poco strunzo pure…