Ognuno ha i suoi pregiudizi di cui non sempre va fiero, e quando ne diventa
consapevole si vergogna un po’. Nel mio caso – sono nato a venti chilometri dal
confine con la Svizzera – il pregiudizio coincide con quella nazione e i suoi
abitanti.
Come già ricordava Orson Wells nel Terzo
uomo, se togliamo l’orologio a Cucù (“In Italia, sotto i Borgia, per
trent'anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto
Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento
anni di amore fraterno, democrazia e pace cos'hanno prodotto? L'orologio a
cucù.”), al netto dell’orologio a cucù non mi viene in mente nulla degno di
nota. Svizzera: non pervenuta, come recitava un tempo il bollettino della
temperature quando si parlava di Potenza.
Ok, con un po’ di sforzo possiamo aggiungere l’Ovomaltina e il Toblerone e
la Rivella (una bibita a base di siero di latte), ma poi davvero punto, stop,
questo il contributo elvetico alla storia dell’umanità. Nemmeno sono stati in
grado di produrre una lingua propria – considero Dürrenmatt e Walser scrittori
più germanici che svizzeri, già che in quella lingua si sono espressi, e per la
stessa ragione Jean-Jacques Rousseau è in odor di Francia; in fondo della
Svizzera possedeva solo il principio di irresponsabilità.
Naturalmente non sono in grado di difendere con buoni argomenti le mie idee
al riguardo, e se a contestarmele fosse una ragazza (svizzera) carina le
rinnegherei immediatamente: chi, io? Ma figurati, mai pensato sciocchezze del
genere, ti hanno riferito male. D'altronde i pregiudizi sono scorciatoie per il
pensiero, sono confortevoli, tiepidi, quando fuori fa tempesta ti rimbocchi
dentro ai tuoi pregiudizi, e se anche non smette di piovere almeno sai a chi
dare la colpa: governo ladro, Svizzera ignava. Ma a volte possono prendere la
traiettoria di un boomerang.
Penso a ciò che sta accadendo nel mondo: la guerra, anzi le guerre, i
problemi economici, sociali, la Sampdoria ultima in classifica, più tutto il
carico di sciagure umane e ambientali che si porta appresso questo nostro tempo
obliquo. Apro così la bacheca di un social italiano a caso e leggo. L'involucro
epocale con i suoi drammi rappresenta una sorta di brusio di fondo, simile a
una mosca che non riusciamo a ricacciare fuori dalla finestra: dai, mosca, esci
che non ti faccio niente, guarda che poi mi incazzo e ti spiaccico sulla
parete… Ma quella non vuole saperne.
Allo stesso modo anche chi scrive, ringrazia per i like, flirta con qualche
lettrice compiacente, sembra accostarsi al mondo come a un cadavere da
dissezionare (le cause della morte sono questa o quest’altra afferma con
certezza, un vero talento autoptico) mai sfiorato dal dubbio che attraverso un
massaggio cardiaco il corpo potrebbe rinvenire, la ferita sanarsi per il
tramite di una compromissione con l’oggetto osservato. Ma chi è? Adesso fai
nome e cognome di questo inabile alla vita, questo Zeno Cosini dei nostri
giorni!
Ebbene sì, sono io.
Per qualche libera associazione penso ora alle lettere che Jung inviava
ad amici e conoscenti, in particolare a quelle tra la metà degli anni Trenta e Quaranta, Bollati e
Boringhieri ne ha raccolte 100 in un volume intitolato Esperienza e mistero. Quanta intelligenza, acutezza, precisione
nelle parole che il grande psichiatra svizzero sapeva distillare dalla
scrivania della sua villa di Bollingen, sul lago di Zurigo. Dopo averla
raggiunta con una piccola barca a vela, lì si ritirava per raggiungere
un’intimità con sé stesso che altrove gli era difficile; non aveva voluto
neppure la corrente elettrica a distrarlo da quel dialogo interiore.
Ma anche quanta distanza dalla cose – cose che si chiamavano leggi raziali,
bombe, campi di sterminio, militari con i piedi congelati al fronte – su cui lo sguardo sorvolava dall'alto con acume sornione; bellissima la distinzione
tra Mussolini, che alla sua lettura rappresenta l’archetipo del capo tribù, e Hitler che di un
diverso villaggio ha funzione di sciamano, a interpretare e quindi esprimere
l’inconscio tedesco.
Mi chiedo però se non gli fosse mai venuto in mente di fare come Hemingway,
che, dalla prua di un'imbarcazione di nome Pilar, da solo aveva dichiarato
guerra ai sommergibili giapponesi, di tanto in tanto facevano capolino al largo
di Cuba dove risiedeva lo scrittore. Gli anni erano gli stessi e simile il mezzo:
avrebbe potuto anche Jung invertire la rotta, e dal centro di sé indirizzare il
timone verso ciò che reclamava la sua concreta presenza, sfidare la sorte e
nemici non più solo immaginari, e cioè celati in quell’ombra costituita da
immagini primordiali che aveva scoperto appartenere a noi tutti.
E invece no, Jung non fece nulla di tutto ciò. Era svizzero. Protetto dal
suo privilegio non solo geografico, negli anni della grande tribolazione rimase
a scrivere, riflettere, passeggiare tra boschi di conifere. E dunque un poco
svizzero devo esserlo anch’io, già che sembra la rappresentazione delle mie
giornate, certo con esito ben diverso.
Non sto dicendo che avrei dovuto arruolarmi per combattere in Ucraina, alla
mia età e nelle mie condizioni di salute (ho una fascite plantare che mi
impedisce di camminare, figurarsi correre con una baionetta in pugno) sarei
certamente stato riformato. Ma non mi ha mai sfiorato l’idea di alzare la mano
e dire sono qui, ragazzi, posso rendermi utile, ditemi cosa fare. In ciò simile
a milioni di persone che per comodità e pigrizia chiameremo Occidente.
Un Occidente svizzerizzato, neutralizzato (neutro come un sapone, come un
pronome che va bene per tutto e per niente) prima ancora che neutrale. Allo
stesso modo di Jung, in quell’Occidente psichico di cui mi faccio testimone,
anzi, testimonial, non c’è traccia di alcuna disposizione attiva: solo
stilizzazioni verbali, social network, WhatsApp; a volte anche qualche buona ideuzza che
va a segno, ma sempre con quella disposizione svizzera alla contemplazione
disimpegnata e, diciamolo sottovoce, vagamente vile.
Ma evidentemente avevo letto poco e male Jung, che tra una gita in barca,
una nuova amante e una seduta di psicanalisi da iniziare allo scoccare dell’ora
e terminare all’ora successiva, sempre spaccando il minuto, ci ha insegnato a
ricercare parti di noi dentro a ciò che appare ai nostri visceri come estraneo,
perfino nemico; penso a Luke Skywalker, solo dopo molte peripezie scopre che
Dart Fener è suo padre. Quanto a me, molto più prosaicamente, ho scoperto a
cinquantasei anni suonati l'orologio a cucù. Eh sì, Monsieur Cucù c’est moi.