sabato 28 marzo 2020

Quasi quasi... o sull'abitudine al tempo del Covid-19


Sembra di guardare un vecchio album di fotografie. Magari delle Polaroid, chi si ricorda le Polaroid, tra lo scatto e la stampa passavano cinque minuti buoni, in cui era bello attendere per vedere se qualcuno ti aveva fatto le corna all'insaputa. E però quello che usciva sferragliando dalla base più bombata dell'apparecchio, odore di chimica sulla superficie ancora umida dell'immagine quadrata, non a cartolina, le Polaroid possedevano un formato quadrangolare, bisognava quindi soffiarci sopra e sventolarle come il fazzoletto degli emigranti alla partenza del vapore, per averne esperienza tocca andare nei barcacchini delle foto tessera, qualcuno ancora sopravvive nelle stazioni ferroviarie o del metrò, se ti azzardi a varcare la tendina verde è tutto un Sara ti amo scritto a pennarello con corredo di cuoricini e frecce di Cupido, oppure più samba meno caramba sul grande specchio in cui ricomporti con flemma britannica, ho il cazzo di 25 cm, telefonami, quello che sgusciava infine era il passato, non l’adesso, come in questo periodo sintattico diluito per troppe, davvero troppe parole perché la memoria riesca ad archiviarle tutte quante, il suo incipit è ormai remoto, irriconoscibile e sfocato. L'adesso somiglia piuttosto alla coda di Provolino, sulla giostra con gli ufo e il camion dei pompieri ti sembrava sempre di essere sul punto di acciuffarla, ma il giostraio, carogna, la sollevava all'ultimo momento con uno strattone alla cordicella, e l’attimo giusto, kairos veniva detto dai greci e quelli la sanno lunga, l'attimo, l'adesso, il presente è già bello che passato, dovevi attendere il prossimo giro, la prossima corsa accomodatevi i gettoni sono in vendita alla cassa, accanto al mangiacasette da cui ronza nasale una voce e dice zingaro, zingaro voglio vivere come te, andare dove mi pare come fai tu. Così la notizia del primo contagio in Italia, il trentottenne di Codogno, chi si ricorda anche del trentottenne di Codogno, appartiene a quel vecchio album di fotografie. Invece era una manciata di giorni fa, da allora tutto si è mosso talmente in fretta da restituire la sensazione opposta: una moviola in cui ogni cosa si smorza e poi decanta, sogno in cui vorresti correre ma le gambe si muovono al rallentatore. E sì che in quel principio furono crampi allo stomaco e sudore alle mani, ansia che monta, anzi proprio paura, accompagnata dagli speciali televisivi, le maratone di Mentana, Lilli Gruber con le gambe accavallate avvolte dai leggins in pelle nera, Giletti che cerca la camera in cui meglio risalti l'espressione corrucciata e pensosa, e la sera il Rivotril per trovare un po’ di conforto nel sonno, prima che faccia effetto gli occhi aperti sbarrati spalancati nella camera buia. Mi sono svegliato questa mattina e il Rivotril era ancora poggiato sul comodino. Avevo scordato di prenderlo. Ho dormito ugualmente, con i 969 morti e i 4401 nuovi contagiati di ieri, 27 marzo 2020, hanno portato via anche una mia vicina con l'ambulanza. Poi, facendo la barba, perché ho ripreso a farmi la barba e a mettere Eau Sauvage come dopo barba, mi è venuto in mente un vecchio monologo di Giorgio Gaber: "Ma sì, basta abituarsi. Basta non cercare punti fermi che tanto non ci sono. Dopo un po' tutto diventa come prima. Per forza, l'abitudine è il surrogato della normalità. Alcuni, poi, non so se più ignoranti incoscienti o non so cosa, non si sono proprio accorti di nulla, stanno benissimo. Per forza, l'ignoranza è il surrogato della felicità." A quel punto mi sono detto, quasi quasi, dopo la barba, mi faccio pure uno shampoo...

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