martedì 15 marzo 2016

Goodbye Peppa, o sulla riconoscenza



In una vecchia canzone dedicata a Francesco Guccini, Roberto Vecchioni, attribuendo allo stesso Guccini le parole, intona da principio: “Mi è andato il cane sotto un camion quella sera, \ ho pianto come un vecchio sopra una bandiera, \ se fosse stato un compagno basco avrei pianto di meno”.

Le canzoni vengono in mente così, sotto la doccia o quando la ragione è ormai ampiamente in affanno, e quel che si prova lo si può solamente cantare. Mi piace pensare che il melodramma sia nato a questo modo. Anche perché, al netto di una musichetta un po' patetica stile Alunni del sole, ciò che ho da dire può essere riassunto in un giro di parole davvero modesto, un po' verbale dei Carabinieri e un po' necrologio su un domenicale di provincia: martedì 15 marzo 2016, alle 00.32, è venuto meno all’affetto dei suoi umani un cane di nome Peppa. Era un Golden Retriver di tredici anni e una manciata di giorni, tutti trascorsi insieme a noi. Era anche vagamente sovrappeso. Però ci voleva bene. E noi volevamo bene alla Peppa.

Mentre stava ormai rantolando, io e mia madre, accucciati al suo capezzale come infinite volte lei aveva fatto ai nostri piedi, abbiamo accuratamente evitato parole quali morte, morire, tirare le cuoia e numerosi altri sinonimi. Da alcuni anni sospettavamo infatti che avesse imparato la lingua italiana, cercavamo di non spaventarla e illudere allo stesso tempo anche noi.


Ma la Peppa si è mostrata per la prima volta coraggiosa, che lezione ci ha dato, l'ultimo colpo di scena del vecchio attore sul viale del tramonto. E non solo non si è nascosta alla morte, come faceva a Capodanno con i botti, ma ha fatto tutto quasi fosse mossa da una fretta giudiziosa, non volendo forse procurare fastidi e in generoso anticipo sugli imminenti lavori di ristrutturazione dell'ascensore. Quattro piani di scale, troppi per le sue anche malferme, con me e la mamma che ci chiedevamo come avremmo fatto per i suoi bisogni.

E invece solo quell’ultima pisciatina che proprio non ha saputo trattenere, prima volta che succede in una lunga vita a dividere tutto, anche i programmi in tv (alla Peppa piacevano molto i documentari sugli animali, Superquark, mentre si appisolava con i politici che parlano). Subito dopo, distesa su un fianco, esausta e con la coda umida e floscia, ci guardava con stupore misto a un'incontenibile vergogna. La stessa espressione di quando, ancora cucciola, aveva mangiato un'intera forma di taleggio dimenticato in terrazza, e le è venuta la cacarella.

Nel frattempo al 112 non sapevano dirmi se esistesse un numero di emergenza veterinaria notturna, al 118 sembravano addirittura scocciati (stronzi!), il respiro che da affannato si fa singulto, gli arti tesi e frementi e irrigiditi. Con quello sguardo perso, lo sguardo supplice: "Proteggimi dal Male, salvami dal Nulla"! Lo diceva con gli occhi proprio a me, io che giro la testa quando mi fanno un prelievo del sangue.

Ma a un certo punto il musino affilato si fa più disteso, la cassa toracica smette di essere un mantice impazzito, e come Violetta Valery l’illusione che si stesse riprendendo. La Peppa non si è però alzata per intonare l'ultima aria de La Traviata, non ha cercato l'applauso finale del pubblico.

E' rimasta lì, semplicemente. Non erano trascorse nemmeno tre ore dall'inizio della crisi  lo stesso tempo di una rappresentazione operistica, il lancio finale di rose al soprano che si inchina lasciando intravedere il seno prosperoso  e forse era già tornata al Regno del Grande Bracchetto, come lo chiama Schulz nelle strisce dei Peanuts. Avete già visto morire un cane, il vostro cane? Sembra la cosa più naturale del mondo, può essere riassunta in una frase altrettanto logora e concisa: “togliere il disturbo”.

Il guaio è che non disturbavi affatto, cara Peppa. Non hai mai disturbato. All'inizio pensavamo tu avessi un problema alle corde vocali, eri l'unica della cucciolata a non abbaiare mai, zitta e mosca anche al passaggio del postino. Preferivi stare in disparte, così ti ho vista la prima volta nel cortiletto di una villetta geometrile a Sotto il Monte, il paese in cui è nato il Papa buono. In un cantuccio, l'aria trasognata, forse osservavi la scia che grattano i jet sulla pelle del cielo, la più piccola e magra tra fratellini che ti camminavano in testa. Sembravi Calimero, ma schiarito in candeggina.

La veterinaria che ti vendeva (che brutta parola, in generale, che orrenda parola se ora l'associo a te!) mi ha detto con un buffo accento bergamasco: "Ci sono questi, questi otto diavoletti biondi, e poi c'è lei. Ma lei è diversa, non so come spiegarmi... E' diversa." Lei eri tu. Lei era semplicemente "la Peppa", nome che è venuto di getto e in ampio anticipo sulla Peppa Pig

Per questo ti abbiamo scelta senza alcuna esitazione, ora posso confessartelo. Per la tua minuta diversità. Non sapevamo che eri invece denutrita a causa di un'innata timidezza, mentre gli altri, i diavoletti biondi, ti rubavano la mammella e tu lasciavi fare, non eri certo una femmina alfa. Ma con la compiacenza alimentare di tutte le nonne e i nipotini dei giardinetti di via Parolo, saresti poi arrivata agli attuali quarantadue chili: altro che Calimero, eri ormai un grosso cigno da merende! Ho preso uno stiramento nel tentativo di raccattare il tuo corpo già irrigidito dal parquet.

Da principio noi dovevamo sembrarti esseri giganteschi provenienti da un altro pianeta, tu invece eri piccolissima, due orecchie immense che si portano a spasso un codino guizzante: una specie di karaoke della canzone Papaveri e papere, che strana cosa vedere invecchiare un animale. Poi sempre più grande tu, muscolosa e gagliarda, pura vita che vive e vivendo si dimentica di tutto. Tutto tranne le crocchette, dai, diciamocelo, che celebravi a ore fisse come le preghiere del monaco.

Se scorgevi un gattaccio a far la posa tra i pitosfori, potevi saltare su un'aiuola di un metro e mezzo e pure più, quante volte te l'ho visto fare anche solo per gioco. Ed era davvero dura contenerti  ci provavamo con il vecchio inganno della pallina, a cui avevi però smesso di abboccare. Fissavi a quel punto la porta con il guinzaglio tra i denti: "Allora, si va nel mondo, si va a nuotare in quel grande mare che voi umani chiamate terra!"

Ma negli ultimi anni l'energia stava calando con lenta progressione, un temporale che rifluisce piano nel tombino. Eri diventata fragile e incerta sulle zampe, pigra, golosa, i numerosi acciacchi ti avevano reso nuovamente bambina. E allora come per magia, opplà, siamo noi a tornare giovani e forti, o perlomeno così dobbiamo apparirti adesso, filtrati dai tuoi occhioni nocciola che si velano di malinconia ogni giorno che passa, ma probabilmente è solo per via della cataratta.


"Adesso?" Accidenti, sto proprio rincoglionendo, parlo ancora di te al presente come fanno i vecchi e i tifosi del Torino, quando attualizzano scudetti vetusti. L'ultimo velo è quello di un telefilm del tenente Colombo, un enorme lenzuolo bianco e sotto il tuo corpo sfinito dagli spasmi, ti abbiamo lasciata così, dove sei voluta andare a morire: al centro esatto della sala, tutti i giorni dopo pranzo andavi lì a scaldarti le ossa.

Domani qualcuno ti porterà via, ti metteranno via come si dice da queste parti con la bocca inclinata, domani tornerà a filtrare il sole da dietro i vetri della sala e bon, io stesso mi dirò che in fondo eri solo un cane. Eppure questa strana notte non sei “solo un cane”, sei come e più di un compagno basco finito sotto a un camion, sei lacrime e canzone, melodramma, sei bandiera conficcata nella terra umida e vigliacca dei ricordi. Con il presente che è un disco incantato, e ripete e ripete e ripete: non hai saputo salvarla dal Nulla, non hai potuto proteggerla dal Male!

"Ogni vita umana è uno schiaffo nel vento", si dice in un'altra canzone della grande interprete rumena Maria Tanase. Ma ogni vita canina che cos'è? L'eco di quello schiaffo, oppure vento nel vento, che si fa respiro nella luminosa frazione di un battito di ciglia, per compiacenza metafisica o magari solo per sbaglio...

Lo vedi quante cose non riesce a comprendere la piccola mente delle immense creature, le stesse che, davvero da un altro bizzarro pianeta, sono piovute un giorno a Sotto il Monte per consacrarti papessa del loro minimo regno di ciabatte, da sgranocchiare all'orlo con paziente dedizione. Ma siamo solamente uomini, sono io, la mamma, noi, a cui subito e con slancio ti sei affidata, credendolo forse un privilegio. E quante cose non riesce a dire la nostra povera lingua, che con ostinazione hai cercato di imparare.

Ma mi viene un dubbio, forse il privilegio è stato mio... Il privilegio e l'occasione di poter dire grazie a qualcuno. Sì, grazie a te amatissima Peppina, che senza mai pronunciare una parola mi hai insegnato una lingua tanto più grande. L'alfabeto di quella lingua muta lo sappiamo noi due soli, non ho voglia di gracchiarlo come una rana a un pantano in estasi di lei. Lo scrive Emily Dickinson in una poesia, inizia dicendo "io sono nessuno! Tu chi sei? Sei nessuno anche tu? Allora siamo in due". In due, si, anche noi siamo stati due nessuno, e quello che ci siamo detti tacendo sarà il nostro piccolo grande segreto. Vedrai che dove sei ora potrai mangiare tutto il taleggio che vuoi, senza nemmeno rischiare la cacarella.