domenica 22 gennaio 2023

Nuovi media per vecchi giochi, o sulla seduzione intellettuale

Gli uomini colti, studiosi, anzi no meglio, studiati, sui social tendono a offrire un’immagine di sé abbastanza uniforme, in cui il corpo trova pochissimo spazio e nessuno il genere maschile, il mascolino come rappresentazione. Solo rare fotografie che li ritraggono, a introdurre il sospetto di un'ipoteca ideologica. Così la potremmo formulare: io sono puro pensiero, non volgarissima carne. Dei moderni gnostici si direbbe.

Esattamente il contrario di quanto accade a donne ugualmente istruite, sempre osservate da quella specula antropologica che sono i social. Parlo per macro categorie, tendenze. Che le vede impegnate in una riflessione anche fisica, a noi restituita attraverso immagini a volte esplicite, perfino erotiche, sensuali, nei limiti della censura bacchettona del mezzo. Perlopiù si tratta di selfie, in cui il proprio corpo viene documentato nel dettaglio, accompagnando l'incarnazione all'astrazione intellettuale.

Non credo sia presente una strategia di qualche tipo, piuttosto viene alla mente la modalità del collaudo, si prova e si vede che succede. Eppure, a chi incrocia quelle immagini, sembra di potervi scorgere un sotto testo, ricorda il refrain di una celebre canzone di Rossana Fratello: “Sono una donna, non sono una santa, non tentarmi non sono una santa…”

Però intanto io tento te, continua l’interpretazione azzardata degli scatti, voglio vedere quale è il tuo punto di rottura, se cedi, capitoli, mi lasci un like come gesto di resa al mio essere femmina, non solo donna. Quello valeva negli anni Sessanta: le donne che si fanno strada nei circuiti intellettuali, tradizionalmente maschili, identificandosi con il cervello. Ora non basta più, acquisito il riconoscimento si fa ora un passo indietro. Come nel Monopoli, dopo avere fatto tutto il giro si riparte da vicolo Corto.

Ma allora è seduzione, stanno cercando di rimorchiare? Forse no. Se pure ti piaccio – dì la verità che ti piaccio… prosegue il sotto testo – sappi che non mi puoi avere. Guardare ma non toccare. Mica sono una troietta qualunque; ho studiato filosofia con Maurizio Ferraris, fatto il master in Germania, lavoro in una casa editrice prestigiosa e parlo tre lingue moderne e due antiche. E se non ti basta ancora, ho pure il numero del portatile di Baricco.

Tutte cose effettivamente vere. Se vai a leggere quel che scrivono la prosa scorre via limpida e scattante, anche ironica, pungente. Un piacere! Oppure puoi trovarvi citazioni da Sylvia Plath, Hannah Arendt, Etty Hillesum. Il meglio del meglio del catalogo Adelphi, insomma.

È la disposizione femminile che i francesi chiamano allumeuse. Donne che accendono il desiderio maschile per il solo gusto di farlo, lasciandolo poi ardere in solitudine, nessuna speranza di spegnere le fiamme con le loro acque. E ripeto va benissimo, nessuna critica o recriminazione: è un modo come un altro per definire i propri limiti e possibilità, riconoscersi attraverso lo sguardo dell’altro.

Arriverei perfino a dire che rappresenta un elemento di pragmatica saggezza; l'intelligenza di chi ha compreso la natura del mezzo, convertendo il freno in acceleratore di traiettorie sensibili, significanti privi di alcun significato. Qualcuno potrebbe insinuare il sospetto di narcisismo, ma anche se fosse come biasimarle, in un luogo dove ogni relazione reale viene negata a priori. Quando su Facebook viene chiamata amicizia un semplice contatto tra sconosciuti, perché non chiamare, fuorviando ugualmente la semantica, eros l'esibizione sterilizzata del proprio corpo? Dunque hanno ragione loro.

Ma allora quelli che hanno torto siamo noi, la manifestazione erotica è ciò che fa difetto nell’ascetismo intellettuale. Va nella direzione di quel processo alchemico che Jung chiamava mysterium coniuctionis, in cui gli opposti trovano integrazione e non più solo conflitto: io sono preziose sinapsi ma anche tette sode, culo e coscienza critica, il libro e le rose. È la logica dell'et et da sostituire all'aut aut, praticato dai maschi letterati.

Credo che dovremmo iniziare a fare lo stesso. Uscire dai monasteri e tornare a fare i bei sirenetti, lasciare fiorire il pacco con nonscialante casualità, e poi piazzare pure la medaglia al valore intellettuale, la citazione di Roland Barthes che ci distingue dagli infiniti pacchi senza griffe. Perché, alla fine, il gioco a me sembra questo, uguale uguale al sistema della moda. Ci sono i jeans Armani e ci sono i jeans Carrera. Sono identici, ma i primi costano cinque volte di più.

Un bel corpo smutandato – uomo o donna, non fa più molta differenza – con allegata una frase di Kafka varrà allora cinque volte uno accompagnato dalla scritta vai maggica Roma! Un gioco un po’ infantile e senza premi in natura. Pazienza. Ma se dobbiamo giocare, giochiamo pure.

sabato 21 gennaio 2023

Trilogia del pompino, ultima parte

Concludo quella che potremmo chiamare trilogia del pompino. Ho ricevuto molti commenti – alcuni di rimbrotto moralistico, ma devo dire senza mai scadere nell’insulto – per due precedenti post sull’argomento, di cui il primo era semplicemente un racconto. Tra le varie voci critiche, una di quelle che ho trovato più interessanti chiamava in causa lo scrittore Vitaliano Trevisan.

Il suo ultimo libro, pubblicato postumo da Einaudi Stile Libero con il titolo di Black Tulips, in effetti parlava, tra le altre cose, proprio di rapporti con prostitute nigeriane, rapporti a pagamento consumati dal personaggio il cui nome corrisponde a quello dell’autore. Ma per quanto sia doveroso mantenere distinti i ruoli, se anche Trevisan, come lui vuol farci credere, avesse fatto sesso a pagamento, che succede, è sfruttamento sessuale?

Io penso che questa sia una domanda mal posta, da qualche tempo ho iniziato a sospettare che l’attributo sia ridondante. Intendo: proviamo, anche solo come ipotesi interpretativa, a considerare solamente il sostantivo sfruttamento, senza l’aggettivo sessuale. Lo sfruttamento quale categoria discriminante dei comportamenti umani.

A questo punto diventa poco significativo, quasi un dettaglio, distinguere tra un corpo malpagato – non so quale sia il prezzo "congruo" per un pompino, ma di certo non dieci euro, da dividere con qualche pappone – e un malpagato lavoro, come potrebbe essere per un raccoglitore stagionale di ortaggi. Sono entrambe forme di sfruttamento. E rispetto allo sfruttamento vedo solo tre possibili atteggiamenti, da cui si diramano infinite sotto varianti. La metafora ittica le restituisce con icastico vigore:

1) Pescecane – sfrutti anche tu chi è sfruttabile, come il pescecane sfrutta la propria mole per divorare tutto ciò che si muove ed è più piccolo e indifeso di lui. Per fare un solo nome che circola in questi giorni: Matteo Messina Denaro, con quel cognome che è già un progetto di vita;

2) Salmone – provi ad aiutare gli sfruttati, gli umiliati, gli offesi. Quelli che stanno fuori dal cono di luce della storia. Li aiuti senza fini secondi e vantaggio alcuno, alla maniera di un salmone che nuota nel verso opposto alla corrente. Don Oreste Benzi, il prete che offriva sostegno alle prostitute, è un luminoso esempio della seconda categoria;

3) Sardina – ti adegui al mondo, segui i movimenti del banco. Cercando di non sfruttare ma, neppure, salvare nessuno. Sei insomma un uomo medio, che nel cortometraggio La ricotta Pasolini definiva “un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista”. E per finire anche qui un nome: il ragionier Ugo Fantozzi.

Il personaggio Trevisan mi sembra appartenere alla terza categoria. Come il personaggio Guido Hauser è una sardina, nonostante certi atteggiamenti idiosincratici e bruschi: sia suoi sia miei. Trevisan (sempre personaggio, attenzione!) andava con le prostitute. Ok, come ci va di tanto in tanto anche il personaggio Guido Hauser. Ma non mi risulta che Trevisan le picchiasse, le stuprasse o gli sfilasse dalla borsetta i pochi soldi delle marchette. Il suo era un atteggiamento molto più onesto di molti altri, quantomeno nella trasparenza, quasi candore, con cui ce lo restituisce. Chi l'ha detto, infatti, che i corpi non vanno venduti, anzi meglio affittati?

Trevisan affittava il corpo di giovani donne nigeriane, Guido Hauser, perlopiù, di slave o rumene. Ma abbiamo sempre pagato, a volte anche più del richiesto. Cercavamo insomma di essere affittuari scrupolosi, sardine che non rovinano ciò che gli viene provvisoriamente consegnato. Quindi restituito nelle medesime condizioni.

Il nostro essere uomini medi e cioè, appunto, “mostri”, consiste unicamente nell'arrestarci all’immediatezza del testo, lasciando provvisoriamente tra parentesi il contesto. Che è il luogo dove avviene lo sfruttamento vero, la tratta dei corpi da parte delle associazioni criminali. Di cui l’immediatezza percettiva rende in una certa misura complici, questo è fuori discussione. Il mondo si arresta alla misura del sensibile.

Ma quante persone, ripeto, hanno la forza e la volontà di risalire il fiume, nuotare nel verso opposto alla corrente? Quanti sono i santi laici, i rivoluzionari, i Paperinik, persone che salvano il mondo e non solo il proprio culo? E soprattutto quante sono in grado di certificare la filiera etica dei pomodori che finiscono nel loro piatto, escludendo ogni ombra di sfruttamento?

Chi non lo fosse – immagino quasi tutti – e si ostinasse in una crocifissione postuma del corpo già sottoposto ad auto supplizio di Trevisan, per rimanere nella metafora evangelica è un sepolcro imbiancato. Sguardi allenati a cogliere la pagliuzza nell'occhio altrui, ma ipermetropi rispetto alle proprie travi.

Se un merito, incontestabile, io riconosco al personaggio Trevisan, è dunque quello di una lucidità estrema sulla propria collocazione tra le cose, nei rapporti con le persone. Ed è questo elemento di consapevolezza a sottrarlo infine alla categoria ignara dell’uomo medio, della sardina. Collocandolo in una dimensione affettiva che Hegel chiamava “coscienza infelice”. E io preferisco di gran lunga le coscienze infelici come Vitaliano Trevisan alle anime immacolate che, per dirla con le parole dell’ultima affilata canzone dei Baustelle, pensano di essere contro il mondo, e invece l’hanno addosso.

Perdere l'amore? No, la faccia

Ieri ho pubblicato su Facebook un post. Era un racconto. Parlava di un pompino. O più precisamente di un pompino con una prostituta nigeriana, come frattale di un presente più banale che criminale.

Il male è infatti nelle cose in sé, il protagonista del racconto si ostina in una bontà patetica quando è coinvolto in un rapporto asimmetrico con la ragazza, che mentre gli succhia il cazzo continua a starnutire. Una cosa che lo intenerisce, diventa materno, sollecito di cure. Ma come un moderno Ninetto Davoli non è sfiorato dalla coscienza del contesto, l’ombra scura che si annida dietro questo suo piccolo inoffensivo piacere.

Le sue premure divengono così grottesche, a partire dal pagamento raddoppiato rispetto alla richiesta di dieci euro. Ci vede anzi della bellezza in questa decadenza, della poesia. E poesia e bellezza, nella decadenza, bisogna riconoscere che ci sono per davvero. Solo che lui le sceglie, la ragazza no.

Lui, nel racconto, prende il nome di io. Quindi sono uno stronzo?

Domanda mal posta. Il personaggio di ogni racconto è sempre e solo il personaggio, poco importa che nella mia vita abbia effettivamente avuto rapporti con delle prostitute. Importa invece molto il fatto che quasi tutti quelli che hanno letto il racconto hanno creduto nella coincidenza.

Ora, per qualcuno, potrebbe rappresentare un fallimento: la confusione tra autore e personaggio. Anche perché l'autore, e cioè io, non fatemi parlare in terza persona, io possiedo un'intenzione divaricata al personaggio. Ciò che intendo mostrare è l'estetizzazione come argine al conflitto. Oltre alla tenerezza umana, la complicità, che possono nascere ai margini della morale pubblica.

Tutto ciò non rappresenta però una praticabile alternativa, e così il conflitto resta tale. Il protagonista se ne torna a casa dalla sua fidanzata vegana ascoltando il CD che lei gli ha regalato (ah, per inciso: mai avuto una fidanzata vegana, e ora neppure una fidanzata) e la prostituta nigeriana continua ad accumulare preservativi usati nel suo sacchetto dell'Esselunga.

Eppure è proprio la confusione  essere stato creduto nella mia piccola menzogna – a farmi pensare che quel racconto sia andato a segno, compreso il disprezzo che così mi sono guadagnato da parte di molte donne. C'è chi la chiama sospensione dell'incredulità, in narrativa è un valore. Alla fine aveva ragione Saviano, quando suggeriva che la prima domanda che uno scrittore dovrebbe farsi è cosa sono disposto a perdere scrivendo.

La mia risposta è: la faccia. Che su Facebook possiede l'unità di misura dei like. Più sei buono, virtuoso, amante degli animali come la fidanzata del protagonista, più nel regime della banalità istituzionalizzata guadagni consenso. E infatti il racconto ne ha raccolto pochino.

Ma attenzione: il valore letterario c'entra poco, non intendo fare – non è mio compito, non lo è di ogni scrittore  una apologia del mio testo. Forse, probabilmente, che ne so, era un racconto semplicemente brutto. Ma non è questo elemento a venire innalzato o crocefisso sui social.

Il proposito per il nuovo anno sarà dunque: fare sempre più schifo, perdere definitivamente la faccia. O, in forma più radicale, sparire dall'orizzonte percettivo dei più. Il mio masochismo trova in questo mezzo un prezioso complice, la finzione si realizza. E così sia.

martedì 17 gennaio 2023

Il cuore del mondo

Il cuore del mondo, giuro, io una volta l'ho sentito battere. Di questo mondo, almeno. Altri mondi non ne conosco. Il suo pulsare non aveva il suono di sistoli e diastoli, ma di starnuti.

Ero appena stato dal dentista. Quando mi risollevo dalla poltrona del dentista – la lampada scialitica ricoperta da una pellicola trasparente, l’eco del trapano ancora nelle orecchie – avverto la confusa vitalità che segue ai funerali. L'abbiamo "messo via" si dice da queste parti. E poi tartine con cui ingozzarsi, le uova di lompo tra i denti mentre ci si scambia pettegolezzi, ma d'altronde the show must go on, così si progettano rimpatriate da rimandare al prossimo funerale. Sotto camicette scure riaffiorano i seni delle donne.

È una donna scura anche quella che vedo crescere al diminuire della distanza che ci separa. Magra. Alta. Probabilmente nigeriana. Un amico mi ha detto che da queste parti ci stanno le nigeriane. Prova, ha aggiunto.

Bizzarro posto per prostituirsi, penso. Una rotonda al crocevia di strade comunali ritte come in una foto di Luigi Ghirri (su quelle sarebbe più facile adescare i clienti) a solcare i campi poco prima di un poligono di tiro.

In estate qui cresce il granoturco, si possono scorgere i fusti recisi che ricordano mani protese di bambini sepolti. Sbucano dal suolo per chiedere aiuto o fare gli scherzi agli innamorati. Si cercano, in un labirinto di foglie, fino a che uno non trova l’altro e riceve un bacio. Ma non adesso. 

Ora la terra è ricoperta da uno strato sottile di neve, il cielo sopra dello stesso colore. Niente di strano alla metà gennaio. Seguo la rotazione di marcia della rotonda e, quando l'ho raggiunta, accosto. Abbasso il finestrino. Insieme all'aria tiepida del riscaldamento fuoriescono le note di Hotel California. La mia fidanzata mi ha regalato il CD al compimento dei quarant'anni, abbiamo festeggiato con una cenetta vegana. Lei non mangia carne perché le dispiace far soffrire gli animali, e un po' anche a me.

Si continua, come da consuetudine, con la dichiarazione della pratica richiesta, seguita da più caute informazioni sul compenso. Come i tedeschi che non entrano al ristorante se prima non leggono il menu con i prezzi dettagliati, nelle località turistiche viene esposto in una locandina accanto all'ingresso. Il tutto riassunto in due parole, tre con la preposizione.

– Quanto di bocca?

– Dieci euro.

Dieci euro?! Troppo pochi, non scherziamo... Gliene offro venti e non le sembra vero. Anche di stare un poco al caldo. Dai, monta. Imbocchiamo un viottolo in terra battuta che a breve si interrompe in uno slargo. Nulla che vi si affacci, come se fosse la piazza di un civiltà perduta o la scommessa su di una futura. In attesa di quel tempo, viene riempita con qualche oggetto di scarto: un materasso sfondato, quel che rimane di un passeggino, l'ala di un aeroplano radiocomandato che forse qui veniva fatto decollare. 

Lascio accesso il motore per non perdere temperatura. Nessuna parola o presa di confidenza tra i corpi, preliminari. Solo un po' di stimolo con la mano (le dita spuntano da guanti di lana color crema, le unghie hanno smalto cremisi) prima di infilarmi un preservativo di una marca che non ho mai sentito nominare. Io sono ipocondriaco, faccio caso a queste cose. Ma in fondo è solo un pompino, e mi rilasso.

Si china per iniziare ciò che abbiamo pattuito quando arriva il primo starnuto. Scusa, mi dice strofinandosi il naso con la manica del piumino sintetico, la tinta è un po' più chiara e sbiadita dei guanti. Ma figurati. Dopo una decina di secondi un nuovo starnuto.

– Dai, basta, non vedi che sei malata.

– No no, domani passa.

– Ti porto a casa – insisto.

– Tu pagato, io finire.

– Ma così finisci all’ospedale.

– …

Non risponde, ha già ripreso con la foga di chi giustamente considera il tempo denaro. Mentre è curva su di me osservo il collo sottile, le donne nigeriane di solito l'hanno più muscoloso. E poi è profumato. Troppo profumato. Un odore di spezie che stordisce. Qualcosa tra il sentore che si immagina in una principessa di un paese lontano e il rosolare lento dello spiedo su cui è infilzato il kebab.

Mi viene il dubbio che sia senegalese, o magari ivoriana… Dal viso si dovrebbe intuire ma mi accorgo di averne già scordato i lineamenti. Così non vale, è come se tutte le donne nere del mondo, anzi tutte le donne e basta, il femminile, mi stesse succhiando il cazzo. Non c’è proporzione, a ogni affondo mi sembra di venire divorato da una creatura primordiale e indistinta. Ma in questo modo anche i miei confini finiscono col dileguare.

Provo a restituirle un’identità (per riconquistarla a mia volta) attraverso immagini d’archivio. Dipinti famosi, attrici, fotomodelle di colore che mi eccitavano negli anni Ottanta. Oppure Joséphine Baker, sì, ecco, lei! Joséphine Baker che si dimena al Théâtre des Champs-Élysées con un casco di banane al posto della gonnellina. Poi un nuovo starnuto sopraggiunge a interrompere il mio fantasticare.

– Sicura che non vuoi che ti porti a casa?

– Quale casa?

– Beh, una, non so…

– Tu non sapere tante cose.

Questa volta solleva la testa e mi guarda. Sorride. Probabilmente ride di me, ma intanto dischiude la bocca mostrando denti da pubblicità di un dentifricio. La posa che cercavo!

Metto a fuoco il suo volto, predispongo la pellicola della memoria e clic. Ora ha smesso di essere tutte le donne. È una donna sola, anzi una ragazza: quella ragazza lì e non un'altra che le somigli. Vent’anni, ventidue al massimo. E un raffreddore colossale che, ha ragione lei, tra pochi giorni passerà, come tutto quanto. Qualche nuovo starnuto e abbiamo finito, la riporto alla sua rotonda.

– Sicura sicura...?

– Tu simpaticone. Ho detto giusto?

– Non so.

– Hai fidanzata?

– Sì, non mangia carne.

– A te piace carne?

– Preferisco il pesce.

– Italiani... – e di nuovo ride.

– Allora ciao.

– Ciao.

Quando sono ripartito le mani dei bambini erano ancora al loro posto, conficcate a reggere il cuore del mondo. Una Volkswagen Passat proviene sulla corsia opposta. Un'auto che acquistano i rappresentanti di commercio, o chi ha molti figli e un cane da fare balzare nel portellone. Nello specchietto retrovisore vedo accendersi la freccia, quindi la lucina rossa degli stop che precede la negoziazione. L'ultima immagine che conservo sono le lunghe gambe nere di di... Ho dimenticato di chiederle come si chiama. Ora è di nuovo tutte le donne.

Tutte le donne salgono sulla Passat. Poi un Kleenex vola dal finestrino, plana lentamente sul ciglio della strada posandosi accanto a un sacchetto dell'Esselunga. È pieno di preservativi di una marca che non ho mai sentito nominare. All'interno di uno, uno dei tanti, non fa molta differenza, devono esserci anche i miei spermatozoi. Negli altri il seme di tutti i clienti della giornata. Pesci rossi penso, pesci rossi in un acquario. Li unisce l'illusione di un ovulo da fecondare. Ancora si dibattono, ostinati, nella ricerca.

Il mio amico, quello che mi ha invitato a provare con le nigeriane, dice che i clienti delle prostitute tra loro si chiamano colleghi.

lunedì 16 gennaio 2023

Antropologia pop

In una recente canzone di Shakira dedicata al “fedifrago” Piqué (il termine è quello riportato dalla maggioranza dei media, io ne prendo semplicemente atto, sciatteria linguistica compresa, la mia conoscenza della vicenda è proporzionale all'interesse), in questa canzone che non ho ascoltato per pigro pregiudizio, dicevo, Shakira oppone una Ferrari a una Renault Twingo, e un Rolex a un orologio Casio. Se ne dovrebbe ricavare che Shakira è la Ferrari e Twingo la nuova compagna di Piqué, Shakira il Rolex e di nuovo l’altra, la rubamariti, la terza incomoda, il Casio.

Sul fatto che l’essere abbandonati, soprattutto per una donna, una donna bella e famosa, è quantomeno una seccatura (una ferita narcisistica direbbe uno psicanalista) niente da dire; in fondo già Shakespeare ammoniva che l’inferno non conosce l’ira di una donna respinta. E poi anche gli uomini non sono nuovi al genere revenge song. Sornione, Guccini, alludeva soltanto: “vedi cara, è difficile spiegare, è difficile capire, se non hai capito già…” Mentre Finardi ci andava giù pesante: “Piccola stupida stai via, piccola stupida sei via, non toccare mai più la vita mia, stupida piccola mia.”

L’elemento di novità sta dunque nella doppia contrapposizione tra Ferrari\Twingo e Rolex\Casio. Una vera e proprio teoria del valore in forma condensata, un'assiologia della tarda modernità. Non so se Shakira ne fosse a conoscenza quando ha scritto il testo – ammesso che l’abbia scritto lei, sono poco informato anche su questo – ma è proprio un orologio Casio quello che si intravede al polso di Papa Francesco, un modello in vendita su Amazon a 24,50 euro. Mentre in un’altra saga mediatica gli ex coniugi Totti si contendono dei preziosi Rolex.

Dobbiamo ricavarne che se i ricchi indossano Rolex e guidano Ferrari, i buoni girano in Twingo e, per vedere di non fare tardi alla messa, buttano un occhio al loro Casio?

Macché, non facciamo del moralismo, a ciascuno in base a gusti e portafogli, nessuna polemica sulla base di una presunzione morale che non mi sfiora. Ma è un fatto che la canzone restituisce con pregevole esattezza un fenomeno degli ultimi decenni, potremmo così provare a riassumerlo: non sono le risorse economiche a venire distribuite equamente, questo l'avevamo compreso, ma le rappresentazioni ad esse connesse sì, sono trasversali a ogni condizione di esistenza. I poveri hanno smesso di avere una propria simbolica, con forse qualche residua traccia nell’epica criminale dei trapper o, in Italia, in quella dolceamara dei neomelodici napoletani.

Il fenomeno è recente, abbiamo detto, ma parte da lontano; fine anni Sessanta secondo Pasolini, che lo chiamava nuovo fascismo. Un termine magari un po’ altisonante per indicare una vera e propria mutazione antropologica – sono sempre parole sue –, in cui le culture genuinamente popolari, contadine e proletarie, venivano incorporate dall’immaginario borghese, a proiettarle verso i suoi miti di consumo. Rolex e Ferrari, come dirlo meglio.

D’altronde, i mutamenti sociali hanno sempre trovato nella canzone popolare un correlativo icastico, a intercettare sentimenti e umori diffusi – e Shakira lo fa benissimo, almeno a giudicare dal successo che ottiene. Non è nuova neppure la metafora automobilistica. In anni ancora recenti era la Topolino Amaranto su cui Paolo Conte dichiarava di stare un incanto; o, in alternativa, si poteva andare a prendere la propria bella a bordo di una torpedo blu, come faceva Giorgio Gaber nell’omonima canzone. Ma il suo riferimento al bolide sportivo era ironico, con un evidente sotto testo: è tutta pappa di sogno, non vedete che vi stanno fregando, vendendo l'isola che non c'è!

Ora invece la fregatura è andata a segno, c'è chi, cartina geografica alla mano, ti mostra un puntino nell'oceano e dice è qui, ancora poche ore di navigazione e siamo arrivati. Si è insomma passati da un sentimento dal carattere realistico-identificativo (mi identifico in ciò che obiettivamente mi somiglia) a un altro di segno ribaltato, ossia irrealistico-proiettivo: mi vedo riflesso nello specchio di ciò che vorrei essere, non di ciò che sono. A quel punto, dal momento che illudersi non costa nulla, perché accontentarmi del Casio da due soldi del Papa, quando potrei avere tutti i Rolex di Totti. Il verbo condizionale regge qualsiasi iperbole del desiderio.

E poi la Twingo, dai, peggio di quel catorcio ha saputo fare solo la Fiat Duna… No no, niente Twingo, io mi sento come Shakira pensa la ragazza che ascolta la canzone, mi sento una tipa da Ferrari. Prima o poi vinco la lotteria e me ne compro una tutta rossa; o magari gialla, adesso ci penso e poi ve lo faccio sapere su Instagram. E, già che ci sono, mi fidanzo con un calciatore. Sarò mica la sfigata che sta a casa stirare le camicie di un impiegato alle Poste, come nelle canzoni di Umberto Tozzi. Canzoni che sembrano scritte un milione di anni fa. Quando il pop era ancora una fotocopia del mondo, e non il suo Photoshop.

domenica 8 gennaio 2023

Politically correct: un nuovo gioco, o un gioco vecchio a carte coperte?

 

Correttezza politica. Traduzione letterale dall’inglese politically correctness, o, nella sua forma aggettivata e più diffusa, politically correct. In italiano l’espressione assume però una sfumatura un po’ burocratica e severa. Forse sarebbe più efficace chiamarlo rispetto nominale, nei casi estremi siamo al limite del sussiego. Quello nei confronti di ogni forma di diversità, che la lingua media – ossia la cultura dominante – aveva assimilato in forme denigratorie. Ogni parola è infatti già un’interpretazione del mondo.

I meriti del politically correct sono dunque incontestabili: se manchi di rispetto ti impongo quella buona educazione di cui difetti, una ortopedia verbale (si potrà dire ortolessia...?) che ricorda i ragazzini di buona famiglia con due libroni come termometri sotto le ascelle, a placare i moti del corpo durante i pasti. Dopo quel trattamento da belle statuine impareranno a stare seduti in modo composto a tavola.

Ma il farmaco, come suggerisce l’etimologia, può tramutarsi in veleno: chi decide la forma della compostezza, qual è l'esatto punto in cui un corpo si scompone e diventa impresentabile, addirittura offensivo? O, più in generale, cosa è buono e cosa è cattivo, quali sono i confini pubblici del giusto, il loro status civile?

Risposta: la consuetudine. Quella stessa consuetudine che aveva portato all’irrispettosità nei confronti di talune minoranze (i gay, ad esempio) o di ampie compagini umane scivolate all’ombra della storia (i neri), anche in un nuovo formulario rivisto e politicamente corretto può così rivelarsi velenosa. Un esempio?

Pensiamo a un termine considerato sconveniente, e cioè di nuovo irrispettoso: vecchio. Se l'impiegato delle Poste si rivolgesse a un cliente anziano dandogli del vecchio ("Scusi vecchio, può darmi un documento di identità.") verrebbe probabilmente e giustamente ripreso dai superiori, se non anche dalle altre persone in coda: "Ma come si permette, villanzone che non è altro!" 

Questo perché la parola vecchio, nella nostra società, contiene tutta una serie di attributi impliciti, perlopiù negativi quando associati a una persona: vecchio/brutto; vecchio/scemo; vecchio/scoreggione ecc. Non si possono dire, ma ci sono. Se però la medesima situazione si fosse presentata nella Cina di anche solo cinquant'anni fa, quella che per noi è un’espressione ignobile avrebbe probabilmente risuonato come complimento. L'implicito di vecchio sarebbe infatti stato in quel caso differente. Saggio, ad esempio.

Ciò che è stata corretta è dunque la circolazione del termine, non il suo sottofondo simbolico che, prendendo a prestito il linguaggio della psicanalisi, continua ad agire in forma di rimosso. Per una rigenerazione autentica è necessario convertire il significato, e cioè operare un cambiamento percettivo; nella fattispecie, un cambiamento culturale e non solo un’omissione linguistica (la vecchiaia è bella; quella vecchia che passa accompagnata dalla badante ucraina è una bomba!; buongiorno signora, oggi la trovo più vecchia del solito).

Se ne ricava che ogni modifica del lessico, anche piccola, è un po' maleducata, prima di diventare una nuova fondazione dello sguardo; i vocabolari seguono in un secondo tempo questa conversione prospettica. Non a caso la suprema cafoneria viene chiamata rivoluzione, che per definizione non è un pranzo di gala. E si torna da capo con i libroni sotto le ascelle.

Dunque benissimo la buona educazione, la tutela della sensibilità delle minoranze, dei deboli, dei fragili. Ma ricordando che anche le intenzioni verbali più virtuose celano un'interpretazione del mondo che non è mai innocente, e a volte contiene una perversione occulta peggiore della bontà esibita.

In altre parole, chi dà a un altro del frocio scopre da subito le carte del suo piccolo meschino gioco; ma non è detto che chi tace l'insulto non possieda le medesime carte, che spilla con l'occhietto impenetrabile dei giocatori di poker.

La soluzione sarebbe pensare sempre a ciò che diciamo, per stabilire quando la volgarità, l'offesa a una convenzione paludata, insomma e di nuovo la scorrettezza politica è funzionale al cambiamento che dischiude a nuove e più accoglienti possibilità del vivere assieme, e quando invece si rivela reazionaria, come nel caso di Vittorio Feltri che scrive di Michela Murgia che "è brutta come l'Orco". 

Soluzione purtroppo non sempre praticabile, già che sono le parole, il più delle volte, a pensare noi.

Il pubblico della narrativa

Sono molte le categorie – tutte arbitrarie – con cui si può dividere l'esperienza, tra cui quella privata della lettura di una storia. O, ancora più a monte, l'esperienza di chi le storie le scrive per professione, e cioè gli scrittori.

A me sembra che una suddivisione particolarmente significativa sia quella tra scrittori che, almeno pubblicamente, parlano in continuazione di scrittura, libri, gerarchie di valore letterario, e altri che non lo fanno o lo fanno in modo meno compulsivo; ad esempio parlano di pesca come fa Richard Brautigan, oppure Carver, Hemingway ma anche Raul Montanari, che ha appena pubblicato un bel libro sull'argomento (Più grande di noi. Confessioni di un pescatore a Mosca, Hopefilmonster, 2022).

Io ho pescato solamente una volta, ma confesso che la sensazione di una creatura viva e viscida che si dibatte all'interno della mia mano, mentre con un gridolino poco virile cerco di estrarre una struttura di metallo ricurva e affilata che gli procura lacerazioni nel palato, per poi deporla, ancora fremente, in un paniere dove continua a dibattersi prima morire d'asfissia, insomma tutto ciò non mi è parso così divertente, e potrei fare un secondo tentativo solo se mi garantissero che al mio amo abboccheranno solo vecchie scarpe sfondate.

Ma non mi diverto troppo nemmeno nel leggere quegli scrittori che mi conducono nei sotterranei della lingua (mai mostrare al lettore la sala macchine! ammoniva Céline); o, come avviene sui social, gli scrittori che utilizzano il linguaggio per conversare direttamente tra di loro, saltando il passaggio ridondante per cui il mondo viene utilizzato come tramite. Una sensazione che mi fa tornare alla mente l'antologia poetica realizzata da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli nel 1975, si intitolava profeticamente Il pubblico della poesia.

La felice intuizione dei due critici fu di avere compreso che la poesia si avviava a diventare una pratica carbonara (da qui il linguaggio cifrato) realizzata, quanto fruita, dagli stessi poeti. I poeti coinciderebbero in altre parole con il proprio pubblico, quel che in linguistica viene chiamata tautologia. Per la gran parte delle persone erano infatti più che sufficienti i testi delle canzoni dei cantautori, a offrire quella dose quotidiana di parole circonfuse da un'aura evocativa, oscuramente sonora, di cui la specie a cui apparteniamo pare avere necessità.

Allo stesso modo, la letteratura è sempre più appannaggio esclusivo degli scrittori, i quali oltre a leggersi l'uno con l'altro scrivono le recensioni sulle pagine culturali dei quotidiani, esibiscono con orgoglio la lista della spesa in libreria. Quando il bisogno di storie – un ordine drammaturgico impresso al vapore del possibile o al magma del reale, in buona sostanza – viene nel frattempo soddisfatto altrimenti, ad esempio dalle serie tivù e dalle story sui social (oggi, mentre ero andata a lezione di yoga, quella birba di mio figlio ha fatto questo o quest'altro, e così poi l'inquilina che sta all'ammezzato, quella vecchia megera, ma davvero vi chiederete? Davvero!).

Di più, ciò che l'umanità ha sempre prodotto e consumato sono le storie esemplari, quelle in cui il singolo – l'eroe, la principessa, il matto… e chi in questi tipi ideali si vede riflesso – trovano collocazione dentro un disegno collettivo. Le ultime narrazioni veramente esemplari mi sembra di poterle rinvenire nei libretti d'opera, e prima ancora nei testi sacri, i cicli epici, i grandi miti del passato. Poi è stato inventato il cinematografo, che ha fatto saltare il banco. E così la scrittura è progressivamente divenuta una faccenda per scrittori.

Eppure, in anni relativamente recenti, qualche romanzo ancora riusciva a fare presa sul reale. Mi viene in mente il caso di Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez. Io ero un bambino svogliato che leggeva solamente Asterix e Capitan America, ma ho visto quel libro passare di mano in mano mentre venivano aperti bar, ristoranti, circoli culturali chiamati Macondo; fu il nome anche del cane di un mio amico, un buffo meticcio con un occhio azzurro e uno marrone. Per non dire della diffusione del nome Ottilia dopo l'uscita delle Affinità elettive. Ebbene, riuscite a immaginare qualcuno che oggi viene chiamato con il nome di un personaggio romanzesco, un romanzo appena pubblicato?

Abbiamo però un paradosso. L'irrilevanza sociale a cui viene confinata l'attività letteraria produce, quale contraccolpo, un'accresciuta rilevanza interna, e da qui il fenomeno a cui accennavo: scrittori che parlano solo di libri, addirittura ne fotografano le copertine, si fanno pompini tra di loro direbbe Mr Woolf di Pulp Fiction, in un gioco di sponda che per tacita connivenza ripristina l'importanza del proprio gesto, disconosciuto all'esterno. Tutto ciò è molto umano, non lo biasimo. Lo scrittore Fulvio Abbate lo chiama amichettismo.

Ma ve li immaginate Cechov o Jack London o Pasolini od Omero, sì immaginateveli mentre aprono la loro pagina Facebook. Quindi iniziano a spartirsi like e ban, cuoricini, post che sono liste di proscrizione ed esercizi di ammirazione, tutto come si dice in famiglia. Non ci siete mica riusciti, vero? E ciò perché avevano di meglio da fare: dovevano scrivere, dovevano vivere e a volte anche ingaggiare duelli al primo sangue, come quello che vide contrapporsi Bontempelli e Ungaretti nel giardino della villa di Pirandello. Le ragioni ci appaiono ora eccentriche: questioni estetiche, visioni del mondo alternative.

La differenza con il presente non consiste dunque nel fatto che gli scrittori si disinteressavano un tempo alla letteratura, ma che quell'interesse 
 forse con un pizzico di presunzione  faceva tutt'uno con la vita, su cui provavano a incidere con la penna. Mentre l'attuale assenza di incidenza ha trasformato questo rapporto in affabile circolarità, ornamentale esibizione corporativa. E ciò a prescindere dalla bontà o meno dei testi. Quando nemmeno gli elettrauti, sui loro calendari, espongono l'immagine di altri elettrauti, ma quella di giovani donne poco vestite.

venerdì 6 gennaio 2023

Gianluca Vialli, o sulla bellezza del limite

Gianluca Vialli è per lungo tempo stato il mio calciatore preferito. Più che le prodezze in campo – da ex giocatore di basket non sono in grado di giudicarle, ma quando il pallone va in rete anche io lo capisco, e con Vialli accadeva spesso –, di lui amavo il tono ipnotico della voce, il più delle volte accompagnato da un sorriso.

Mi ricordava un Buddha laico, attraverso soave cantilena induceva uno stato di rilassamento, tanto più eccentrico quando veniva invitato a parlare nelle trasmissioni sportive, dove scorrono fiumi di adrenalina navigati da acciughe travestite da balene. Come se a vincere, in questo caso, non fosse chi fa più gol, ma chi infrange un limite (sonoro, estetico, di buon gusto) che viene posto solo per poterlo scavallare, alla maniera dell’asticella nel salto in alto.

Si potrebbe obiettare che il salto in alto è la metafora agonistica per eccellenza: trasumanare, andare oltre il limite fisico dell’umano. Eppure ci sono anche altri sport, ad esempio i tuffi, dove a essere celebrato è proprio il limite costituito dalla legge di gravità, la cui assenza farebbe del tuffatore un angelo – il tuffo perfetto ha la forma soffice del volo, non è quello in cui vengono evitati gli spruzzi nell’impatto con l’acqua.

Ma la perfezione è una qualità divina, per gli uomini ma in fondo anche per gli animali, per chi respira e suda tanto più in basso delle nubi che circondano la vetta dell'Olimpo, e c'è virtù solo nell'imperfezione, che del limite rappresenta il riflesso nella prassi. Per questo quando negato, come in Icaro che ambisce ai vertici dell'illimitato, viene punito come hybris

Mi ricorderò allora di Vialli come un sublime tuffatore, prima ancora che di un campione di calcio. Me ne ricorderò con il rimpianto acuito da un'età che quasi coincideva; dunque, con lui, se ne va anche un pezzo di giovinezza, il PX bianco e la gommina sui cappelli consegnati troppo presto al cuscino, un altro dettaglio a fare della sua morte un sentimento comune. Quello appunto del limite, la bellezza che ci rende uomini.

Lui non ha mai cercato di trascenderlo, il suo limite, o di camuffarlo sotto un toupet o una coltre di tatuaggi, la messa in scena guascona di chi si sente unto dal Capitale; per gli amanti del genere ci sono altri fuoriclasse. Perciò rispettava anche il limite degli altri, la loro radice umana a risucchiare verso l'abisso. Per l'ennesima volta Vialli l'ha raggiunto senza sollevare spruzzi. Ma se sostava ancora un po', le punte unite dei piedi sull'orlo del trampolino... nessuno avrebbe commentato che the show must go on.

giovedì 5 gennaio 2023

Gusto puffo

Ho da poco scoperto un cantante, si chiama Marco Mengoni e piace alle donne. Non a tutte naturalmente, ma spopola tra le donne che hanno una seconda casa sul web, e in particolare in quella sotto provincia dei social chiamata speed dating, in cui prima ci si conosce virtualmente e poi si esce e così via. Le relazioni tra gli iscritti vengono favorite da un breve profilo; tra le voci da compilare sono presenti i dati anagrafici e antropometrici, il titolo di studio, seguiti da gusti e interessi, tra cui il più indicativo è proprio la musica ascoltata. È qui che buon ultimo – pare abbia vinto anche un Festival di Sanremo – mi sono imbattuto in Marco Mengoni; forse è un nome d'arte, ma a me sembra talmente brutto (un nome del menga) che deve essere il suo, cosa che me lo rende ancora più simpatico: hai un nome del cazzo e te lo tieni, bravo! Lui non lo so, ho visto più che altro fotografie, stralci di testo di sue canzoni ("il nostro canto arriverà / dalle mie labbra alle tue / e anche quando andrà così non piangerai / non piangerai") oppure cuoricini e altri emoticon a incorniciare i reperti esibiti, come fiori nei luoghi in cui sono avvenuti gravi incidenti stradali. Ma sto divagando. Il punto è che se anche a te, uomo, utente social insoddisfatto, piace Marco Mengoni, le tue probabilità seduttive si moltiplicano. Credo esista una proprietà transitiva del piacere che conduce al piacersi – intendo: se mi piace il gelato al puffo ci sono maggiori probabilità che anch'io piaccia a chi condivide la stessa predilezione, e non mettiamo a chi stravede per la stracciatella. Per questo, sui social, ciò che viene chiamato "amicizia" corrisponde a un composto vario ma meno promiscuo di quanto si creda, affinità calamitanti costituiscono miniature degli ammassi galattici: i giardinieri fanno banda con i giardinieri, le neo mamme con le neo mamme, i nani del circo con i nani del circo e i poeti con tutti, nella speranza di trovare così qualche lettore. Ma se ti piace il gusto fico d'India, nella gelateria sotto casa mia ogni tanto lo fanno? Quando, come me, tu ne fossi ghiotto, è quasi impossibile trovare qualcuno con cui leccare un cono assieme, a meno di divaricare la scelta e così i tempi di digestione, che della vita sono forse la metafora più certa. Ecco, l'ho presa un po' alla larga per dire che oggi mi sento come uno che vende gelati a un concerto di Marco Mengoni. Mi dia un gelato al puffo. Mi dispiace, abbiamo solamente fico d'India. Allora niente, grazie, vado che inizia il concerto.

mercoledì 4 gennaio 2023

A Vittorio Feltri e Lidia Ravera preferisco il cavolfiore


“La scrittrice Murgia non mi piace non per quello che dice o scrive ma perché è brutta come l’orco”. Lo scrive Vittorio Feltri sui social, venendo immediatamente – e giustamente – ripreso da migliaia di uomini e donne, soprattutto donne.

Tra di esse una tra le più pronte e frementi è Lidia Ravera, che inizia la sua invettiva con la precisazione: “Vittorio Feltri, a cui nessuno ha mai imputato di essere vecchio e racchio, a prescindere dalle cose che dice o scrive, benché sia nato nel 1943 e non brilli per avvenenza.” Più avanti aggiunge che “fa paura la mancanza di rispetto per il pensiero quando a pensare è una donna. Fa paura che invece di confutare si insulti. Fa paura che l’insulto sia sempre sei brutta. O sei vecchia. O sei vecchia e brutta. Come se le donne fossero innanzitutto graziosi trastulli per sua maestà il maschio, con cui si può essere in accordo o in disaccordo, ma mai ti verrebbe in mente di inchiodarlo al suo aspetto.”

Devo dire che condivido quasi tutto ciò che qui scrive Lidia Ravera; Feltri, nella circostanza, è davvero indifendibile. Eppure c’è quel quasi, una sfumatura, un niente, su cui sto rimuginando da un po’. Si tratta dell’avverbio di frequenza sempre: fa paura che l'insulto sia SEMPRE sei brutta. O sei vecchia. Ma siamo proprio sicuri?

Io penso, al contrario, che viviamo un'epoca storica mai così cauta nell'esprimere giudizi fisici sulle donne, oppure giudizi etnici, critiche su culture minoritarie come quella degli indiani Cicorioni, per cui in Ecce Bombo Nanni Moretti partecipava a virtuosi sit-in; insomma, quello che ora viene chiamiamo politically correct, e un tempo buona educazione.

Ci sarebbe molto da dire al riguardo – io ci vedo aspetti sia positivi sia negativi; gli ultimi, e come sempre accade, nei suoi estremismi – ma la vicenda mi sembra che possa essere meglio inquadrata al singolare: Vittorio Feltri è un gran cafone, non è la prima volta che si lascia andare a commenti del genere, pensando forse di essere anticonformista. Invece è solo un pirla. Ma ricordarne l'età accompagnata da una dichiarazione di scarsa avvenenza, mi ricorda una formula infantile – "specchio riflesso" si diceva all’amico chi ti canzonava – per restituire pan per focaccia.

Una replica al peggiore maschilismo, ma, anche, in questo caso, del peggiore maschilismo. Di segno solo invertito. E nemmeno Lidia Ravera è nuova a questa inversione matematica, almeno se vogliamo dare credito alla quarta di copertina di un suo recente pamphlet: “Avete mai provato a guardare gli uomini come se fossero donne? A valutarli in base alla loro avvenenza, all'età, alla freschezza, al sex appeal? Lidia Ravera l'ha fatto, tre volte alla settimana, in novecento battute, dal marzo del 2009, sul quotidiano L'Unità. Ha applicato uno sguardo implacabilmente maschile ai protagonisti della vita politica italiana.”

Ebbene, se questo è il gioco, perché stupirsi? In fondo è vero che Michela Murgia è meno bella di, mettiamo, Belen Rodriguez, così come Feltri sfigura al cospetto di Brad Pitt. E adesso? Chi ha vinto? Come possiamo andare avanti in quella che Leopardi chiamava conversazione, e altro non è che il medesimo umano procedere nel verso che conduce alla morte: uomini, donne, animali? Dobbiamo forse incendiare le scoregge, vedere chi, tra i generi sessuali e post sessuali, le spara più forti e tonanti?

O magari si può fare un passo indietro e dire che Vittorio Feltri è un maschio, o se si preferisce e per maggiore completezza un giornalista maschio. Non tutti i giornalisti e tutti i maschi, o, peggio ancora, il soggetto che fa da antonomasia al suo genere e alla sua professione. Solo quel maschio giornalista lì. E poco importa se sia bello, brutto, vecchio o se abbia sex appeal, una formula linguistica che si usava cinquant’anni fa.

Ugualmente, mi vergogno perfino a doverlo aggiungere, l'ovvio andrebbe sanzionato, la singolarità a cui dà voce Feltri non deve permettersi di commentare pubblicamente l’aspetto di Michela Murgia; che lo faccia dal parrucchiere se proprio ne sente l’esigenza, in quella che è considerata un’enclave protetta dalla correttezza politica, dove il pettegolezzo estetico può ancora allungare i suoi spilli.n

Un giornalista maschio che ha insultato una femmina prima ancora che una scrittrice, anche lei portatrice di virtù e vizi del tutto particolari. La situazione è questa e ha certamente riflessi collettivi, politici. Ma lasciamo perdere la dimensione astratta che vedrebbe contrapposti maschi a femmine. Già che altri maschi, la maggior parte, giornalisti o meno, si esprime diversamente.

 

martedì 3 gennaio 2023

Old Man, o sulla geologia delle serie tv

Old Man, la recente serie televisiva prodotta da 20thTelevision e trasmessa, in Italia, da Disney +. A questo periodo manca una reggente, non è una svista. Piuttosto la sensazione che sto avendo nel guardarla; l'ho scaricata da eMule, ci manca solo che mi abboni anche a Disney +...

Avevo grandi attese, mi piace molto il protagonista, Jeff Bridges, e ne avevo letto bene. Ma già dopo la prima puntata, abbastanza buona, è emerso quel tratto della serialità su cui è interessante ragionare, più che sulla specifica serie che si è rivelata purtroppo modesta.

Viene spesso fatto un paragone: le serie somigliano a un romanzo, i film a un racconto. Messa così, in forma assoluta, è probabilmente una sciocchezza, le eccezioni alla regola vengono subito alla mente (Oblomov, Barry Lyndon, Citizen Kane ecc.). Eppure quante volte, andando a cinema, siamo rimasti delusi dalla riduzione cinematografica di romanzi che abbiamo amato, riduzione in tutti i sensi. In due ore scarse si stenta a fare emergere la psicologia e le motivazioni dei personaggi, se non in forma semplificata. Limite che le serie non hanno, e consentono uno scavo umano più profondo.

Pensiamo a Better Call Saul. Il protagonista, Jimmy McGill, poi divenuto Saul Goodman per attrarre clienti, ci sembra di conoscerlo. È una persona più che un personaggio, o ancora più precisamente un personaggio-persona, a cui i bravi sceneggiatori (oltre al magnifico interprete, Bob Odenkirk) hanno trasferito tutta una sfumata gamma di stati d'animo, una biografia che si riflette sulle scelte presenti.

Ma cosa succede, nelle serie televisive, nel caso di personaggi-personaggi, ricalcati dai cliché cinematografici più vieti?

Succede quello che avviene in Old Man: si scava si scava, ma per non trovare nulla. Una disposizione geologica prima ancora che cinematografica, in cui la ricerca del filone d'oro conduce a un pugno di sabbia.

In questo caso si rimpiange l'azione pura, si rimpiange il primo Clint Eastwood in cui erano presenti due sole modalità espressive: con sigaro e senza sigaro. Ampiamente sufficienti per fare procedere una vicenda che offre in sé ristoro, la psicologia diventerebbe una ridondanza che intralcia il piacere dell'azione. Gli stereotipi, nei casi migliori, si convertono infatti in archetipi drammaturgici. Basta una parola: western.

Non disponendo di un personaggio-persona si dovrebbe fare un western, oppure un action movie, un film di cappa e spada, non una serie. Old Man, senza la zavorra psicologica e motivazionale, sarebbe probabilmente potuto essere un buon film di genere. Jeff Bridges ci mette una maschera da cattivo buono che è sempre un piacere. Ma così è l'ennesima storia di un cercatore d'oro che non lo trova. E di uno spettatore che si addormenta.

 

domenica 1 gennaio 2023

La prima volta

Quando la prima volta

(perché una prima volta

c’è sempre)

al posto del tuo nome

mi sfuggirà amore

oppure amore mio

vedremo...

e tu mi guarderai

come il giovedì quarto

di novembre si guarda

a un tacchino.