domenica 22 marzo 2020

Non ti scordar di me, o sul ritorno delle giostre


Stamattina sono andato a fare una breve passeggiata. Posso farlo, ho un cane. Tutti i giorni alle dieci raggiungiamo un piazzale in terra battuta di fronte allo stadio di Sondrio, in questo periodo di solito lì compaiono le giostre, almeno un giro nella grotta della paura lo faccio ogni primavera, mentre il calcinculo mi fa venire da vomitare. Ma più che una passeggiata vera e propria camminiamo avanti indietro, come carcerati durante l’ora d’aria. D’altronde è l’unico luogo entro duecento metri da casa dove io possa portare Mela, un cucciolone di hovawart di due anni e mezzo.
Per digerire uno scenario non proprio accogliente, anche il tempo atmosferico non era dei migliori, ho iniziato a prestare attenzione ai dettagli, lo suggerivano in un libro sulla mindfullness che ho letto senza troppo interesse. Il rumore dei miei passi sul selciato, il ritmico ansimare del cane, vento sulla faccia, polvere. Ma in lontananza anche il suono martellante di una motosega, la flessione del gomito a ogni falcata, la falcata stessa e infine il cinguettio dei passeri, di cui chissà come mai mi sono accorto solo all’ultimo.
Su quel coro che è tutt’altro che monodico, piuttosto un colloquio sinfonico tra strumenti simili ma diversi – a un certo punto ha voluto metterci becco anche una cornacchia – sono sprofondato in uno stato di serenità e benessere. Quiete, è forse la parola giusta. Si è però interrotta quando il mio sguardo si appuntato su piccoli fiorellini azzurri, si nascondevano tra i ciuffi d’erba a lato del piazzale. Mi sembrava di conoscere il nome di quei fiori, a fianco c’era la vampa gialla del tarassaco, qui detto anche dente di cane, l’avevo come si dice sulla punta della lingua… Ma nulla.
La mente ha così ripreso a ruminare alla ricerca di un termine per richiamare alla coscienza ogni cosa: pane al pane, vino al vino. E siccome il pensiero ha questa tendenza a muoversi per analogia, sono passato da un fiore all’altro. Ad esempio quelli che annaffia l’anziano nella scenainiziale di Blue Velvet, è tutta una festa vegetale, un idillio panico con la colonna sonora di Bobby Vinton, prima che l’uomo prenda un infarto e il tubo di gomma assuma l'aspetto di un indice d'acqua puntato al cielo, a cui un piccolo cagnetto si precipita per bere. Oppure il giardino descritto da Leopardi che presto si converte in una jungla minacciosa, insetti divorano altri insetti, le infiorescenze si fanno specchio di una terribilità incombente, perturbante.
Ma quale delle due sensazioni è vera: la pace e l’incanto appena sperimentati, oppure l’inganno biologico con cui il mondo si traveste?
Su quel dubbio mi è arrivata un'immagine – ormai il pensiero aveva ripreso il sopravvento –, vedevo un vecchio saggio sorridere sornione. Si trattava di quel Carl Gustav Jung che rimproverava al cristianesimo di avere espunto il diavolo dalla Trinità. E però un momento, ferma, forse ci sono: miosotide o non ti scordar di me, ecco come si chiamano quei fiorellini azzurri!
Non scordarsi, già. Non scordarsi di tante cose adesso che sembra tutto perduto. Ad esempio di una giostra festosa, a marzo è sempre stata qui ma ora ne attraverso il luogo deserto: una lattina di Red Bull rotola mossa da una ventata più brusca, poco prima avevo scansato un preservativo. Uno schifo non solo apparente, le cose a volte posseggono una tangibile vischiosità. E così, per ritrovare la giostra, devo guardare dentro di me, non scordarmi di me.
Eppure, come dietro a un fiore si nasconde la sua putrescenza, forse anche dietro al dolore di questi giorni, tra i tentacoli dello stramaledetto covid-19, ha fatto tana il seme minuscolo di un fiore. Sono i due volti di Giano, il paso doble nella danza di Siva. Il nostro compito sarà allora quello di istruire gli occhi per guardare a entrambe le facce, imparare tutte le danze. E come equilibristi ballare sopra a un filo teso. Al suo termine, mi piace credere, la giostra tornerà.


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