lunedì 31 dicembre 2018

Buon 2019!


Il pomeriggio del 31 dicembre 2018, dunque oggi, mi sono imposto di ascoltare una conferenza New Age. Non è importante chi fosse il relatore, né quale fosse l’argomento. La New Age è prima di tutto una forma, uno stile del pensiero; o per essere ancora più precisi una mancanza di stile. E come Lord Brummell, per sentirmi elegante, almeno a Capodanno, avevo voglia di assistere alla parata retorica di un autentico cialtrone. Un’eleganza di risulta, insomma.
Nello stile inelegante di quella conferenza che mi sono sorbito fino all'ultima rancida goccia, e al cui confronto la mia appannata figura risplendeva di oro purissimo, il termine che più volte ricorreva era meraviglia. Avendo studiato un po’ di filosofia, il pensiero è andato naturalmente ad Aristotele, il quale faceva risalire proprio alla meraviglia, thâuma, l’origine della stessa filosofia.
Ma quella a cui si riferisce Aristotele è una meraviglia mista a sgomento, lo stupore di chi si sta cagando sotto. Lo spiega molto bene Emanuele Severino tra le pagine delle sue numerose pubblicazioni. Nella conferenza invece tutto finiva col somigliare al balocco ritrovato il 25 dicembre sotto un abete sintetico con le bocce colorate e lucine che si accendono a intermittenza. Ma non è meraviglioso?! Il sorgere del sole, la vostra compagna che aspetta un figlio, quel che il buon dio ha in serbo per noi. Tutto appariva meraviglioso all’oratore della conferenza New Age, la stavo seguendo su YouTube.
Bisogna però riconoscergli una certa onestà intellettuale, per cui, nell’afflato a una continua gongolante stupefazione, venivano incluse anche esperienze assai più prosaiche. Inciampate nel gatto che dorme ai piedi del letto e ruzzolate al suolo spaccandovi il femore, ad esempio, oppure le emorroidi si gonfiano come un palloncino e, come quel palloncino al contatto di uno spilletto carogna, esplodono e cominciano a sanguinare – wow, figata!
Ed è sull’eco di un termine ripetuto a macchinetta – meraviglia di qua, meraviglioso di là – che mi è venuta in mente una parola diversa e forse opposta. Pena. Ne scrive Louis-Ferdinand Céline a pag. 225 del suo Voyage aubout de la nuit:
“Il treno è entrato in stazione. Non ero più molto sicuro della mia avventura quando ho visto la macchina. L’ho abbracciata Molly con tutto il coraggio che avevo ancora nella carcassa. Avevo una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini. E’ forse questo che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare sé stessi prima di morire.”
Ok, l’ho presa magari un po’ alla larga. E’ che volevo augurare un anno colmo di pena. Ma pena vera, autentica come dice Céline. Pena per me che sono qui a scrivere queste sciocchezze, invece di occupare la vigilia in attività più genuinamente tossiche o divertenti o quantomeno remunerative, pena per voi che mi state leggendo, pena per il mondo intero.
E se ci sarà della meraviglia, sarà per quanto bizzarro e sciatto sta diventando il paesaggio su cui posiamo lo sguardo, rendendoci, di riflesso, ogni giorno che passa più eleganti. E dunque: un "penoso" 2019 a tutti, per diventare finalmente noi stessi prima di… (Beh, il finale della frase è a plasir, non è necessario affrettarsi alla conclusione di Céline.)



mercoledì 26 dicembre 2018

Il latino? No grazie. O su come trasformare un liceale in criceto


Ho scoperto da un’amica che esiste una versione di liceo scientifico per così dire light, come la Coca-Cola e le sigarette. La mia amica era aggiornata sull'argomento già che il figlio ha deciso d'iscriversi proprio a tale indirizzo. La differenza dal liceo tradizionale consiste nel fatto che, allo studio del latino, sono state sostituite le tecnologie applicate, in particolare l’informatica.
Ora io non metto in dubbio che nel mondo attuale, e a maggior ragione in quello a venire, l’informatica occuperà un ruolo di particolare rilievo; un sapere di derivazione matematica di cui già dal primo WhatsApp mattutino non possiamo più fare a meno, specie se si tratta di una persona a cui teniamo molto ed è accompagnato da un cuoricino.
Possiamo guardare all’informatica come alla tecnica suprema – ma non tecnica regia, attenzione, che per Platone era rappresentata dalla politica, basilikè téchne – e però sempre di tecnica si tratta, che nella sua essenza è il gesto pratico di coordinare mezzi in vista di un fine.
La tua automobile sbuffa dal radiatore come un bisonte braccato da Buffalo Bill, mettiamo. Nessun problema. Il meccanico, che è uomo di tecnica raffinatissima, coordinerà tutti i mezzi a sua disposizione – cacciaviti, sensori, pinze, chiavi inglesi, ponte sollevatore e soprattutto un grandissimo fiuto... – per raggiungere il fine previsto. Quello di sistemarla.
Eppure non in tutte le cose il fine è immediatamente intuibile, a portata di cacciavite. Per tale ragione nelle società umane è esistita ed esiste anche la 
teoria, ossia un pensiero che non procede a braccetto con l'azione compiacendola con i suoi inchini, ma si limita a osservare le cose da una distanza intangibile e rarefatta. Un pensiero ineffettuale.
Approfondendo lo sguardo su di sé, la teoria ci mostra che questa gratuità è però solo apparente, avendo uno scopo altrettanto preciso: quello di orientare le scelte, specie collettive, direzionando le tecniche per offrirgli la finalità umana, etica, perfino estetica che in sé stesse non possiedono. Attraverso la fissione nucleare, ad esempio, possiamo radere al suolo Hiroshima come far risplendere un milione di alberi di Natale... No, non è la tecnica che può aiutarci nella decisione. 
Individuare e perseguire degli obiettivi di portata più ampia dei bisogni biologici primari, è allora da mettere in relazione ai cosiddetti valori (cosa è importante e giusto per me, cosa è importante e giusto per tutti); valori che a loro volta si vanno precisando in un rapporto dialettico con la tradizione. Seguendo una falsa etimologia, potremo vedere la difficile arte del significare come una tradi-zione, ossia un tradimento dell'azione spinta dall'utile immediato a favore di un'azione storicizzata, che si fa carico della costruzione del proprio senso a partire dall'immagine che una comunità (o un individuo) possiede di sé.
Lo studio dei valori e della tradizione da cui proveniamo, il suo passaggio testimoniale nella staffetta delle generazioni, veniva chiamato nella Grecia classica 
paideia, e coincideva con un excursus formativo a cui i giovani appartenenti alla classi agiate venivano sottoposti. Più che nozioni pratiche e funzionali, ossia e appunto delle tecniche, si cercava di trasmettergli l’essenza spirituale di quella civiltà, la sua identità più profonda. Se ne ricava che il fine fosse lo sviluppo del fanciullo a partire da tale nucleo astratto ma non meno reale, inverandosi nella storia.
Un’idea che non era così scontata, attenzione, altri popoli si concentrarono molto di più sulla trasmissione di prassi concrete e utilitaristiche, ma che finì con l’affermarsi in Occidente tramite l’assunzione da parte dei romani, secondo la celebre intuizione di Orazio per cui Graecia capta ferum victorem cepit.
Della nostra tradizione, in un senso non solo ideale ma anche formale – sono letteralmente le sue radici, che si estendono nel terreno delle parole che utilizziamo tutti i giorni –, il latino rappresenta una delle componenti più diffuse e significative, il suo codice occulto. Rinunciarvi a favore dell’informatica, più che genericamente scandaloso o altre espressioni di vuota retorica, a me sembra dunque corrispondere a una precisa scelta a favore dei mezzi (tecnici) ma a scapito dei fini (umani).
E ricordo ancora, un po’ pedantemente, che stiamo parlando di giovani liceali, ossia di ragazzi che si candidano a essere la futura classe dirigente del Paese; e con ciò senza nulla togliere a coloro che scelgono o vengono costretti a frequentare scuole tecniche, come è stato nel mio caso. Una circostanza, quest'ultima, che suggerisce maggiore indulgenza, dal momento che un ragazzo iscritto a un istituto professionale si dispone umilmente a occuparsi dei mezzi con cui far funzionare cose già decise da altri; ad esempio la nostra vecchia carretta, che continua a buttar fumo con Buffalo Bill alle calcagna.
Ma da un futuro architetto, politico, giornalista, magistrato, insegnante, medico, urbanista, alto funzionario pubblico pretenderemmo una maggior consapevolezza sulle finalità dei propri gesti. Consapevolezza che la conoscenza del latino potrebbe contribuire a sviluppare.
Se non fosse che ormai è già probabilmente troppo tardi, e le riflessioni della filosofia primonovecentesca, in particolare di quella di matrice esistenzialista e fenomenologica, già registrarono un ammutinamento della tecnica dai ranghi subalterni a cui era stata per secoli sottoposta: non più un mezzo in vista di un fine esterno e determinato, ma, ribaltando i rapporti tradizionali, l'indeterminata generazione di nuovi fini da parte di un mezzo che ha quale unica mira il proprio potenziamento, in un'infinita circolarità. Una tautologia in pratica.
O se volessimo provare a restituire il tutto con un’immagine, è il criceto che corre dentro la ruota della gabbietta senza chiedersi il senso della ruota e della gabbietta e della sua cavolo di vita da criceto, che sta unicamente nello sguardo della bambina che un giorno ha detto con gli occhioni sgranati: Me lo prendi papà? Sì, te lo prendo se vuoi.
Allo stato attuale delle cose possiamo così augurarci che almeno i giovani cinesi, nell'equivalente dei nostri licei, ancora studino il mandarino antico, la filosofia taoista, per non parlare della tortuosissima perfezione con cui si compone la grafia dei loro caratteri, vera grande muraglia posta a salvaguardia della rozza semplificazione del codice binario.
Potranno infatti essere solamente loro, e non un vecchio dio con i reumatismi e la gotta, come voleva 
Heidegger, i cinesi o qualche altro popolo eccentrico alla deriva modernista a mettere il morso e le briglie a una tecnica che corre libera e selvaggia nella prateria del niente ha senso, bene, allora tutto è possibile, operativamente fattibile. Non certo i giovani italiani, che frequentano licei in cui non si studia più il latino. Licei light, anzi: ultra light.

lunedì 24 dicembre 2018

Camcaminì spazzacamin, o sulla cultura e il fumo

Io ho un conoscente che pulisce i camini. Sembra uno scherzo, ma gli spazzacamino esistono ancora. Giuro!
Lo spazzacamino, quello che conosco io, ha sposato una mia cara amica di infanzia, per questo ci conosciamo. Non che ci si veda di frequente: una volta ogni due o tre anni, più o meno. Quando passa molto tempo gli anni diventano quattro, tanto che poi ci rinfacciamo scherzando 
– lui rivolto a me e io a lui  che i capelli sono sempre meno. Potrei arrivare a dire che siamo diventati amici, come con sua moglie. Quasi amici, va'.
L'unico problema nasce, quella volta ogni due o tre anni in cui ci vediamo, a volte sono anche quattro, quando lui vorrebbe capire cosa faccio. C'è una reale disposizione nella sua curiosità, dell’empatia. Cosa sono, ma concretamente, le faccende di cui mi occupo, quelle per cui lui rientra tutto nero al termine di una giornata di lavoro?
Parole.
Parole?!
E da qui parto ogni volta col mio abituale pistolotto sul valore della cultura, i libri, la funzione emancipante di letteratura e poesia. Per non parlare della psicanalisi – Freud, Lacan, non sai quanto ricordi il fumo che esce in lente volute da un camino, lo schema z di Lacan... – oppure della mia passione per la filosofia, che non è amore per il sapere ma sapere attraverso l'amore.
Il fatto è che quegli abbozzi di spiegazione rivolti formalmente allo spazzacamino, siamo diventati quasi amici, parlano in effetti a una parte profonda e diffidente di me stesso. Prima, forse, ci credeva almeno un po', ma adesso ha cominciato a fare no no con il ditino. A chi vuoi raccontarla, è come se mi rispondessi da solo. 
Voglio dire, hai fumo in casa?
Nessun problema, chiami lo spazzacamino – è mio amico, ok, quasi amico, ma se ci metto una buona parola vedrai che ti fa lo sconto – e il fumo poi sparisce. Voilà, una bella tinteggiata alla pareti e ritorna come nuova!
Ma quando hai, mettiamo, Hitler in casa, siamo sicuri che biblioteche stracolme di Goethe, Schelling, Nietzsche, Schopenhauer, Rilke, Hofmannsthal servano a qualcosa?
E’ più o meno il dubbio che venne anche a George Steiner. Un tizio che alle elementari già conversava con il padre in sette o otto lingue diverse, a seconda dell’argomento loro la cambiavano, come due che facciano zapping col telecomando; di Sofocle si parlava in greco antico, di Cicerone in latino etc. Al dubbio sui saperi della parola, lui aggiungeva la musica e le arti figurative, di cui pure avrà dibattuto con il padre con pennello e pentagramma in pugno. A cosa serve la cultura occidentale tout court, insomma? 
George Steiner si rispose infine, non so bene in quale delle sue molte lingue, che, purtroppo, la cultura non serve a molto. E non tanto perché non è serva di nessuno, come ribatteva Aristotele a chi lo stuzzicava sull'utilità della filosofia. È una vanità morale. La cultura oltre a non aver
 saputo e potuto niente contro l’ombra montante del nazismo – ed era anche quella una “cultura”, bada bene –, non aveva neppure voluto.
Lo ricavava dalla semplice costatazione che tutti i tedeschi a tutti i livelli, non solo gli intellettuali, specie quelli con padri psicopatici che ti parlano in aramaico a otto anni, nei primi decenni del secolo scorso frequentavano la cultura cosiddetta “alta” con trasporto e reale dedizione. Ma poi che ne hanno fatto? Wilhelm Meister e il suo lungo apprendistato sono finiti nello zainetto dei militari, insieme alle granate.
D'accordo, è inutile rivangare. Anzi, no, è utilissimo, ma sostituendo il sostantivo plurale tedeschi con il pronome personale io, per offrire finalmente una risposta anche al mio conoscente spazzacamino, ormai siamo diventati amici, dai.
E non vale dire: vado su Facebook, piazzo dei post arguti, rimedio un mazzolino di pollicioni blu, che gonfiano la coda del pavone. Oppure faccio cose, vedo gente, scrivo articoli e libri e poesie.
No no, cose terra terra, che non interesserebbero al padre di George Steiner, cose come il brischetin e la squareta del mio nuovo amico spazzacamino, via il quasi e non se ne parli più.
E se la risposta fosse allora proprio questa: io, con le mie parole, i miei dubbi messi in forma, sollevo il fumo con cui gli indiani si mandavano i segnali al passaggio del treno e del bisonte. Un fumo che precede e guida talvolta l'azione, o, se non altro, fa più bello e vario il cielo. Ma è lo stesso fumo che il vento o gli spazzacamino dissolveranno nuovamente, rendendo chiaro e muto l'orizzonte.
A ognuno la sua parte nel gioco, insomma. A ognuno la sua mezza verità.

domenica 23 dicembre 2018

Tutti a casa di Betty, o sugli strani cortocircuiti tra politica e memoria

Per il mio decimo compleanno mi feci regalare dai miei genitori una rete da ping pong. Non un tavolo, proprio e solo una rete, con i rispettivi morsetti di metallo da fissare ai lati opposti del tavolo, che nella fattispecie apparteneva al comune di Sondrio.
Da alcuni anni era stato costruito un nuovo centro sportivo, la fortuna aveva voluto che si trovasse di fronte a casa mia, in via Parolo 10. Accanto all’ingresso della piscina, misteri dell’architettura pubblica, era stato posizionato il tavolo da ping pong, e fin qui tutto bene. Il fatto è che era di cemento.
Cemento?!
Sì, di cemento. E’ il primo e l’ultimo che ho visto composto di questo bizzarro materiale, che imprimeva alla pallina degli scarti imprevedibili, accompagnati da un rumore ovattato e tetro. Oltretutto si erano dimenticati di fornirlo di una rete. Perciò, il diciannove aprile del 1976, fui io a rimediare.

Non certo per spirito civico, intendiamoci, ma per poter giocare una buona volta sul tavolo da ping pong in cemento laccato del nuovo centro sportivo di Sondrio, che fino a quel giorno aveva ospitato le natiche di un gruppo di ragazzi, o come si diceva allora una “compagnia”. Avevano tutti due, tre, a volte anche quattro o cinque anni più di me.
Inutile dire che mi sarebbe piaciuto frequentarli, mica potevo passare la vita a leggere Asterix e impilare Lego assieme a Pierantonio. Dapprima cominciai a osservarli dal terrazzo di casa: le scarpe da pallacanestro, le vespette bianche su cui spiccavano i pullover pastello annodati in vita con nonchalace; e poi tutte quelle ragazze con cui ridevano e scherzavano, facendo girare il pacchetto delle Muratti Ambassador con la fascia rosso blu, da cui pescavano a turno come facevamo io e Pierantonio con le cicche Brooklyn.
Ma in quella vigliacca stagione della vita, i pochi anni che ci dividevano erano un abisso, una trincea invalicabile, il fossato di un castello medievale colmo di coccodrilli e altre schifose e pericolosissime bestiacce. E però con la mia nuova rete da ping pong le cose sembrarono cambiare. Mi accettarono, insomma. Nella mia testa eravamo perfino diventati amici!
A ciò deve avere contribuito il fatto che, oltre alla rete, i miei genitori mi avevano preso due racchette, di cui una era di marca Stiga. Certo, non si trattava della mitica Stiga Yasaka o della ancor più evocativa Cobra, ma era pur sempre una Stiga Europa, e i ragazzi della compagnia del centro sportivo sembrarono apprezzare.
In pratica, le cose funzionavano a questo modo. Nel primo pomeriggio io arrivavo al tavolo da ping pong. Montavo la rete con puntigliosa competenza. Quindi gli altri giocavano con le mie racchette, la mia pallina, la mia rete. Ciò che di loro mettevano era solo il divertimento. Lo deducevo dal gran numero di partite che ingaggiavano gli uni contro gli altri, con i maglioncini Benetton a sventolare come l'insegna dei Crociati. Vuoi fare una partitina anche tu, Guido, mi chiedevano alla fine, quando già barcollavano stremati. 

Ed era questa la seconda domanda che gli sentivo pronunciare. L'altra, che cascava a un punto sempre diverso della giornata, e sempre diversa era anche la persona da cui giungeva, mi risuonava nella testa come la parola d'ordine di un agente segreto: Ehi, si va a casa di Betty?
Il problema è che a me mancava la password, il codice di decodifica, appartenevo evidentemente a un esercito nemico. Mentre loro si capivano al volo. Senza proferire altro suono, seguiva quindi una lenta e placida transumanza, in cui tutto il gruppo partiva alla volta della casa di Betty, che a dire il vero non ho ancora capito chi fosse. Anche perché nella prima persona plurale io non ero incluso, e la casa di Betty, oltre che Betty stessa, resteranno per me una favolosa chimera.
Rimanevo dunque lì, la mia Stiga Europa tutta rossa, la pallina gialla nell'altra mano, a contemplare le persone che entravano e uscivano dalla piscina. Non vedendo direttamente l'ingresso, li distinguevo dal fatto che quelli che entravano avevano i capelli asciutti e quelli che uscivano bagnati. Quando il culo cominciava a indolenzirsi, scendevo dal tavolo, smontavo la rete con uguale disciplina, e tornavo a casa a giocare a Lego con Pierantonio. Vuoi una cicca Brooklyn? gli chiedevo per farmi perdonare.
Ma perché ho raccontato questa storia, per pura nostalgia?
Sì e no. In realtà credo che la memoria mi abbia ripresentato il ricordo con un intento didascalico. E infatti, quale migliore correlativo oggettivo della scena politica italiana?
Solo non mi è ancora del tutto chiaro, anche in questo caso, chi sia Betty: Berlusconi, Renzi, il Pd… E sarà Salvini oppure di Maio a rimanere con le chiappe sul cemento duro e freddo, mentre gli amici – le vespette bianche, i maglioncini pastello annodati in vita, le Muratti Ambassador – sono andati a casa di Betty a fare festa...

sabato 22 dicembre 2018

Buon Natale!

Un mio contatto Facebook ha appena rilasciato un post in cui chiede gentilmente di essere risparmiato dagli auguri di Natale. "Rituali di mutua ipocrisia" li chiama questo mio contatto, è uno scrittore abbastanza conosciuto e bravo, non posso certo dargli torto.
Eppure avvertivo qualcosa di stonato e perfino velleitario nelle sue parole, come se si potesse costantemente vivere nella verità della parola, e per quanto il suo lavoro di scrittore lo rende di certo più sensibile ai maltrattamenti verbali. Pensiamo ad esempio alla forma più comune di galateo, il saluto, ciao, una sola e semplice sillaba da cui le nostre giornate sono intrise, al punto di non farci nemmeno più caso. Ma a ben vedere è anche quello un rituale di mutua ipocrisia.
Salutando non mi sto infatti disponendo a diventare per davvero "schiavo tuo", come vuole l'etimologia veneziana del termine (sciao), ed è già tanto se ti aiuto a trasportare in auto i sacchetti dell'Esselunga. Poi chi si è visto si è visto.
Nonostante ciò, è difficile avvertire qualcosa di sconveniente e affettato in quel saluto: più che ipocrisia a me sembra convenzione, o se si preferisce mediazione sociale. Ma è solo quale conseguenza di tale mediazione di superficie (presente in ogni comunità etnica, per inciso) che si creano le premesse per lo sviluppo di un rapporto, in una direzione che potrà essere di verità oppure di finzione. A questo stadio non possiamo ancora saperlo. 
Più che rituali di mutua ipocrisia – un tempo la vedevo anch'io alla maniera di quel bravo scrittore, lo confesso – li chiamerei allora rituali di ingaggio, come quelli che avvengono tra le navi per capire se armare i cannoni o fare bye bye col fazzoletto. O per restare dentro una metafora acquatica, a me ricordano i blocchi di partenza in una gara di nuoto.
La verità sta nell'acqua, nella possibilità di incontrarsi in acqua, non sul cemento del blocco, da cui rimiriamo la superficie azzurrina da cui siamo ancora esclusi. Eppure senza i blocchi di partenza, in mancanza dei ciao, come va?, omaggi alla signora, resteremmo eternamente a bordo piscina. Con parole magari verissime, ma che non si intrecceranno mai. 
Per concludere, auguro buon Natale a tutti quelli che mi stanno leggendo. Ma davvero: buon Natale di cuore! E chissà che un giorno non ci si ribecchi in piscina, con il sapore di cloro in bocca e una minima verità tra le mani. Da scambiarci.

lunedì 17 dicembre 2018

Tour Eiffel, o sulla nuova moda di fotografare le copertine dei libri


Gli intellettuali o anche i non intellettuali, in fondo è uguale, che su Facebook pubblicano fotografie in cui sono ritratte le copertina dei libri appena letti – sono preferibili e preferite le edizioni Adelphi, oppure titoli fuori catalogo da molti anni – a me fanno pensare ai turisti che si sparano raffiche di selfie davanti alla Tour Eiffel; che poi a casa non ci credono mica che sono stati per davvero a Parigi, se non gli fan vedere la foto della Tour Eiffel con loro davanti che dicono cheeeese. Così, per quel che vale la mia opinione, volevo dire ai turisti che se è solo per me possono anche fare a meno di mostrarmi la Tour Eiffel tutte le volte che vanno o, meglio, dicono di essere andati a Parigi, mi fido sulla parola, davvero. E lo stesso gli intellettuali o anche i non intellettuali, è uguale. Non vi interrogherò su cosa succede a pagina 174 di La letteratura nazista in America di Bolano, o su quanti rubli deve restituire, prima, Katerina Ivanovna a Dmitrij e poi Dmitrij a Katerina Ivanova. No, tranquilli, potete rilassarvi, e si vi piace viaggiare andare a farvi una vacanza da qualche parte. Magari, ecco, a Parigi, dove ci sono un mucchio di cose da fotografare. Cose molto più interessanti – per me è per quel che vale la mia opinione, sia chiaro – cose più belle e bizzarre e sciocche della copertina di un libro, appena solcato dai vostri occhi intellettuali e non, è sempre uguale. Ad esempio la Tour Eiffel!

mercoledì 12 dicembre 2018

Tanti amici nessun amico, o sulla nascita e il declino di un sentimento

Il termine amico, con cui vengono indicati i contatti su Facebook, può essere oggetto di qualche ironia, specie tra le persone linguisticamente più consapevoli e accorte. Di certo è un’iperbole vagamente comica, non voglio negarlo. Ma trovo che al fondo nasconda un’intuizione sulla natura del nostro tempo.
Seguendo il pensiero di Umberto Curi, acuto filosofo padovano che sull’argomento ha pubblicato diversi volumi, l’amicizia nasce in Occidente avendo quale sfondo la guerra, polemos, che già per Eraclito era padre di tutte le cose. In particolare, nelle città stato situate a meridione della penisola balcanica, è l’assenza di un esercito mercenario, come nel diverso caso dell'impero persiano, a dare impulso alla formazione di un nuovo sentimento. Quello appunto dell’amicizia. 
L’amico, dalla radice latina amicus, amor, comune all’afflato amoroso che in Grecia prendeva il nome di philia, era dunque colui a cui era affidata la vita del guerriero, in battaglia come nei momenti di riposo in cui vegliava sul suo sonno. In altre parole, amico era il commilitone in regime di coscrizione tra semplici cittadini, con il quale anche al termine del conflitto rimaneva un vincolo speciale, come tra Alcibiade e Socrate che lo salvò nella battaglia di Potidea 
Se ne ricava che l’amico è chi sta dalla tua parte, interamente dalla tua parte, anche se siete entrambi nel torto. O per dirla con Totò, l’amicizia è una sorta di “a prescindere”, dove il vincolo morale da politico diviene soggettivo.
Ora a me pare che questa corrispondenza totalizzante, nelle società tardo industriali sia divenuta difficile, se non impossibile. Abbiamo infatti gli amici con cui ci si gioca a calcetto il mercoledì sera; gli amici del corso di ballo latinoamericano; gli amici con i quali andare a cinema e a teatro e ai concerti; gli amici di infanzia; gli amici tra le diciannove e le venti, venti e trenta massimo, a spartirsi le olivette insieme allo spritz; gli amici della sgambata domenicale, anche nella variante ciclistica; gli amici degli amici fino ad arrivare ai compagni di merenda.
Una società frammentata in sottoinsiemi funzionali, presenta insomma anche sottoinsiemi amicali, che sono a loro volta funzioni del contesto mobile di appartenenza. Tradotto in parole più semplici, quando arriva mercoledì, partita di calcetto, già l’abbiamo visto. Ed eccolo l’amico che si sbraccia, smarcato, davanti alla porta avversaria. Zac, una bella verticalizzazione alla Totti e lui infila al volo di destro. Poi corre verso di me – che gli ho servito l’assist, che sono suo amico – per abbracciarmi. E anche io l’abbraccio. Abbiamo fatto goal. Siamo amici!
Ma appena l’arbitro fischia la fine della partita, è già tanto se gli allungo il Badedas sotto la doccia. E pagamento alla romana, si intende, quando poi passiamo da Pasquale per la solita pizza e birra, ci scappa ogni tanto anche un limoncello. Beh, ciao, ci vediamo mercoledì prossimo. E fino a quel giorno non ci vedremo né sentiremo davvero più, avendo ciascuno altri amici, tutti a spettro ugualmente limitato.
Ma a qualcuno di questi amici, ci penso seriamente, pensateci anche voi, affiderei (affidereste) la mia (la vostra) vita, come faceva Alcibiade con Socrate o Patroclo con Achille…?
Arriverei a sospettare che la disperazione di Achille per la perdita dell’amico più caro – Patroclo, Paaatroclo! – più che alla sua mancanza faccia specchio al senso di colpa, generato dal dubbio di non avere fatto abbastanza per evitarne l’uccisione. Avrebbe dovuto proteggerlo, sì, avrebbe potuto mettersi tra lui e la lancia di Ettore, come una leonessa con i suoi i cuccioli. Invece ha fallito, e per questo si strugge.
Una delle possibili chiavi di lettura della storia degli ultimi decenni, è così il progressivo affievolirsi dei vincoli di responsabilità nell’amicizia, fino all’attuale scenario che vede lo scioglimento di ogni legame esclusivo. Un rompete le fila, ecco, un 8 settembre dell'amicizia. Da lì in poi ciascuno penserà solo a salvare la pelle, la propria pelle. Non quella dell’amico.
Se le cose stanno come credo e come in fondo pensava un altro celebre studioso, Zygmunt Bauman, mi sembra allora coerente che i contatti su Facebook vengano chiamati amici, per quanto siano dei semplici compagni di svago. Ci giochetto un po’, distribuisco qualche like, e poi stacco la spina, la connessione, il traffico dati. Non sarebbe fantastico, se potessimo fare lo stesso anche nella vita?
Eppure è già così, è proprio quello che accade nella maggior parte delle nostre relazioni, comprese quelle amorose. Compagni di svago, di piacere, di godimento o di jouissance, per dirla con Lacan che per primo intuì la crisi dell’ordine simbolico occidentale, di cui quello dei sentimenti è in fondo un semplice riflesso.
L’amicizia su Facebook diviene così l’emblema nominale di un’intera epoca; e noi che pensavamo fosse solo la sbadataggine di qualche programmatore informatico, certamente incline a spararla grossa. Invece si tratta di un genio! A mostrarci come durata e affidamento esclusivo siano ormai inutili orpelli, appartenenti a epoche remote e polverose. In cui non esisteva il deodorante, tra parentesi, e sai che puzza a Maratona
Ora invece le amicizie non hanno odore, solo numero. Non c’è più l’amico ma gli amici, più sono meglio è, il sistema ti consente di arrivare fino a 5000. E il bello è che non devi vegliare il loro sonno, se crepano neppure vieni a saperlo, e comunque non saresti potuto andare al loro funerale, perché avevi la partita di calcetto.

martedì 11 dicembre 2018

Tra orrore e inferno, o sulle domande giuste a cui si danno risposte sbagliate

Negli ultimi tempi mi è capito di scrivere con crescente ironia, se non a volte sarcasmo, di psicologia, psichiatria, psicanalisi, counselling e giù giù a digradare fino a quelle pratiche di miglioramento o , come si dice, "crescita personale", quali ad esempio la PNL, che nasce come studio sul genio assoluto di Milton Erickson per trasformarsi, opplà, in tecnica con cui vendere più aspirapolvere. Per non parlare dei seminari sulla gestione dei sentimenti e della coppia, magari attraverso la (pseudo) fisica quantistica; e questi sono i peggiori di tutti, ma sta di nuovo riaffiorando il crampo del livore.
Invece, per una volta, non intendevo esserlo. Cattivo. Tanto più che ho alcuni amici che si occupano di tali attività – se un amico fa un corso sulla “Coppia Illuminata” gli tolgo il saluto, ma restiamo nei canoni del buon senso –, amici che stimo e a cui voglio bene. Aggiungo che i miei amici hanno competenza e fiducia in ciò che fanno, si sforzano per ottenere dei risultati. Ma mi sembra di vederli ronzare contro un vetro, bing, bing, bing, come mosche ai primi freddi autunnali. C'è qualcosa che li respinge, non fuori però, e piuttosto dentro alle pratiche con cui cercano di aiutare chi non sta bene. Ma per liberarli da quale male? 
E’ l’orrore, the horror, ripeteva sottovoce Kurtz in una memorabile sequenza di Apocalypse Now, mentre il cranio glabro e sudato veniva solcato da una linea d’ombra, piccolo capolavoro tardo espressionista della fotografia di Vittorio Storaro. “L’orrore ha un volto” continuava quindi Marlon Brando, a interpretare il colonnello che aveva disertato dal quinto corpo delle forze speciali, per creare un suo piccolo regno all'interno della foresta cambogiana, un regno dell'orrore. “E bisogna farsi amico l’orrore…" è ancora Kurtz a parlare. "Orrore, terrore morale e dolore sono i tuoi amici. Ma se non lo sono, essi sono dei nemici da temere. Sono dei veri nemici.”
Ora a me sembra che il punto sia proprio questo: essere amici o nemici dell’orrore? E con esso dello sfascio civile, la volgarità, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Oppure dell’economia capitalistica e della mancanza di bellezza, almeno per noi che, molto più prosaicamente, non siamo tuffati nel pieno di una guerra tra piante esotiche e animali feroci. E’ allora normale che l’anima, anche solo uscendo di casa, invece che in coccodrilli e bazooka si imbatta in questa merda, ritrovandosi lordata e afflitta. Quindi si corra a chiedere aiuto a uno psicologo.
Ma se non soffri i mali del tuo tempo, significa che sei diventato anche tu amico dell’orrore. Oppure, per dirla con le parole con cui Calvino concludeva Le città invisibili
, sei parte dell’inferno. Già che "l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme".
Per via di tale prossimità infernale, è sempre Calvino a suggerirlo, "due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno. E farlo durare, e dargli spazio."
Andare da uno psicologo, uno psicanalista, un chi vuoi tu che ti prometta la salvezza (o forse sei tu che ti aspetti tanto, e lui semplicemente nicchia, come in amore lasciando credere in quel che, nemmeno volendo, potrebbe offrirti), andare in terapia mi sembra allora e il più delle volte darsi una risposta sbagliata a una domanda giusta, che è quella di fuggire dall’orrore e dall’inferno, per quanto alla bassa gradazione che ci ammorba.
Ma hai sbagliato indirizzo, quella poltrona brucia come tutto il resto. Ne condivide infatti lo zolfo sulla capocchia del cerino, con cui lo psicanalista si accende la proverbiale pipa in radica, oppure le parole a gettare benzina sul fuoco; perfino la prossemica, asimmetrica, è incendiaria, e brucia in sintonia con la piramide umana della nostra epoca, da cui pensa ci si possa salvare individualmente, fare tana come la marmotta. Al termine fanno cento euro, grazie, ma se non vuole la fattura posso farle uno sconticino. Sa com’è, una mano lava l’altra.
E’ come chi andasse in un negozio di bambole per chiedere un bel mazzo di violette. Non è nemmeno colpa loro, di psicologi, psichiatri e analisti, intendo, è solo che per formazione sono tenuti a vendere la Barbie e il Big Jim, e non fiori, giustizia e libertà. Tantomeno bellezza. Ma dove si prende allora la viola mammola, anche detta viola odorata, dove si può acquistare?
Io questo non l’ho ancora capito, ma ho il sospetto che la si debba cogliere, semplicemente cogliere... Prima però va cercata con attenzione, pazienza, individuando quei fazzoletti di mondo scampati alla pioggia del napalm, e all’incedere del deserto del conformismo.
Se non la trovi neppure lì, allora devi infilare un semino nella terra. Poi offrire acqua, sole, cure. E infine non recidere i bulbi che iniziano a tingersi di un bel violetto pallido, per piazzarli subito dentro a un vaso, e il vaso sopra a un mobile di cui scordarti immediatamente. Ma farli durare, e dargli spazio. Questo è l’unico modo per salvarsi dall’inferno senza diventare inferno pure tu.

lunedì 10 dicembre 2018

I would prefer not to, una storiella personale

Una volta, tanti anni fa, più o meno venti credo, avrei dovuto pubblicare un libro di poesie. La casa editrice già c'era, e non in quella forma miserella dell'auto finanziamento; per quanto anche Proust, inizialmente, dovette metter mano al portafogli.
Valerio Magrelli si era inoltre reso disponibile per la prefazione, dopo avere letto alcuni estratti che gli erano piaciuti, o almeno così mi disse. Inutile aggiungere che ero molto orgoglioso della cosa.
Ricordo che erano i primi tempi in cui si usavano le mail. E mi ricordo anche, molto bene di questo, che una mattina di buon ora (me lo ricordo perché la mattina presto non mi alzo quasi mai) avevo inviato una mail a Magrelli, dicendogli che quella prefazione non serviva più.
Gli avrò scritto prima grazie Valerio, grazie comunque e scusa, quelle frasi che si dicono in queste circostanze, ma il libro di poesie non si fa. E’ deciso. Punto.
Magrelli, che è persona di assoluta gentilezza e disponibilità, avrà sorriso leggendo. Quindi impiegato il tempo destinato alla mia prefazione per attività più interessanti. Tipo giocare a pallanuoto, di cui fu anche nazionale. 
Ma cosa era successo nel frattempo?
La sera prima e fino a notte inoltrata, avevo riletto tutti componimenti che avrebbero dovuto essere inclusi nella silloge, ma l’orgoglio che mi gonfiava alla maniera di un tacchino, la coda a ventaglio, mi si era afflosciato all'improvviso, come lo stesso tacchino arrivato alla vigilia del Thanksgiving day.
Semplicemente, avevo compreso di non essere un poeta. Non uno bravo intendo.
Ecco, volevo raccontare solo questa piccola storia privata, che forse privata del tutto non lo è. Perché l’orgoglio venuto e andato tanto rapidamente – il mio capo cinto d’alloro, le presentazioni in libreria, perfino gli autografi, no, si chiamano dediche, e poi di nuovo la fronte nuda e già vagamente stempiata – mi torna adesso nel ripensare a quella scelta.
Sì, è stata una delle poche cose di cui sono davvero orgoglioso. Aver saputo riconoscere e delimitare i confini della mia ambizione, dopo aver soppesato a lungo la manciata di talenti avuti in dote. Per poi pronunciare anch’io, come lo scrivano Bartleby, il mio “I would prefer not to".

domenica 9 dicembre 2018

Chiamami col tuo nome, o sul tempo e le albicocche

Ieri sera ho finalmente guardato l'ultimo film di Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome. Chissà, forse non l'avevo fatto prima distratto da tutti quei discorsi sull'omosessualità della pellicola, che mi facevano temere nel solito pistolotto edificante, alla Ozpetek, o in alternativa in un'esibizione compiaciuta e algida, di quelle costruite ad arte per épater le bourgeois. Insomma, in ciò che gli stessi gay, col sarcasmo che li contraddistingue, chiamano "froceria".
Invece, nulla di tutto ciò. Allora non è un film omosessuale?
Ci penso… In effetti, a parte l'insinuarsi di una fascinazione omoerotica nell'estate padana di un tardo adolescente di nome Elio, come il dio che sorge dal mare e diventa sole, a cui segue il tramutarsi in passione dello stesso sentimento ancora confuso, poi piano piano sboccia e si precisa, fiorisce nel rapporto e infine viene reciso da quella ciclicità naturale che l'aveva scandito, con l'amante americano, Oliver, che ritorna negli Stati Uniti, a parte questo incontro/incanto molto fisico ripreso senza falsi pudori dal regista, non accade molto altro.
Ok, dunque un film omosessuale.
No, ecco, forse sto iniziando a mettere a fuoco. E il sospetto è che sia un film su di me, che ho cinquant'anni (più della somma dei due amanti) e omosessuale non lo sono stato mai. Un film su tutto quello che mi sono perso, non tanto, o non solo, nel non avere mai vissuto qualcosa di simile e bello con un altro uomo, ma mi sono perso per strada da quell’estate del 1983 in cui è ambientata le vicenda, e proprio come Elio avevo allora diciassette anni. Un mio doppio, dunque. Un mio compossibile.
Il tempo che passa, le occasioni colte oppure no, il reclamare quel che in fondo già si possiede, ma solo attraverso l’altro si è in grado di riconoscere e infine amare. Cose che già sappiamo tutti, d'accordo. Ma qui, ed è davvero raro, finalmente vediamo, di più: condividiamo. Non però con la voyeuristica immedesimazione degli esclusi dalla festa, prevalendo piuttosto la consapevolezza di averla attraversata anche noi, ognuno a suo modo, certo, quella torrida estate in cui il corpo si risveglia e comincia a protendersi verso altri corpi, ma come in sonnambula. 
Nel film, in due occasioni, si possono ascoltare i versi di una canzone di Ivano Fossati, anche se a interpretarla è qui Loredana Bertè. Un sottofondo musicale offerto all’epoca da radioline e jukebox, per cui ogni estate accordava la voce in un suo proprio e irripetibile canto. 
Quel che suggerisce la storia è però l'immagine contenuta in un successo dell’artista ligure di alcuni anni precedente, in cui la scena sonora è attraversata da un treno carico di frutta, mentre una scalcinata banda rock (ma, all’occorrenza, suona anche tutto il resto) sta aspettando di partire. Ed eravamo alla stazione ci rivela la voce roca del cantante nel refrain, "eravamo alla stazione, sì, ma dormivamo tutti”. 
Al risveglio, la passione divampata tra i due giovani dello stesso sesso, che non senza sorpresa, oltre a un malcelato imbarazzo, c'è capitato di invidiare, smette di essere poi tanto augurabile, se non in quella loro condizione ancora sospesa sull'abisso. Non lo è, ad esempio, quando compare nella casa colonica ereditata dalla madre di Elio un'anziana coppia gay, quasi una parentesi burlesca con cui il regista stempera il rigore della messa in scena, ammiccando agli eterni stereotipi di genere. E come non pensare, con affettuoso rimpianto, al Vizietto e ai suoi memorabili interpreti, Ugo Tognazzi e Michel Serrault…
Rimpianto, l'abbiamo finalmente trovata la parola giusta! Più che verso una relazione omosessuale, a rappresentare già una prima determinazione biografica, a me appare però il rimpianto verso quella pansessualità che coincide con la prima maturazione di ogni frutto, in una stagione della vita che entra in risonanza con sé stessa, senza più alcuna cornice a definire e limitare. La vita tutta.
Quel che rimane – perché qualcosa rimane sempre tra le pagine chiare e le pagine scure, ma la perfezione del libro ancora intonso non sarà mai più restituita  – è in fondo solo archeologia, carcasse che si aggirano in un presente divenuto memoria, come le statute rinvenute nel fondo del lago di Garda alla presenza dei protagonisti. Memoria, per paradosso, soprattutto di ciò che non è possibile ricordare, già che non si ha avuto il coraggio di vivere. E sono i mari più belli che non si sono navigati.
Eppure ci vuole coraggio e forza anche nel sentire la perdita, quindi riconoscerla e nominarla, come fa nelle sequenze finali il padre del ragazzo, non a caso professore di epoche remote e di perduta bellezza, a cui il giovane americano si rivolge quale mentore nei suoi studi. Specialmente quando tutt’intorno trionfa una vuoto gioco delle parti, con gli amici intellettuali a battibeccare sull’ultimo Bunuel. 
Oltre che perfetto, è dunque un film spietato. Il film spietato e perfetto a cui Rohmer ha ronzato tutta la vita intorno, senza mai riuscire a realizzare. Forse perché Guadagnino ha inteso che per catturare quella perfezione non serve la profusione verbale che accompagnava ogni film del francese, i sentimenti non vanno recensiti, ammoniva Vittorini, ma basta stare lì e aspettare, guardare, infine cogliere come si coglie un'albicocca da un ramo.
Ma solo al tempo opportuno, kairos lo chiamavano i greci su cui Oliver sta cercando di scrivere un trattato, ricordando al professore che il termine albicocca ha navigato molti mari linguistici (salpa dalle sponde latine, poi tocca le coste bizantine, per ritornare a noi passando attraverso l’arabo) prima di cristallizzare nel meraviglioso suono che conosciamo. A-l-b-i-c-o-c-c-a.
E se nel periodo a cui si riferiscono le riprese, in modo molto più convenzionale, già si rimpiangeva il tempo delle mele, ora è il turno delle albicocche. Ma sarebbe un'interpretazione nuovamente semplificata e rozza. Perché non ha nome, è innominato e confuso come i nomi che si scambiano gli amanti, il frutto che a un certo punto afferra Elio per poi deflorare sessualmente, è semplicemente la prima cosa che gli capita sottomano per estinguere la pressione del suo uzzolo. Ma, al tempo opportuno, il tempo di un presente dilatato che si può riconoscere solo a posteriori, anche questo gesto osceno ci sembra carico di purezza, perfino di grazia.
La parole verranno dopo, vengono adesso, sono quelle che state leggendo. Parole quando il meglio è ormai perduto, e rimangono solo le parole da mettere in fila sotto a un pallido sole autunnale. Albicocche disidratate.

sabato 8 dicembre 2018

La scrittura e l'ombra, un dialogo

Leggo, tra i miei contatti Facebook, il monito di uno scrittore agli aspiranti colleghi, ai quali ricorda "che si scrive in italiano e quindi non è possibile che non si sia letto Manzoni D'Annunzio Volponi Pomilio, mentre si conosce a memoria l'opera di un oscuro autore di racconti dello Utah." 
Io stimo il lavoro, centellinato, di quello scrittore quasi famoso, e mi conforta il suo asserire così categoricamente un pensiero che ho sempre condiviso, e dunque mai messo in discussione. Mi è però venuto il vezzo socratico di interrogare me stesso, trasformando ogni certezza in domanda. 
E dunque, Domanda: Perché è necessario, volendo diventare scrittori, leggere Manzoni D'Annunzio Volponi Pomilio, e non conoscere a memoria l'opera di un oscuro autore di racconti dello Utah? 
Risposta: Che diamine, perché sono italiano! Nemmeno so bene dove si trovi lo Utah e mi sono ignote le regole del baseball; per non parlare del wrestling, che mi fa ridere, o dei popcorn, di cui mi si incastra la pellicina sul palato. Inoltre, vado poco oltre la frase "the book is on the table".
Domanda: Intendi dire che è una questione di linguaggio? 
Risposta: Sì, è così. Parlo la lingua del mio Paese. Devo quindi conoscere gli autori che con maggior forza, o riscontro, si sono espressi con gli stessi termini, modulazioni sintattiche, suoni. 
Domanda: Dunque scrivere significa appartenere a una lingua come si appartiene a una famiglia, a una nazione, a un partito o a una squadra di calcio, e non a un immaginario che non ha tessere e confini? Da ciò ricavando che ogni lettura in traduzione è un'esperienza inautentica. 
Risposta: Beh, sì, no, voglio dire… 
Piccolo aiutino da parte della Domanda: Senti, te la butto lì. E se scrivere, con ambizioni di pubblicazione intendo, fosse piuttosto il gesto di qualcuno che con le parole aggancia, dentro di sé, qualcosa che sta anche fuori, negli altri, in uno spazio aperto ma collegato, cercando con le proprie letture una risonanza con quel nucleo ancora indistinto eppure fecondo? Un modello insomma, da onorare ma anche tradire, o meglio trascendere. 
Primi dubbi, la Risposta tentenna: Interessante, vai avanti! 
La Domanda non si fa fregare: No, sei tu che ora devi andare avanti, tu quello che vuole fare lo scrittore. Oppure preferisci il critico letterario? Perché, in questo caso, davvero devi conoscere ogni pagina composta in italiano, e non solo da Manzoni ma anche da Mughini. 
Risposta: No no, non mi ci sento tagliato come critico letterario, non è la mia tazza di tè. 
Domanda: Lo vedi, hai appena utilizzato un'espressione anglosassone. Un po' trita, fattelo dire. Ma da molti decenni l'esperienza che abbiamo del mondo non è più un'esperienza geograficamente limitata. Quanto alla lingua, è vero: Don DeLillo non ha pensato le sue storie nella lingua in cui scrivi. Ma nemmeno Fenoglio l'ha fatto. Fenoglio ha in molte occasioni realizzato una prima stesura in inglese, per poi ritradursi in italiano. E tu, senti di risuonare con la lingua di Fenoglio e DeLillo, per quanto in traduzione, o con quella di D'Annunzio? 
Risposta: I secondi, i secondi che hai detto! 
Domanda: E allora perché non impari ad andare oltre le dogane che, puntualmente, qualcuno cerca di tracciare, e senza troppe preoccupazioni non ti costruisci il tuo personale canone di letture. Perché per scrivere bisogna anche leggere, questo è fuori dubbio. Un bravo scrittore italiano ci ricorda che "scrivere senza leggere è come pretendere di essere amati senza amare".
Risposta: Wow, questa me la segno!
Domanda: Bravo, segna, segna pure. Perché per scrivere bisogna imparare anche le frasi degli altri, ripeterle ad alta volce, dialogare con le ombre. Ombre tanto più estese e grandi della nostra, naturalmente. Ma anche con quelle piccoline. Vuoi dunque imparare a memoria l'oscuro scrittore di racconti dello Utah? Ok, fallo. Quando apri un libro di D'Annunzio ti viene voglia di invadere la Dalmazia? Nessun problema, non leggerlo. Però devi sapere che non tutto è uguale a tutto, il valore è asimmetrico e spesso ci vogliono secoli per riconoscerlo. Anche se i film di Kubrick e Sergio Leone sono il più delle volte ispirati da romanzi minori, piccole ombre.
La Risposta è perplessa: E cosa c'azzeccano adesso il cinema e le ombre, non stavamo parlando di letteratura? 
Domanda, che inizia a spazientirsi: Se non l'hai ancora capito, cosa c'entra il cinema ma anche la storia dell'arte, la filosofia, la boxe, le zebre con o senza pois, le gare di go-kart, la 
numismatica, l'otorinolaringoiatrica, se non hai capito che tutto e niente c'entrano con la via per diventare scrittori, accomodati pure. Sullo scaffale della libreria c'è D'Annunzio che ti aspetta. 
Risposta, spiazzata, che a sua volta domanda: Ma devo leggerlo proprio tutto tutto, anche gli epistolari con la Duse, se voglio diventare uno scrittore…? 
Resa finale della Domanda: Getto la spugna, con te è come cavare sangue dalle rape. Torna pure su Facebook. Che io vado a leggermi un oscuro autore di racconti dello Utah.

lunedì 3 dicembre 2018

La psicanalisi come l'amore? Vediamo...


Secondo Jacques Lacan, amare è dare ciò che non si possiede. Ripensavo a questo aforisma in relazione alla stessa psicanalisi. In fondo anche nella pratica analitica viene offerto al paziente il fantasma di qualcosa – il benessere psicologico, la salute fisica, addirittura la felicità – che per la limitatezza dei suoi mezzi non può realmente concedere, se non per via illusoria.
In realtà è il paziente a reclamare quell'illusione, ma la psicanalisi non se ne sottrae, nicchia, offre l'impossibile in forma omissiva. Lacan aggiungeva che l’amore, a differenza del desiderio erotico, è sempre reciproco. Se ne ricava che amare è dare ciò che non si ha a qualcuno che corrisponde con lo stesso nulla oblativo. Ma è qui che si interrompe il parallelo con la psicanalisi.
Andare in terapia comporta infatti il gesto iniziale di premere il campanello di una casa, e dentro la casa un appartamento che non ci appartiene. Verrà ad aprire un estraneo, in genere il tono della voce è molto gentile anche se c'è qualcosa di impersonale, la sensazione di quando si passa vicino al banco dei surgelati. Prego, ci dirà. E noi allora entreremo e, non senza una certa circospezione, ci accomoderemo – dove? Su una poltrona, un divano, una seggiola qualsiasi... Macché, un letto. Ma piccolo. Un lettino.
A quel punto  "si rilassi, lasci andare tutto ciò che la trattiene", e come per miracolo la voce è ora divenuta calda, quasi sensuale  a quel punto potremo finalmente metterci a nudo, per quanto solo metaforicamente. E sarà comunque un'opportunità da non lasciarsi sfuggire: afferrare a piene mani il tutto che ci manca, e l'altro ci offre nella piena disponibilità del suo niente.
Ci sono però dei limiti fisici e cronologici: sono banditi i baci in bocca, e al termine del tempo convenuto si deve prendere le proprie cose e andare via. Di solito sono una quarantina di minuti o poco più, il minimo sindacale per l'amore; perché di quello si tratta, già l'abbiamo visto. Bisogna aggiungere che la scintilla non sempre scocca al primo colpo. Ma, altre volte, sono degli incontri davvero appassionati, pianti e gemiti che vengono alla gola da chissà dove. Le gambe molli e la testa come un'arancia appena spremuta, quando è finito.
Ricambieremo con qualcosa di assai più concreto: settanta, ottanta, non di rado anche cento e più euro per incontro. Che l'uomo, o la donna, infilerà sveltamente in un cassetto. Grazie, ma il tono è ritornato all'improvviso impersonale, e di nuovo la ventata algida del congelatore. Va bene lunedì prossimo? aggiungerà. E come la sventurata manzoniana noi non potremo che annuire.
A qualcuno stanno già ronzando le orecchie...?
Eppure, dai, non è difficile. Basta fare un piccolo salto di livello, e valutare i dettagli con maggiore attenzione. I tempi, la modalità, perfino l’importo pagato. Tutto corrisponde! E ci accorgeremo allora che l’analogia giusta non era quella con l’amore, ma con la prostituzione.
Sì, uno psicanalista è la versione raffinata e up to date di una mignotta.

Rospi veri dentro giardini immaginari, o sul grande sonno dei social network

Marianne Moore, da grande e visionaria poetessa qual era, scrisse che compito della letteratura è "mettere rospi veri dentro giardini immaginari".
Mi viene in mente questa frase sempre più spesso. A proposito della famigerata scena dello stupro in Ultimo tango, ad esempio, che tante, troppe polemiche postume ha sollevato. Ma l'accostamento – rospi veri, giardini immaginari – mi risuona tanto più forte quando accedo a un social network, cosa che faccio di frequente.
In un senso opposto, però, alla finzione letteraria e cinematografica. Sul web l'autenticità non corrisponde infatti con le emozioni provate, come nel caso degli attori che rievocano esperienze passate e magari dolorose, rospi veri, con cui sperano di agganciare il mood giusto per entrare in parte, simulando tutto il resto.
Ma dove stanno allora i rospi veri, ad esempio su Facebook?
Semplice: siamo noi. Le foto a corredo del profilo, il cucciolotto di labrador che trotterella smarrito nel nostro appartamento – e alla borsa dei like, sigla anglosassone con cui si misura il consenso, gli animali, specie in giovane età, fanno impennare le quotazioni, quasi quanto il primo bagnetto del figlio o una sposa bianco vestita, su cui piovono feroci manciate di riso. Oppure sono le storie che raccontiamo di continuo, piccole o grandi vicende quotidiane di cui facciamo pubblica ostensione, come l'ostia benedetta innalzata dal prete in direzione dei fedeli.
Esistono però anche i giardini immaginari, ci ricorda Marianne Moore. Che in questo caso consisteranno nel rapporto incerto con gli altri utenti, la sensazione a fil di pelle quando leggiamo in quanti ci stanno seguendo, magari anche amando... Lo deduciamo dai pollicioni blu (correlativo iconico degli stessi like) depositati ai piedi degli interventi che rilasciamo a getto continuo, alla maniera della monetina, tin, lasciata cadere nel cappello del mendicante.
 E così ci svegliamo nel pieno della notte per contarli, per verificare quanto amore siamo riusciti a raccattare anche oggi.
Alla lunga si finisce perfino col credere che un "amico", come viene iperbolicamente chiamato un contatto, sia davvero un amico, o un flirt virtuale un flirt. Eppure anche l'odio degli hater è odio fittizio, giardini immaginari. Certe persone forse odiano, o meglio fingono di odiare, per dare più forza di verità alla loro presenza pubblica, senza accorgersi che è già tutto verissimo.
Talmente vero da aver bisogno di immaginare di non esserlo: dei rospi, quando da piccoli credevamo che saremmo diventati principi e meglio se di un bell'azzurro color del cielo, per essere richiamati al mondo dal bacio di una principessa; in alternativa potevamo essere noi a risvegliarla dal suo sonno, naturalmente incantato, con il semplice tocco delle labbra. 
Ma invece le cose sono andate in modo diverso, non la principessa ma prima uno, poi un altro, e alla fine siamo milioni a esserci appisolati, cominciando a sognare. Un sogno in cui ci troviamo in un giardino bellissimo dove tutti ci guardano e ci vogliono bene.