mercoledì 18 marzo 2020

Picco, o sui virus linguistici


In principio era il verbo, anzi fu un verbo ben preciso: tracimare. O almeno lo fu per me, che sono di origini valtellinesi.
Nel 1987 ci fu in Valtellina un'alluvione. In quei giorni tutti, ma davvero tutti – stampa, telegiornali, radio ma anche i clienti del Bar Piero, mentre sorseggiavano un bianchino al banco – si ritrovarono il termine sulle labbra: tracimare di qui, tracimare di là...
Nella fattispecie aveva quale complemento oggetto, perlopiù implicito e temuto, l’invaso creato da una frana precipitata nel corso dell'Adda, che travolse una piccola località poco prima di Bormio. Sant’Antonio Morignone,
Da allora, i casi di diffusione di vocaboli ripresi dal linguaggio tecnico si sono moltiplicati. Gradi della scala Mercalli, ad esempio, a seguito di un terremoto, oppure portanza quando casca un cavalcavia, PM 10 se non possiamo andare in centro con il suv, e naturalmente colesterolo se ti muore un vecchio compagno di scuola facendo jogging al parco. Mentre se si ha la sventura di un figlio zuccone, la frase magica diventa vissuti emotivi, tutta colpa dei vissuti emotivi e non di quel lazzarone sempre incollato alla PlayStation.
Ma ora è arrivato il turno di picco: il picco dei contagi, alzi la mano chi non l'ha pronunciato almeno una volta?
Mica niente di male, intendiamoci. Anche le parole funzionano come i virus, e perlopiù sono semplici raffreddori, quattro sternuti e via, con una loro stagionalità. Si diffondono quando il mondo sembra sfarinarsi sotto i piedi, e in quei casi è rassicurante affidarsi ai gerghi specialistici.
Il guadagno è immediato, garantito, lo assicura l’impressione che compaia un blocco di pietra a supportarci. Opplà, prima non c'era e adesso c'è! E pazienza se sotto rimane un pavimento di nulla. Come Willy il Coyote ci camminiamo sopra tranquilli.

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