giovedì 26 marzo 2020

In prestito, non in dono


Molte persone, diciamo così, di un determinato orientamento politico, vanno ripetendo da giorni che si vedono in giro solo persone di colore. Per essere testuali la frase giusta sarebbe: “Numa negher, e gna ‘n terun.”
Sulle prime mi sembrava la solita sparata razzista. Poi però mi sono accorto che, al netto delle code sparpagliate (questo tempo genera ossimori) di fronte a supermarket e farmacie, qualche coppia cane conducente come me, con i cani che si vorrebbero avvicinare per giocare e gli umani se ne guardano bene, i rari passanti che incrocio per le strade semi deserte sono effettivamente e spesso di colore.
Quando non camminano dinoccolati e tranquilli, l'andatura degli sciatori con gli scarponi slacciati, hanno appena lasciato gli sci conficcati in un cumulo neve e ora si avviano verso una cioccolata calda, li vedo pedalare su biciclette rassembrate alla bell’e meglio, come facevo io da piccolo con i Lego. Alcuni indossano la mascherina, uno straccetto azzurro fornito probabilmente dalla Caritas, ma lo sguardo al di sopra è disteso e rilassato, non quei due spilletti saettanti con i quali i nostri concittadini ti fanno lo scanner già da lontano.
A che modo interpretare dunque questo dato che a me appare oggettivo, Feltri, nella versione di Crozza, direbbe fattuale, fattuale quanto quello della scomparsa dei cinesi dall'orizzonte ottico urbano?
A me sembra che una maggiore disposizione all'insubordinazione civile non spieghi il fenomeno, per quanto ne è forse una componente, non voglio nascondermi dietro a un virtuosismo da anime belle. Ma soprattutto io credo sia un diverso rapporto con la morte, e di conseguenza con la vita. Noi, io, tutto l'Occidente barricato in casa o dietro filtri di protezione ffp3 (almeno chi ha avuto la fortuna di trovarli) ha una fottuta paura di morire, di cui la reclusione attuale è una metafora potente. La gente d'Africa invece muore, vive, rinasce attraverso i figli che noi facciamo sempre meno, con un senso della ciclicità in cui il singolo individuo occupa solo una stazione di passaggio. Con ciò una nuova domanda: hanno ragione loro, abbiamo ragione noi?
Di certo, se si ammalano e finiscono in terapia intensiva, i cinquemila euro di costo giornaliero li paga il servizio pubblico italiano, e questo può giustificare malumori. Uniti al fatto che, nel caso, potrebbero trasferire ad altri la malattia, non è importante il colore della pelle di chi riceve il testimone virale, ma l'ipotesi fa un po' incazzare, anzi molto incazzare.
Eppure confesso che in questi giorni di statistiche, picchi di contagio, risvegli notturni affannati, mi sono ritrovato a invidiare un certo modo fatalista e vagamente incosciente di stare al mondo. Forse perché, per usare le parole conclusive di una bella poesia di Nico Orengo, mai come adesso che l'ombra della morte si allunga e vorremmo inginocchiarci e chiedere perdono, ci siamo accorti di essere in prestito e non in dono. Cosa che i nostri cugini africani sanno da sempre.


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