martedì 31 marzo 2020

Uno vale uno, o sull'aristocrazia al tempo dei social network


Uno vale uno, questo fu il primo slogan dei Cinque Stelle. La reazione iniziale fu di totale sintonia, e se un limite gli si può trovare – non è una critica politica – è quello di eccesso di ovvietà. In ogni caso, come non essere d’accordo! Ma se proviamo a collaudarne il principio, ad esempio attraverso quella formidabile ricapitolazione dell’umano che sono i social network, ci accorgiamo di quando sia ingannevole. E non perché ci sia un grande vecchio a tirare le fila, sono le persone a ricercare spontaneamente delle gerarchie.
Pensiamo al più popolare tra di essi, Facebook. Le relazioni tra gli utenti, salvo rarissime eccezioni, non avvengono su una base che potremmo definire “qualitativa”, ossia premiando il contenuto di quel che si scrive e soprattutto il modo (una volta si sarebbe chiamato stile), ma scontano il valore attribuito in via preventiva all’estensore, come in un gioco di ruolo. Ruolo e valore trasferiti dentro, nel web, dal fuori, ossia dalla piramide sociale in cui si configura ogni forma di potere, anche e soprattutto astratto.
Ci sarebbe a onor del vero un’eccezione, quella dei cosiddetti influencer. Persone che dal nulla si guadagnano un’ampia fetta di consenso (in genere con foto scosciate o battutine sarcastiche, ma questa è un'altra storia), e come dice il termine influenzano i gusti e le scelte di coloro che li seguono, da cui l’altro termine inglese di follower. Una contraddizione però solo apparente, già che anche l’influencer, una volta uscito dall’anonimato e conquistata una posizione di rinomanza  il suo nome ora è un vero nome, non un suono che si confonde dentro il brusio della folla a-nonima  la fa poi valere come sorta di valore aggiunto: sono arrivato fin qui, ho tot. persone che pendono dalla mia tastiera, in una versione aggiornata del celebre adagio del Belli: io so io, e voi non siete un cazzo. Ma in fondo anche l'homo oeconomicus presenta una simile variabile, chiamata self made man.
In altre parole, si tratta sempre di uno status riconosciuto, non usurpato, attenzione, è ancora una volta il sotto che reclama il sopra, il cane lasciato libero a ricercare la sua catena, dentro un mondo determinato e circoscritto, che viene confuso con IL MONDO. Nel quale vengono replicate le logiche di censo dell’aristocrazia, dove i più aristocratici di tutti, le famiglie reali, i principi azzurri e le principessine sul pisello, sono curiosamente gli intellettuali, che al di fuori del web contano meno di un tronista a Uomini e donne, o della ex fidanzata di un calciatore.
Ritroviamo così buona parte degli scrittori, poeti, giornalisti, critici letterari, registi, attori (specie teatrali), sigillati in un continuo birignao di botta e risposta tra di loro, quasi fosse una logosfera corazzata da qualsiasi spillo proveniente dal reale, mentre un manipolo di questuanti del "sapere" applaude e reclama le briciole del banchetto, sotto forma di repliche rapide e distratte. 
La cosa bizzarra è che in tal modo si convincono di esserlo veramente: degli intellettuali. Dimenticando che un intellettuale è uno che ne sa di kabbalah ebraica, patristica cristiana, filosofia teoretica, entanglement quantistico, psicanalisi, filologia romanza, biologia molecolare e così via, non dell’ultimo film di Sorrentino, oppure romanzo di Elena Ferrante e cd di Vinicio Capossela. Su cui magari pisciare in testa perché questa è la prima regola: distruggere lo sforzo degli altri, pars destruens, mai costruens, se vogliamo gonfiare la pappagorgia del ranocchio, guadagnare in prestigio.
Ma se ci pensiamo, corrisponde ancora una volta con l’immagine eterna del sangue blu: un niente che pensa di essere tutto, profondo ed esteso come il mare. Quando, se provi a infilarci i piedi, addentrandoti per fare il bagno, ti accorgi che è solo la pozzanghera dopo un temporale estivo. Per non dire la pisciatina di un cane, ma dal lunghissimo pedigree, sul copertone di una Mercedes. 

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