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domenica 20 agosto 2023

Un amore grande. Ma quanta grandezza siamo disposti a concedere al nostro amore?



L'ho rivisto ieri sera per la terza volta, e per la terza volta ho trattenuto a stento le lacrime; massì diciamolo: qualcuna mi è pure sfuggita sul cuscino. Importante che non mi abbia visto nessuno.

Mi riferisco all'episodio San Junipero presente nella terza stagione di Black Mirror, si trova ancora su Netflix. Per chi non l'avesse visto - ma vedetelo! - cercherò limitare gli spoiler, per quanto qualcosa ci scapperà. Questo però lo posso dire senza compromettere la sorpresa: contiene l'idea cinematografica più potente, tenera, spiazzante e, per paradosso, plausibile vista negli ultimi anni sullo schermo.

Non è importante che la regia sia un po' televisiva, anzi lo è totalmente, ma in senso non spregiativo, come per Stendhal che dichiarava il suo stile letterario ispirato al Codice Civile napoleonico, niente preziosismi da primo della classe. E così anche in San Junipero la regia è piana e senza la ricerca di abbellimenti calligrafici, quel guarda come sono bravo che si avverte come sotto testo di tanto cinema americano. Una scelta in levare che fa risuonare ancora di più i dilemmi che dischiude nella mente dello spettatore.

Intanto: è una storia d'amore, da principio adolescenziale e sbarazzina, si potrebbe essere portati a credere di trovarci invischiati in un teen movie. Niente di più sbagliato. Le possibilità che la tecnologia lascia intravedere già adesso, figuriamoci tra una manciata di anni, pongono infatti a questo amore acerbo interrogativi inediti e concreti.

Quando si dice ti amerò per sempre, ad esempio: e se non fosse solo un'iperbole...

Lasciamo il dubbio in sospeso e torniamo a un altro elemento recuperato dalla tradizione, qual è il tema del doppio. Qui viene rimodulato in forma esponenziale: le due protagoniste, attenzione, cominciano gli spoiler, sono una il doppio dell'altra, ma anche di loro stesse. Quindi abbiamo la nostalgia verso un passato reale divenuto mitico nel ricordo: gli anni Ottanta, e da quel ricordo la forbice si spalanca tra gioventù artificiale e vecchiaia autentica. Entrambe sono presenti in una sincronia che imprime una sterzata in direzione della fantascienza.

Ma saremmo fuori strada anche se pensassimo di avere così trovato il bandolo della matassa. Viene infatti richiamato un problema ben vivo nel presente, l'eutanasia, a cui si aggiunge quel pizzico di omosessualità che nel cinema contemporaneo non guasta. Ma è di nuovo riletta nella prospettiva del doppelganger: l'omosessualità non tanto, o non solo, come ricerca esterna di un corpo di genere uguale al proprio, ma, in chiave junghiana, di una parte diversa che sta all'interno di ciascuno, a cui l'altro fa da specchio.

Potremmo chiamarle la parte vera e la parte falsa reclamata dalle consuetudini sociali, la maschera professionale, e con ciò recuperare l'alternativa tra autentico e artificiale che già abbiamo incontrato per il tempo biografico, ponendola nuovamente in forma interrogativa.

Cosa è vero e cosa è falso se i sensi, ricreati dalla tecno-scienza, perdono la capacità di discriminare una sostanza chiamata realtà? E come comportarci quando questo confine diviene incerto, replicando la scelta tra la pillola rossa e quella blu in Matrix? Con la differenza che l'illusione qui rappresenta la via di fuga al dolore e alla degradazione del corpo, in una sensibilità neo gnostica (di segno solo invertito) condivisa con la pellicola dei fratelli Wachowski.

Ma alla fine è il quesito amoroso che nel finale si riprende tutta la scena, un AMORE che più maiuscolo non potrebbe essere. Siamo disposti, per tornare all'ipotesi lasciata in sospeso, a un sentimento tanto grande da sfidare il tempo in senso letterale, congelandolo dentro il loop di una manciata di canzoncine degli anni Ottanta. Ho provato a farlo con Heaven Is a Place on Earth di Belinda Carlisle, presente in colonna sonora con funzione sia diegetica che simbolica, e già al quarto ascolto mi era venuta la nausea.

Non però per questo episodio di Black Mirror, che probabilmente riguarderò ancora. E di nuovo mi commuoverò (ben attento a non essere visto) di fronte allo spaziare senza limite del raggio dell'amore, di ogni amore, perfino di uno nato in discoteca con i capelli impiastricciati di Tenax, e uno sfigato sullo sfondo che gioca a Pac-Man. Amore tra ragazze vecchie o vecchie ragazze, distinzione che abbiamo ormai compreso rappresentare la vera finzione. Una congiura ontologica, la chiamerebbe il filosofo Emanuele Severino.

Ma se per lui tutto da sempre è, qui, quasi messianicamente, è proprio l'amore a sconfiggere la morte, la tecnologia ne è solo lo strumento attuativo. L'elemento davvero decisivo è che ci sia qualcuno disposto a bere molti rum and cola assieme a te. Una sbornia che ha durata di eternità. Ne siamo pronti?

giovedì 28 luglio 2016

Zitti e mosca!, o su come smetterla con questa lagna della creatività

Dai, che forse ci siamo! Oggi ho avuto un’intuizione. Avete presente quella faccenda della spontaneità, la creatività, esprimere i propri sentimenti etc…? Massì che lo sapete, siete cresciuti, siamo cresciuti tutti con queste idee in testa, ce le hanno cacciate dentro fin da bambini. Ma non è sempre stato così.

Prima degli anni sessanta, ad esempio, più che creativi si doveva essere disciplinati, coerenti, ben istruiti, e di spontaneità neanche a parlarne. Sì, certo, già c’era stata Maria Montessori, leggo su Wikipedia che è nata nel 1870 e morta nel 1952. Ma anche le sue idee hanno avuto bisogno di tempo per agguantare il palloncino della storia, e farsi infine mongolfiera. E come lei Rudolf Steiner, Georges Gurdjieff, Krishnamurti… Tutta gente che parlava a nuora, nel presente, perché suocera intendesse nel futuro.

E’ come se il Novecento fosse stato una lunga rincorsa, ma il salto fosse stato spiccato solo quando sbocciavano le prime minigonne, ed era il tempo lieve e danzante della Swinging London. Ma proviamo a fare un piccolo passo indietro, riavvolgiamo il film al decennio precedente, quando ancora Gino Bartali borbottava: “Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare." Quindi immaginiamo quel motto applicato a tutto ciò che sappiamo, o pensiamo, su creatività e spontaneità.

Ma l’avete mai vista, vista per intero, una qualsiasi puntata di una qualsiasi trasmissione di Maria de Filippi, o prima ancora del Maurizio Costanzo Show? Beh, di quelle trasmissioni ogni critica si può fare, ma non che gli ospiti non dicano ciò che pensano, e di conseguenza si comportino: con spontaneità, esprimendo se stessi fino in fondo.

Eppure, da questo scorrere libero e impulsivo di emozioni e pensieri, come una fiumara calabra che se ne freghi di ogni argine e imposizione, una frase o anche solo una parola che sia una e vi abbia fatto dire: però, accidenti, interessante!, le avete mai sentite? Certo che no. Perché quelli, giustamente e come da copione, stavano esprimendosi, non comunicando, che è esercizio ben diverso. Per comunicare e quindi creare, per altri, per una comunità viva e in trasformazione, è infatti necessario che vi siano regole e modelli condivisi, a cui solo successivamente imprimere uno scarto innovativo, una defezione che si ponga come nuova regola.

La creatività senza regola è come un verso senza metrica: qualcosa di molto più difficile, almeno se vuoi raschiare i cieli dell'arte, e ciò malgrado l’impressione contraria, una sensazione di licenza espressiva finalmente concessa a tutti. E così, se al dileguare della metrica buona parte degli italiani si sono sentiti autorizzati ad attribuirisi il titolo di poeta (quanti ne avete conosciuti, dai, provate a contarli…), l’affermarsi televisivo dei talk show ha coinciso col dilagare definitivo dell’opinione, a scapito della competenza. Gli antichi greci chiamavano la prima doxa e la seconda epistème, e non si sarebbero mai confusi tra le due.

Ora, invece, un’aspirante tronista si sente legittimato a contestare – e a farlo pubblicamente, con vociante baldanza sul palco del Parioli – l’ultima teoria di un neuroscienziato ospite alla stessa trasmissione, a cui magari ha lavorato ininterrottamente negli ultimi vent’anni. Lo scienziato, intendo. Mentre il tronista, che fino a un minuto prima non conosceva nemmeno l'argomento, alza la mano e dice: "Non sono d'accordo". E nell'alfabeto televisivo stanno pari.

E' insomma passata la convinzione che un’idea vale l’altra, si deve pensare con la propria testa, mica dar retta agli altri, ai sapientoni e ai professorini. In fondo, il Movimento 5 Stelle, almeno inizialmente, ha rappresentato la ratifica su scala politica di questa cultura dell'inaffidabilità: ci si deve fidare solo di se stessi, della propria vocina interiore. Quindi bisogna buttarla fuori, esprimere emozioni e congetture momentanee o anche solo il proprio nulla da dire, come profeticamente aveva intuito John Cage: “Non ho nulla da dire, e lo dico."

John Cage che, per inciso, già trent’anni fa aveva inventato Facebook: un fragoroso ed eloquente nulla da dire, ma ora su scala planetaria… In ogni caso, quando la competenza non esiste più come categoria pubblica del discorrere, rimane solo la doxa, l'opinione. Anzi, opinioni, al plurale. Che si deve essere liberi di tirar fuori in ogni contesto e senza vincoli temporali, antiquati galatei, liberi come capelli dopo averli lavati con uno shampoo al marzapane.

Bene, l’idea, l’intuizione, sarebbe allora questa: non pensiamo più, non esprimiamo più niente. Pausa di sospensione. Reset. In cui copiamo soltanto quel che di grande è stato fatto nel passato. 

Non per sempre, d'accordo. Basterebbe solo un periodo. In fondo anche nelle scuole pitagoriche esistevano degli allievi che, non ritenuti adeguati al ruolo di mathematikós  (matematici, ossia inclini ad apprendere), assistevano alle lezioni in qualità di akousmatikós. Potevano cioè ascoltare, dietro a un velo che celava la figura del maestro, a cui non era però consentito rivolgere alcuna domanda, né dibattere tra di loro. Dopo un paio d’anni, magari, se ne riparla, ma per adesso zitti e mosca!

Ecco, e se allora anche noi ci comportassimo allo stesso modo, o se preferite come già si faceva da bambini: prendiamo un bel foglio con dei disegni impressi, ma in bianco e nero, solo linee e spazi vuoti, quindi mettiamoci a colorarlo. E però niente di niente che sia nostro, guai alla creatività, immoliamo la fantasia sull’altare della disciplina. Due anni sono tanti, ok, facciamo uno: un annetto di silenzio e attenzione, in cui espiriamo io e iniziamo a inspirare un po' di mondo. 

Se proprio uno di lavoro fa l’architetto, o una di queste professioni qui, "creative", potrebbe limitarsi a copiare il Duomo di Milano, la Fallingwater di Frank Lloyd Wright, la piazza di Vigevano… Ce ne sono di modelli da onorare. E così uno scrittore, che avrebbe il tempo per scrivere, meglio per ri-scrivere, badabene, tutto quel che gli pare. Ad esempio il Don Chisciotte di Cervantes, ma senza cambiare nemmeno una virgola, come Pierre Menard nel celebre racconto di Borges. Reinventiamo insomma il già detto, seguendo lo stormo dei secoli senza tentare voli da tacchino con le ali dell'immaginazione, che ora si nutre solo di erba voglio e insalata sono, faccio, dico. Sì, diamoci un anno, per ritrovare la mensa dei giganti. 

E quando avremo finalmente recuperato il sentimento del pensiero, del nostro pensiero quale minima variazione di un canone che ci precede e ci succederà, con la sopravvenuta consapevolezza di questa responsabilità verso gli altri, anche quelli che ancora non esistono, potremo finalmente tornare a essere (minimamente) creativi. Ma per adesso zitti e mosca, come gli acusmatici. E ora giù la testa e iniziamo a fare i compiti!


(Ps - Ovviamente so benissimo di essere caduto in un paradosso, affermando un'intuizione che nega se stessa... E così, per cavarmi da un filosofico impiccio, aggiungo che questi propositi valgono solo da domani... come chi decide di smettere di fumare. ;-) 

giovedì 30 giugno 2016

The Future

Things are going to slide, slide in all direction...

Leonard Cohen


Alle 4.12, sotto la pensilina di un distributore della Total, vicino a Monza, attendo un amico senegalese. Si è appena appartato, dietro lo stesso distributore, con una prostituta nigeriana. Dice di chiamarsi Giuly, è un po’ culona ma molto simpatica e sboccata.
 
Mi è sempre piaciuto l’odore di benzina. Da bambini, con mia cugina Alessandra, sognavamo di essere già grandi per poterne bere un goccetto. Pensavamo che da grandi tutto sarebbe stato possibile...

Il presente è questa tiepida notte di giugno, l'anno degli europei, 2016. Il presente è un'Opel Corsa di un colore che non ho mai capito, che colore è. Tengo il quadrante acceso ma il motore è spento, mi serve per ascoltare Leonard Cohen sull’autoradio: “The Future”, la mia canzone preferita.

Give me back the Berlin wall
give me Stalin and St Paul
I've seen the future, brother:
it is murder...

 
Cosa ti aspetti dal futuro? dettavano pigre le maestre delle elementari, sorseggiando caffè nero da grossi thermos dorati. E tutti a scrivere di getto più o meno le stesse cose, precipitandoci poi alla scrivania per consegnare il tema, come se stessimo votando per l’elezione di un tempo che finalmente ci corrispondesse. 

Sì, tutto sarebbe stato finalmente possibile, da grandi, nel futuro!

Futuro che, a noi cuccioli delle elementari, doveva apparire lontano e gigantesco, come un quadro del realismo socialista che si accoppia con un grattacielo a forma di Cornetto Algida, per partorire un'astronave di Pongo

Ma in un certo senso avevamo ragione noi. Perché il futuro, penso vedendo finalmente comparire il mio amico dietro la pompa del gasolio, con una mano si rassetta il caffetano azzurro mentre, dietro di lui, un'altra ombra nera mi sorride e fa l'occhietto, il futuro è molto più vario e imprevedibile e burlone, delle attese sul futuro.

No Giuly, questa sera sono stanco. Un'altra volta, magari... Nel futuro.