domenica 27 febbraio 2011

Nietzsche, o sulle rose e la vergogna


Non finirò mai di ringraziare il mio amico filosofo Marco Baldino! E' attraverso di lui, per una serie fortunata rimpalli dentro quel grande bigliardo che è Facebook, che vengo a conoscenza di un vecchio filmato in cui è ripreso Friedrich Nietzsche. Almeno, questo è ciò che risulta dalla titolazione su YouTube, da cui proviene il breve video che sto osservando con sorpresa. Alcuni commenti alle immagini ipotizzano però che si tratti di un fake; insomma di un'immagine contraffatta e creata ad arte: l'arte di provocare scalpore, "épater le bourgeois". Ma a me appare verosimile che si tratti effettivamente di lui, del grande filosofo che ha profetizzato l'avvento di un Super-Uomo.

Nietzsche muore infatti il 25 agosto del 1900. Il 28 dicembre 1895, al Grand Café del Boulevard des Capucins di Parigi , i fratelli Auguste Marie e Louis Nicolas Lumière presentano gli esperimenti delle loro ricerche sulla riproduzione visiva del movimento. La Sortie de l'usine Lumière à Lyon è il primo filmato che viene mostrato al pubblico impaziente, in un generale trionfo di meravigliati "ulalalà"! Ci sono stati dunque quasi cinque anni di tempo a disposizione. Tempo impiegato per inseguire, braccare, insinuarsi nell'abitazione di quello che già allora era considerato uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi, e cercare di rubarne qualche scampolo ottico all'oblio.

Oblio che si era però già fatto largo nella mente dell'uomo con la sua consistenza di ovatta, prima ancora che sulla scena mondana di famose località turistiche come Rapallo, Sils Maria, Nizza e il Lago d'Orta, dove Nietzsche trascorre gli unici preziosi momenti di intimità con l'imprendibile Lou Salomè, che nemmeno si ricorda più se in quell'occasione l'abbia baciato o era forse il comune amico Paul Rée...? Anni prima si erano fatti ritrarre assieme in una celebre fotografia: i due uomini come appesi al giogo di un carrettino, e lei, con un'ironia che davvero si fa fatica a scorgere nell'espressione del volto, da sopra mima il gesto di spronarli con un frustino.

Oblio e ovatta che continuano così a gonfiarsi, a crescere nel mix di farmaci con cui il filosofo viene sedato, fino a saturare ogni via d'accesso alla figura su cui si sofferma spietato l'obiettivo: Ecce, ecce homo, sembrano suggerire le immagini tremule e sgranate su YouTube, con un commento sonoro talmente celebre da essermi scordato ormai anche di quello. Ciò che intravediamo è un signore di mezza età con enormi baffi penduli, sta seduto e immobile su di una poltroncina con i braccioli, la coperta distesa sopra le ginocchia come una bandiera deposta dopo una battaglia perduta, dirigendo lo sguardo in una direzione indefinita, remota anche a sé. Se non sapessimo, o non immaginassimo, che si tratta di Nietzsche, penseremmo solamente: un ebete, un idiota.

Eppure dal 3 agosto del 1889, quando Nietzsche per la prima volta manifestò pubblicamente i segni della crisi abbracciando un cavallo che veniva malmenato dal cocchiere, lo abbraccia e scoppia in lacrime di fronte al teatro Carignano di Torino, agli ultimi anni in cui fu ospite dall'equivoca sorella Elisabeth nella grande casa di Weimar, il termine più appropriato con cui definire l'uomo distrutto che osserviamo con crescente disagio è forse proprio questo: ebetismo.

Nel filmato che in effetti non finisce di convincere - il sospetto è quello che si tratti di fotografie autentiche ma movimentate attraverso la disponibilità dei nuovi software –, alle immagini imbambolate del soggetto vengono sovrapposti brevi inserti testuali, espunti senza un evidente filo logico dalle opere più famose del filosofo. O forse il filo logico è proprio lo scalpore, la ricerca dell'ossimoro spiazzante tra attuale degrado fisico e trascorsa acutezza intellettuale. Si inizia con:

Cosa rende eroici? Muovere incontro al proprio supremo dolore e alla propria suprema speranza.

Continuando: In cosa credi? In questo: che i pesi di tutte le cose devono nuovamente essere determinati.

E ancora: Cosa dice la tua coscienza? Che devi diventare quello che sei.

Per arrivare all'esito più terribile e noto del suo pensiero: Dove stanno i tuoi più grandi pericoli? Nella compassione.

Da cui si approda all'affermazione che io trovo più potente e incisiva di tutte: Chi chiami cattivo? Chi mira soltanto a incutere vergogna.

Premessa a una conclusione necessaria quanto struggente: Che cosa è per te la cosa più umana? Risparmiare vergogna a qualcuno.

Risparmiare vergogna... Io provvisoriamente me lo appunto su un foglietto, si sa mai. Secondo me ci tornerà utile in futuro: risparmiare vergogna, risparmiarla a qualcuno.

Ma torniamo a Nietzsche, il Nietzsche pubblico, che è una costruzione culturale derivata dalla lettura dei suoi testi, e in particolare da quello che avuto forse maggiore successo e diffusione: Also sprach Zarathustra. E' infatti principalmente dallo Zarathustra, oltre che ovviamente dall’Anticristo, che ricaviamo quell'idea di trasvalutazione di tutti i valori dentro il progetto di una nuova umanità liberata, nel segno di una potenza volitiva affrancata dai vincoli morali della tradizione, specialmente cristiana. Un progetto e una visione filosofica che entrano dunque in violenta e frontale collisione con le immagini che scorrono con estenuata lentezza sul monitor del mio pc. Tanto l'uomo che osservo appare inerme e passivo - “in-potente” - tanto l'ideologia nietzschiana si propone come attiva e desiderante, veicolando un'idea di sconfinata potenza.

Ma vediamo allora meglio cosa significa questo termine: potenza. Sul dizionario on-line della Hoepli, che per comodità ho consultato, viene detto solamente:

Potenza [po-tèn-za] s.f. 1) Capacità d'azione di una forza fisica o di un'autorità; l'essere potente: la p. economica e militare di uno Stato; p. fisica; 2) Forza, energia: la p. di un uomo robusto; la p. del temporale ha provocato un black-out. CON. Debolezza.

La potenza viene dunque posta immediatamente in relazione con qualità attinenti l'azione, il fare piuttosto che l'essere, semplificando; solo per breve accenno ci si riferisce all'essere potente, che è appunto colui che ha la possibilità e i mezzi per fare. Ma se vogliamo addentrarci in una prospettiva più sottile - più "nietzschiana" - oltre alla facile e scontata distinzione tra essere e fare, esistono anche comportamenti attivi il cui obiettivo non è puramente materiale, ma indirizzato a una sfera spirituale d'esistenza. Ad esempio lo sforzo, del fare, per "diventare ciò che si è”.

Nel pensiero di Nietzsche è dunque già da subito presente questa ambiguità tra potenza attiva e potenza passiva, che, semplificando ancora, noi potremmo caratterizzare come “potenza del fare” e "potenza dell'essere", intesa quale qualità dello spirito e della consapevolezza. Eppure, da molti, forse dalla stessa sorella Elisabeth e dal suo orribile marito, queste qualità spirituali e riflessive vengono scambiate per debolezza, che per il dizionario Hoepli rappresenta il contrario linguistico di potenza. Non dico, attenzione, che abbiamo ragione noi e torto la vulgata dei superomisti della purezza ariana (mi limito a pensarlo, ecco), ma provo a insinuare un dubbio interpretativo, che attraversa tutta la produzione del filosofo. O forse, più che un dubbio da cui districarsi in una definitiva scelta di campo, si tratta di un elemento filosofico d'ambiguità. Perfino necessario, a ben vedere, per una corretta interpretazione del suo pensiero, che ci porta a riconsiderarlo come intimamente paradossale.

Pensiamo anche solo alle due brevi affermazioni già incontrate. L'una in cui viene sbrigativamente liquidata la compassione - “Dove stanno i tuoi più grandi pericoli? Nella compassione.” - e l'altra in cui si cerca di risparmiare agli altri il sentimento della vergogna - “Che cosa è per te la cosa più umana? Risparmiare vergogna a qualcuno.” E si noti, non viene detto che la vergogna deve essere risparmiata a un amico, a un conoscente, ma semplicemente a qualcuno, e cioè a una soggettività genericamente dotata di presenza ed emozioni. Potremmo arrivare perfino a ipotizzare che questa soggettività a cui risparmiare l'estrema onta che per Nietzsche non può essere morale, ma sentimentale, della vergogna, sia quella di un animale, di una sensibilità non super-umana ma "ipo-umana"... Un cavallo, addirittura!

Ma poi perché dovremmo risparmiare vergogna a qualcuno? E che ci importa di quel cavallo malmenato da un impaziente cocchiere, se non proviamo un seppur minino moto di riconoscimento, qualcosa come un'empatia, forse il ricordo della medesima situazione a cui per scherzo ci siamo prestati sotto l'invisibile giogo di Lou Salomé, offrendoci con volto pudico e corrucciato al lampo di magnesio che accompagna la fotografia? Una tortuosa equazione mentale che senza difficoltà potremmo semplificare dentro la formula di un solo termine: compassione.

Un sasso non prova emozioni e sofferenza, e verso un sasso non avvertiamo l'urgenza di preservarlo dalla percezione forse più lacerante, quella della vergogna La "cosa più umana" di cui Nietzsche parla quando invita a preservare qualcuno dalla vergogna, si mostra allora come realmente super-umana, scavalcando i confini di una visione singolare in cui il soggetto stia ancora al centro Tolemaico del mondo - "dopo Copernico l'uomo scivola dal centro verso la X", scrive il filosofo - e si fa carico non solo della propria ma anche della vergogna altrui. Con compassione. Da qui una domanda altrettanto inevitabile: che cos'è, allora, esattamente, la vergogna?

In una pagina davvero ispirata, Jean-Paul Sartre ci offre una preziosa indicazione: La vergogna non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile, ma di essere in generale un oggetto.

Un oggetto che si distingue da un soggetto proprio per la mancanza di presenza e intenzionalità, emozioni e sentimenti, infine di consapevolezza che nasce dalla riflessività. Un oggetto finisce così con l'essere un semplice strumento a uso e consumo di altri, un mezzo privato da fini, direbbe Kant. E perfino il dolore, quando non sa ancora di essere dolore, come in un cavallo, o in un neonato, è vergognoso non tanto per chi lo subisce, ma per chi lo provoca. La vergogna consisterebbe dunque non tanto in chi vede esibita la propria consistenza di “oggetto”, ma in chi reifica qualsiasi soggetto dotato di autopercezione o di proprietà emotiva.

Nel filmato che ho osservato con viziosa partecipazione su YouTube, Nietzsche non è più un soggetto con finalità e intenzioni proprie, ma un semplice oggetto a disposizione delle strategie visive dell'operatore, che potremmo far coincidere con la volontà di indurre un generale sentimento di commozione per il filosofo; obiettivo più che raggiunto, tra parentesi. In altre parole l'operatore ci trasferisce, come una multa che arrivi a destinazione con più di un secolo di ritardo, il sentimento di vergogna che Nietzsche non è più in grado di provare per sé. E ciò non per essere associato a questo o quell'oggetto criticabile, come scrive Sartre, ma a un semplice oggetto, uno strumento come tanti nell'accogliente casa di Weimar, dove viene manovrato con teatrale astuzia dalle sapienti grinfie della sorella Elisabeth. L'operatore sta insomma facendo la più grande e possibile offesa a un essere umano: lo sta mostrando al pubblico come un servizio da tè, e di questa oggettivazione di Nietzsche noi siamo complici. Provandone una sacrosante e meritata vergogna.

(Se vogliamo fare un po’ di allenamento concettuale per capire come funzioni il meccanismo, basta accendere il televisore e sintonizzarci su un telegiornale, uno a caso, ma meglio se è un telegiornale Mediaset e ancora meglio se si tratta del TG4. Ecco, il meccanismo è quello lì. Per intenderci.)

Eppure, nell'indiretto sentimento di vergogna per le misere condizioni dell'uomo – uomo? - che vediamo spegnersi sopra a una composta poltroncina, noi avvertiamo, contestualmente, anche qualcosa come una pienezza, sorta di pena che però non ci impoverisce ma anzi aumenta la percezione che abbiamo del presente, sperimentiamo l'attimo con maggiore potenza. Proviamo allora ad accostare questo sentimento sfuggente con una della pagine più belle di Louis-Ferdinand Céline:

Arrivò il momento della partenza. Andammo una sera verso la stazione un po' prima dell'ora in cui tornava nella casa. In giornata ero andato a salutare Robinson. Non era contento nemmeno lui che lo lasciassi. Non la smettevo di lasciare tutti. Sulla banchina della stazione, aspettando il treno con Molly, passarono degli uomini che fecero finta di non conoscerla, ma bisbigliarono delle cose.
"Ecco che sei già lontano, Ferdinand. Tu fai, vero, Ferdinand, esattamente quel che hai voglia di fare! Ecco quel che importa... E' solo questo che conta..."
Il treno è entrato in stazione. Non ero più molto sicuro della mia avventura quando ho visto la macchina. L'ho abbracciata Molly con tutto il coraggio che avevo ancora nella carcassa. Avevo una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini.
E' forse questo che si cerca nella vita, nient'altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire.

E mi segno così anche questa frase, da quel capolavoro che è il Voyage au bout de la nuit, nel mio foglietto: una grande pena, nient'altro che questo. La più gran pena possibile per diventare se stessi. Prima di morire.

Ma torniamo a bomba al nostro Nietzsche. No, non quello che abbiamo dimenticato sopra a una poltrona con una coperta floscia sulle gambe inermi. Di quello possiamo pure dimenticarci per un momento, senza infliggerci nuova vergogna. Piuttosto ricordiamoci del Nietzsche che ci sprona non tanto a essere, genericamente, quello che siamo, ma a diventare la nostra identità con uno sforzo dell'intenzione: diventa ciò che sei!

Una coincidenza se anche Céline, il burbero Céline, ci invita a non aderire passivamente ai nostri umori, ma a diventare attivamente quel che siamo...?

Ma come possiamo diventare – e soprattutto chi - se la nostra identità non corrisponde con i confini del corpo, che fa di noi un oggetto passibile di vergogna? Al punto che viene da chiederci se ciò che ci riempie di potenza non sia tanto il poter fare, come suggerisce il dizionario Hoepli, ma un'indefinita esperienza interiore. Perché nel fare, nell’azione indirizzata a un fine materiale, per quando sforzo ci mettiamo saremo sempre modesti, comunque inferiori e miseri rispetto a una divinità occhiuta che indifferentemente dispone dei nostri corpi, come una sorella che ci metta in posa come ebeti mascherine. La potenza attiva di cui disponiamo potrebbe invece essere quella di una più viva percezione del presente, che ha proprio nella pena la sua manifestazione più drammaticamente accessibile.

Un teologo cattolico che io ho amato molto, Sergio Quinzio, ha scritto che gli attributi di onnipotenza e di misericordia, associati alla divinità giudaica e quindi cristiana, si sono mostrati storicamente incompatibili. Dopo Auschwitz e il mancato soccorso di Dio, come si può ancora pensare a una divinità misericordiosa, pronta a sorreggere i indirizzare i suoi figli con farebbe un buon padre? O forse Dio non ha “potuto” prestare soccorso a un'umanità perfettamente oggettivata – e quindi svergognata – nelle atroci pratiche dello sterminio nazista, di cui Elisabeth Nietzsche era una fervente sostenitrice. Un'intuizione simile doveva stare alla base anche delle considerazioni di Voltaire sul terremoto di Lisbona del 1755, che utilizzò come argomento polemico contro l'ottimismo filosofico del suo rivale Leibniz. Per arrivare al quesito estremo che erutta dalla gola di Ivan, nei fratelli Karamazov di Dostoevskij:

Padre, perché i bambini muoiono?

Sergio Quinzio, ritornando di continuo su questa interrogazione bruciante, che nella sua irradiazione magmatica ustiona tutta la riflessione non solo filosofica del Novecento, non trova però una risposta teologica soddisfacente. Non riuscendo a salvare capra e cavoli (onnipotenza e misericordia) Quinzio finisce così col propendere per un interpretazione che metta in salvo almeno il lato compassionevole della divinità: non più onnipotente, d'accordo, ma almeno misericordiosa.

Questa uscita laterale del suo pensiero a me però non ha mai convinto del tutto... Infatti, fino dai tempi antichi, quando ci riferiamo a un principio superiore a cui attribuiamo gli ornamenti culturali di una divinità storica, lo facciamo nella ricerca di una causa prima che ci sfugge: io posso provare un sentimento di amore e compassione, come Giobbe verso i suoi figli, ma non sono in grado di riportali in vita quanto Satana me li tolga con il consenso esplicito di Dio. E non sono nemmeno attrezzato per generare mondi, far sorgere dal nulla le magnifiche cime che circondano la vallata dell'Engadina, in cui Nietzsche si alzava di buon ora per la quotidiana passeggiata.

Con il termine Dio facciamo quindi riferimento a qualcosa come una causa prima efficiente, un poter fare; e ciò anche quando non faccia, si ritiri, come nel terremoto di Lisbona e nel supplizio di Auschwitz. Un principio attivo, dunque, che ha dato origine a tutto ciò di cui ora possiamo avere esperienza. Se dunque, come Sergio Quinzio, rinunciamo all'attributo dell’efficienza divina (l'onnipotenza) rimane da ricolmare nominalmente tale la funzione: se non è più Dio a creare, di cosa stiamo parlando quando parliamo di Dio?

Nietzsche questo passaggio l'aveva intuito molto bene, e così non credo che avesse deciso di sfidare Dio sul piano della potenza generativa. Piuttosto, come ho anticipato, io sono convinto che la sua idea di Super-Uomo già contesse qualcosa come l’idea di un supplemento percettivo, o se vogliamo di iperbole umana non tanto dell’azione, ma dell’esperienza consapevole. Che è condizione, per la moderna teoria scientifica, anche di una compiuta esistenza fisica. Così senza voler entrare in una materia tanto più grande dei limiti di questo spazio – ma soprattutto dei miei limiti culturali – ricordo unicamente come nella fisica delle particelle si possa parlare tecnicamente di realtà solo alla presenza di almeno un osservatore esterno. Il quale possiede un ruolo funzionale, per quanto ancora misterioso – non esercita infatti alcuna azione fisica, è sufficiente la sua presenza cognitiva – nel far "collassare" in particella tangibile l’onda quantistica che sta alla base dell'intero edificio della realtà sensibile. Prima di tale “collasso”, o se preferiamo possiamo chiamarlo attualizzazione puntuale, non è nemmeno più legittimo parlare di realtà, la quale si presenterebbe nella forma di una stratificazione indeterminata di stati compossibili di localizzazione.

O detta in altre e più semplici parole: fino a che un uomo o un cavallo non l’osservi, la realtà non esiste.

Specularmente a questa nuova evidenza che proviene dalla ricerca subatomica, il fatto stesso che qualcosa sia causa di qualcos'altro, non significa che queste “cose” – e sto volontariamente usando un sostantivo impersonale – prima dell'intervento esterno esistano come noi siamo abituati a intendere tale termine. E cioè avendone esperienza, percezione. E' infatti possibile che lo statuto di realtà sia determinato proprio dalla relazione tra le parti, ne sia insomma la condizione. E ciò è filosoficamente compatibile con l'idea di una divinità che inizialmente fa, che può, ma che non “è”. O meglio una divinità il cui principio efficiente di potenza dispiegata non esaurisca e contempli tutti i suoi attributi.

Nelle prove ontologiche medievali si afferma che a un Essere perfettissimo non può certo mancare l'attributo dell'esistenza: se fosse infatti solo nel pensiero, sostiene Anselmo, non sarebbe più l'essere più grande è perfetto concepibile dal pensiero, ed entreremmo in contraddizione con il nostro stesso ragionamento. Beh, secondo la moderna fisica dei quanti questa certezza appare quantomeno dubbia... Almeno fino a che un essere molto più imperfetto contempli estasiato tale sublime perfezione. E così, in qualche modo, la determini.

Per esistere, per diventare quel che è, anche la divinità avrebbe dunque bisogno di qualcos’altro, ossia dell’uomo. Ma non di un uomo qualunque: di un Super-Uomo, che sia così gonfio di pena e compassione per ogni cosa, da includere anche la divinità in una nuova visione totalizzante e misericordiosa. Insomma, il principio primo, o causa efficiente, non può intervenire ad Auschwitz né a Lisbona non perché sia disinteressato alle cose terrene, o sia pavido e debole, ma perché non è, o più precisamente "non è ancora". Con ciò intendo dire che non ha acquisito compiutamente coscienza e disponibilità della propria infinita onnipotenza e misericordia, che però già esistono come livello di possibilità, almeno dentro il suo spettro quantistico d'onda. Possibilità che ha dunque bisogno dell'uomo per riconoscersi e determinarsi, e con ciò diventare finalmente ciò che è: Dio.

Naturalmente Nietzsche non è mai arrivato ad affermare esplicitamente questo pensiero, e al contrario ha scritto pagine di assoluto biasimo per la compassione, che abbiamo già ricordato. Ma appunto, a che Nietzsche ci stiamo riferendo? Quello dei suoi testi filosofici, naturalmente. E se invece decidessimo di considerare il “vergognoso” filmato su YouTube non come un incidente di percorso, ma come un momento decisivo del suo cammino filosofico… Momento il cui inizio andremmo dunque a collocare nella sequenza di Torino, di fronte alla folla accaldata che trascorre nel piazzale del teatro Carignano, prima di infilarsi nel fresco di qualche pasticceria commentando distrattamente con il vicino:

Neh, hai visto quel matto che c’era lì fuori, quello con i baffoni che abbracciava piangendo un cavallo?

Non esistono però parole – a parte queste immagini di eloquente vigore – che potrebbero suffragare la nostra provocante intuizione. E così, anche stavolta, tocca andare a ricercarle in luoghi alternativi la filosofia. Ad esempio nella pagine di un altro grande scrittore francese:

...Il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l'ora della partenza fu vicina:
"Ah!" disse la volpe, "…Piangerò".
" La colpa è tua", disse il piccolo principe, "Io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…"
" E' vero", disse la volpe.
" Ma piangerai!" disse il piccolo principe.
" E' certo", disse la volpe.
" Ma allora che ci guadagni?"
" Ci guadagno", disse la volpe, " il colore del grano".

Ogni volta che leggo questo passaggio, giustamente famosissimo, dal Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, mi vengono in mente le parole attribuite a Siddhārtha Gautama, il Buddha storico. Parole che pronunciò dopo che gli venne comunicato di avere appena avuto un figlio dalla moglie, che era anche la propria cugina come un tempo si usava nelle caste superiori, a cui entrambi appartenevano. Un figlio dopo tredici anni di matrimonio, finalmente! Il bambino si chiamava Rāhula, stava benone, e Siddhārtha rispose a chi gli portava la bellissima notizia:

Ah.

Sì, disse semplicemente “ah”. E dopo una lunga pausa di apparente distrazione, aggiunse sconsolato: “Un altro legame, un'altra grana da cui liberarmi...”

Ok, devo ammettere che la traduzione è molto libera, ma la sostanza è quella: il manifestarsi di un legame carnale, quindi sentimentale, è percepito dal Buddha come negativo, un ostacolo verso il percorso che porta alla liberazione nel nirvana. Ma ancora non possiamo sottrarci a una nuova domanda che meglio precisi la materia: cos'è esattamente questo nirvana, di cui ora tutti parlano con moderna convinzione?

Dalla libera enciclopedia Wikipedia:

Il termine nirvana[1], dal sanscrito nirvāṇa esprime un concetto proprio delle religioni buddhista e giainista, successivamente introdotto anche nell'induismo. Ha un ruolo fondante soprattutto nel buddhismo, dove possiede il significato sia di 'estinzione' (da nir + √va, cessazione del soffio, estinzione) che, secondo una diversa etimologia proposta da un commentario buddhista di scuola Theravāda, libertà dal desiderio.

In altri termini il nirvana sarebbe l'esatto ribaltamento del discorso della Volpe al Piccolo principe, quando lo invita ad addomesticarla. E questo perché nel processo di progressiva confidenza che si va creando nel “rituale di addomesticamento”, come lo chiama la Volpe, si vengono a creare e si consolidano dei legami emotivi, che sono ciò che ci trattiene nel qui e ora, nel dominio del desiderio e della sofferenza. Culminante in una seggiola con una copertina smunta sopra alle ginocchia, tua sorella che ti mostra orgogliosa al cineoperatore come un nuovo servizio da tè in porcellana. Ti è nato un figlio, Siddhārtha. Che sfiga.

Buona parte del pensiero e della riflessione di Nietzsche a me sembra andare nella stessa direzione della dottrina buddhista, almeno di quella classica o Theravāda: la liberazione dai legami, dal dolore che nasce dalla presenza dei legami emozionali. Il suo rifiuto della compassione sarebbe dunque una forma di rifiuto al dolore indotto, ai legami emotivi sperimentati nella forma di una contaminazione empatica. Eppure Nietzsche non sembra sottrarsi al richiamo dell’altra causa psichica della sofferenza umana, così come interpretata dal Buddhismo, e cioè il desiderio: “Si desidera il desiderio, non la cosa desiderata”, scrive un Nietzsche ancora provocatorio e sornione. Tanto che la sua esibita potenza è anche o soprattutto una potenza desiderante, in polemica con quella “vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte” tipica del piccolo borghese, che ora esce nuovamente dalla pasticceria accanto al teatro Carignano con un bel fiocco sopra al pacchettino dei gianduiotti. Una vogliuzza per il giorno e un gianduiotto per la sera, "salvo restando la salute.”

In particolare, in Nietzsche e al contrario di Buddha, il desiderio è visto come il principale carburante per l'auspicata e volontaria realizzazione di sé. Si diventa ciò che si è anche desiderando di non essere ciò che non si è. E cioè dei vili che nemmeno più avvertono i passi di una minuscola stellina danzante, dentro il proprio petto. Esistono però anche scuole buddhiste che intrattengono un rapporto più problematico col desiderio, e soprattutto che danno grande importanza all'esperienza emotiva della compassione.

In quella particolare rielaborazione personale realizzata dal teologo indo-spagnolo Raimon Panikkar, il Buddhismo viene ad esempio accostato in chiave dialettica con Cristianesimo e Induismo. La compassione diventa così l'elemento pienamente umano (o super-umano, potremmo parafrasare in omaggio all'alfabeto nietzschiano) che entra in relazione con gli altri termini di quella sua particolare declinazione della Trinità metafisica, da lui chiamata Cosmoteandria. L'essenza che sta alla base di tutto ciò che sperimentiamo, per il grande teologo appena scomparso corrisponderebbe infatti a una sintesi attiva e continua tra Cosmo (o universo, sostanza estesa), Dio (la causa efficiente) e infine Uomo. Ma cosa può dunque apportare l'Uomo, a livello addirittura ontologico, fondativo, che Dio e il Cosmo ancora non posseggono?

Beh, ciò che l'Uomo, in quanto figlio legittimo del Padre – il Cristo storico non rappresenta dunque un’eventualità unica ed eccezionale, ma per Panikkar è un modello universale e accessibile a tutti – ciò che l’Uomo può portare in dono al Cosmo e a Dio è proprio la compassione, una pena orizzontale e diffusa per tutto il creato… La stessa pena, sì, che gonfia la pelliccia morbida della Volpe prima che il Piccolo principe riprenda il suo viaggio interstellare, diretto verso la sua Unica Rosa dimenticata su un pianeta minuscolo e roccioso come uno scoglio. Oppure la pena infinita provata da Ferdinand Bardamu, alter ego di Céline, al momento di separarsi da Molly:

Una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini...

Ma se allora volessimo spingerci in un estremo azzardo filosofico, provando a rileggere la teoria del Super-Uomo di Nietzsche alla luce di questo sentimento, così “vergognoso”, costituito dalla pena, cosa ne potremmo ricavare? Forse proprio che la pena, lungi dal confinare "l'oggetto umano" dentro i confini della propria funzionalità tecnica, è il sentimento che gli assegna quella pienezza soggettiva ancora estranea alla divinità, almeno fino a quando essa venga identificata in un impassibile e astratto Demiurgo. Sono infatti il pathos umano, e forse anche quello animale, vegetale, che trasformano la toti-potenzialità divina in vera presenza vissuta, e ricompongono il dissidio originario tra misericordia e onnipotenza.

Non sarebbe dunque Dio che, cacciando Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, insinua nell’umanità il sentimento del pudore, ma al contrario proprio l'uomo che ritorna a Dio con in mano il dono più prezioso di tutti: la vergogna. L'uomo insegna a Dio a vergognarsi di essere Dio, e ad aver pena di tutti noi che arranchiamo tra pasticcini e cavalli maltrattati.

Queste conclusioni, naturalmente, nella pagine di Nietzsche non ci stanno nemmeno a cercarle con il lanternino. E questo perché sono talmente ovvie e visibili sulla superficie testuale del suo corpo, pietosamente ricoperto dalla sindone di una copertina di lana, in quel compimento mancante della sua opera che è la biografia. Sì, in quel preciso momento Nietzsche diviene davvero ciò che è, ossia Super. E lo è, finalmente, senza più bisogno di cercare altro da quel che già non sia, perché smette di contendere al Demiurgo il primato della potenza desiderante con cui creare i cieli e la terra. Ma solo sente, prova, sperimenta...

Lo scacco matto con cui riesce finalmente a sconfiggere l'ingessata morale della Chiesa istituzionale, sta allora nell'assurda pena di un cavallo. Che nel suo corpo inebetito e muto, a distanza di anni, ancora ci trasmette.

8 commenti:

  1. Libero di preconcetti - notevole questo tuo intervento che parte dalla tanto discutibile teoria del Super-Uomo di Nietzsche.
    E se Dio è morto o in stato di quiescenza, e se un Super-Uomo nel suo intento è confinato da forze esterne ostili e da sedimenti del suo passato, si può sempre desiderare e tentare di diventare Uomini Migliori, varcare la soglia dei nostri limiti, attenti al presente ma anche considerando gl'insegnamenti del passato, sì, con una buona dose di misericordia per tutti noi.
    Con grande stima e simpatia, Anam

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  2. grazie Anam, anche io credo di aver scritto, una volta tanto, qualcosa che esorbita il mio perimetro condominiale. è un intervento che ha richiesto tempo e impegno e concentrazione, inutile negarlo. e che oltre ad avermi aiutato a mettere a fuoco un poco meglio, forse, spero, la figura di nietzsche, che è una ferita aperta per chiunque abbia un minino di intelligenza e sensibilità, mi è servito anche a comprendere come davvero questo luogo sia inadatto a slanci verticali; indipendentemente dagli esiti raggiunti: il più delle volte si atterra dentro una piscina vuota, come fantozzi. per questa ragione che è più che altro una percezione, l'intervento appena scritto segna anche un ripensamento nella mia attività di scrittura sul web. e dunque difficilmente verranno riproposti tentativi del genere. anche se nel caso specifico io non mi vergogno affatto di quel che ho scritto. ma la vita continua...

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  3. A dire il vero la filosofia è un argomento al quale anche io, come tanti altri, mi avvicino sporadicamente. In questo caso mi è piaciuto l'approccio perché è attuato sotto forma di racconto, un po' fantasioso, condito e documentato, profondo e sentito.
    Decisamente l'web è il luogo dove questo genere di espressione ha poco riscontro e se sei arrivato a una tale conclusione non posso fare altro che augurarti buona fortuna in questa vita che va avanti...
    sarei veramente lieto di avere modo di poter leggerti ancora.

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  4. caro (o cara) Anam, più che un racconto, nello sviluppo di questa analisi, davvero molto libera, dell'opera e della figura di Nietzsche, io mi sono affidato alla struttura sintattica del sogno. così non sono andato a ricercare rapporti certificati di causa-effetto, suffragati sul piano logico e filologico, ma semplici connessioni analogiche, secondo quella modalità tipica dell'espressione letteraria chiamata "metonimia". così pur peccando necessariamente di rigore, sono approdato a un esito interpretativo che io giudico interessante. e, a me pare, non del tutto infondato. già che anche i sogni contengono una loro semiologia non del tutto arbitraria. (ti ringrazio per l'attenzione con cui mi segui, assicurandoti che non ho nessuna intenzione di interrompere la scrittura; che oltre le uova strapazzate, temo sia l'unica cosa che io sappia fare...)

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  5. Complimenti , mr. Hauser per la tua conoscenza della Fisica e per come l' hai riportata ( quella delle particelle ) . E l' hai anche capita !
    Continua la coesistenza di fisica e filosofia , come nel Nolano !
    Ti si legge solo in questo blog o hai altri siti ?
    Grazie
    J.M.

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    1. Grazie J., ma la mia conoscenza della fisica delle particelle è davvero da manualetti divulgativi - per altro, per quel poco che ne ho inteso, i vari tentativi di tirarla per la giacchetta facendole dire questo o quello sul vasto mondo, sono dei fraintendimenti della teoria stessa, che ha significato e valore solo nell'infinitamente piccolo. Al limite potrebbe offrire al filosofo qualche spunto ontologico, non fenomenologico. Faccio questa breve precisazione perché la mia è stata un'interpretazione molto libera ed estesa, dunque non scientifica. Una suggestione tra le altre, ecco.
      ps - In questo momento non sto scrivendo da nessuna parte, nemmeno su questo blog, ma cercando di curare il mio occhio (malato) e la depressione che ne è dipesa. Ciao.

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  6. mr. Hauser ,
    per un principio di necessità , che ciò che è vero , anche solo nell' infinitamente piccolo , partecipa anche l' infinitamente grande e in questo trova motivo di esser comunque universalmente vero ( difettiva silloge ? ) .
    Quando ho scoperto che la sola presenza dell' osservatore muta il comportarsi di onde e.m. , da particelle , c' è stato un salto , per me , nell' iper spazio , mi sono commosso .
    La mia " compassione " va ai pochi eroi , questi sì , che pur avviliti da tutti i loro varii " occhi malati " hanno l' atto di ribellione e accendono un bengala e lo gettano più avanti , più avanti che possono !
    Non voglio per questo biasimarti per la tua " depressione " la quale , non parlo tanto da medico , quanto piuttosto da feroce osservatore di me stesso , ha origini lontanissime , verosimilmente non tue ( una madre che in infanzia non ti ha fatto vedere come si rompe " il limite " guardandoti poi negli occhi ? ) .
    Mi verrebbe di dirti , per istintiva simpatia , di prendere il tuo male oscuro e disfartene so , ma so che ci vogliono i cv vapore e come diceva quella vipera di don Abbondio " ...Chi non ce l' ha , non se lo può dare " !
    Ti osservo , quindi sei già diverso : tele- terapia ?
    Saluti
    J.M.

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  7. La meccanica quantistica appassiona da molti anni anche me, per quanto il mio livello di comprensione, e dunque di gradimento, è assimilabile a quello delle mucche con Mozart: fanno più latte, pare, loro, ascoltano Eine kleine Nachtmusik; e io produrrò forse qualche sinapsi in più, leggendo delle peripezie di Bohr e Heisenberg. Il fatto è che della meccanica quantistica è ancora difficile capire cosa "farsene"... Al livello della realtà che sperimentiamo tutti giorni - biglietti della metro da obliterare, file mp3 da piratare, ragazze (a noi) indifferenti da rimorchiare - quelle leggi infatti non funzionano più, e il famoso paradosso di Schrödinger (gatto vivo \ gatto morto) era appunto solo un paradosso, che avrebbe dovuto avvertire sui rischi e le incongruenze nell'estensione del modello quantistico al macromondo - cosa che è puntualmente avvenuta, prendendo alla lettera anche lo stesso paradosso. Temo dunque che i gatti restino morti, o vivi, indipendentemente dal nostro sguardo pietoso su di essi, e le depressioni aggrappate alla nostre vite come le mosche al culo delle vacche. Che, se non altro, possono consolarsi ascoltando Mozart, scuotendo placide la coda. E magari anche noi, anche io, potrei in effetti non tanto "guarire" dalla depressione e dagli infiniti diavoli al culo che ci assillano, ma lasciarla un po' in disparte. Occupando il mio tempo per fare un po' di latte... ;-) (Ma grazie per le belle parole!)

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