domenica 15 marzo 2020

My cup of tea, o sul labile confine tra identità e cretinaggine


It’s not my cup of tea. Un’espressione anglosassone, anzi, meglio, esclusivamente inglese, che da qualche decennio ha iniziato a diffondersi anche da noi. Confesso di averla utilizzata qualche volta in traduzione – non è la mia tazza di tè – a indicare qualcosa con cui non ho alcun rapporto e tantomeno interesse, ma comunque non giudico. Semplicemente, non mi riguarda.
Una tazza non è infatti migliore di un’altra. Però, se ci ho bevuto il tè tutti i sacrosanti giorni alle cinque in punto, cascasse il mondo ma io a quell’ora devo bere il tè, diventa la MIA tazza, divento io, è un fatto di identità prima ancora che un'abitudine. Negli ultimi giorni mi è però capitato di interrogarmi sull’estensione nostrana di questa formula. L’ultima volta che ho preso un tè sarà stato sei mesi fa, e davvero non poteva importarmi meno della tazza. Forse perché ero concentrato su ciò che stavo sorseggiando.
La mia estrema disattenzione al contenitore a favore del contenuto – nessuno come un italiano riesce a rompere i coglioni al barista quando ordina un caffè: lungo, ristretto, tiepido, macchiato, d’orzo, marocchino etc. – farebbe dunque di me un pessimo inglese. E infatti non lo sono, a malapena ne balbetto la lingua.
Ma proviamo allora a cercare di capire cosa significa essere inglesi, proviamoci utilizzando come chiave d’accesso proprio il loro celebre motto. Seguendo il sottile filo delle parole per ricomporlo in gomitolo, un inglese sarà magari qualcuno per cui il Popolo, la Nazione, la Regina e insomma il Tutto, trae sostanza e vigore dall’immutabilità e ripetizione delle singole parti, che devono rimanere distinte (paradossalmente) per garantire la tenuta del sistema. E così my cup, your cup, his cup
Alla luce di questi pensieri diventano coerenti anche le esternazioni del premier Boris Johnson sull’epidemia di covid-19, che non risparmia l’isola che ha dato al mondo i Beatles e i Rolling Stones, qualcosa di buono dobbiamo pure riconoscerglielo. La citazione esatta ora non la ricordo, ma si trattava di un discorso del genere: “Mettete in conto che moriranno molte persone. Tra cui vostri cari, parenti, amici. Potreste morire anche voi. Ma il nostro Paese non si ferma, non può fermarsi!”
Una prospettiva che da principio mi era apparsa delirante, ma che vira di tonalità se la accompagniamo a una tazza di tè, sempre quella, sempre lo stesso tè, gli stessi pasticcini saturi di burro, la stesso rintocco del Big Ben. Già, loro hanno vissuto per secoli a quel modo lì, e adesso vuoi farli cambiare per qualche centinaia di migliaia di morti?
Il punto, come è stato erroneamente detto, non è nemmeno il primato della comunità sul singolo – questi sono i cinesi, che non a caso si sono comportati nel modo opposto – ma del rituale che conferisce forma al suo oggetto, e non il contrario come sanno bene gli antropologi. Ma il rito è tanto più necessario quanto più il gruppo si sente fragile ed esposto.
Dicono: un Grande Paese si riconosce dalla coerenza, rimanere uguale a sé stesso – scuole, musei, pub aperti – nella buona e cattiva sorte, secondo la formula matrimoniale. Che però è anche la descrizione che offre il dizionario alla voce cretino: qualcuno che si comporta in modo immutato al mutare delle circostanze esterne, come infilarsi sotto la doccia vestiti. Io propendo per la seconda ipotesi, ma fate voi…

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