giovedì 9 aprile 2020

Tina


Con un messaggio WhatsApp mi avvertono che è morta Tina. Ma non si chiamava Tiziana? No no, Tina, mi conferma l'amico che mi comunica la notizia, senza aggiungere altro. Solo un’icona che forse significa buona fortuna, un quadrifoglio verde.
Io non ho mai conosciuto Tiziana, ops, Tina, nemmeno intravista di sfuggita, anche se viveva nel mio stesso palazzo. Ne sbaglio come si vede ancora il nome, e forse potrei essere più preciso anche sul suo stato. Non è proprio morta – ma questo l’ho scoperto in seguito –, è in coma vegetativo irreversibile, i medici stanno cercando di salvare almeno il feto che da sei mesi portava in grembo, prima di lasciarla andare all'abbraccio tiepido degli antenati.
Tina non è italiana, nemmeno caucasica, una parola che mi ha sempre fatto ridere, non so perché. È africana, ma di nuovo non sono a conoscenza del luogo esatto da cui proviene. Solo che è arrivata seguendo la solita trafila: scafisti, mare, onde, freddo, caldo, sete e infine centri di accoglienza che più inaccoglienti non potrebbero essere. Il bello degli ossimori. Ma non scherza neppure il termine invasione, con cui la chiamano riprendendo il linguaggio militare. Quando è un esodo inerme e disperato come la Caporetto di un intero continente. 
Tra le tante incognite, anche quella su quando sia approdata proprio qui, in via Parolo 10, a Sondrio, quanto abbia attesto prima di essere presa in carico da una cooperativa che ha affittato un appartamento nel mio condominio, non se lo pigliava nessuno (un piano terra in cui ti guardano in casa) e se lo sono presi loro, per stipare la loro merce come vitelli in una stalla – sei o sette persone in settanta metri quadrati scarsi, impianto elettrico non a norma, rate condominiali non pagate, biciclette fai da te dimenticate in garage a ogni passaggio di quindicina, come si fa nei night club con le entreneuse per offrire ai clienti carne fresca. Business is business, insomma.
Sapere di una tale promiscuità durante un'epidemia, beh, non è proprio rassicurante. Tanto più che una sera, portando il cane a fare pipì, sento delle voci provenire da quell’appartamento, il volume è alto ma la lingua irriconoscibile. Strano, di solito non vola una mosca e perfino le tapparelle sono abbassate. Poi passi concitati – staranno mica ballando? , bambini che piangono, gente che entra e esce dal portone di ingresso lasciato spalancato. Una festa, penso.
Appena rientrato in casa telefono alla capo casa. Anche lei ha sentito i rumori, e concludiamo che non si possono fare delle feste in momenti come questi. D'altronde è gente diversa da noi, hanno altre abitudini, magari sarà qualche ricorrenza voodoo, rituali animisti. Eh no, il troppo è troppo: chiamiamo la Polizia? Chiamiamo la Polizia.
La chiama lei, la capo casa, una signora gentilissima che tutte le estati mi porta le mandorle e l’origano dalla Sicilia, è rimasta vedova da poco. Ma dopo alcuni minuti, invece della volante, compare un'ambulanza. A quel punto mando un WhatsApp al mio amico di prima, che so essere a sua volta amico del presidente della cooperativa d'aiuto. Aiuto per modo di dire, ma lasciamo andare…
A stretto giro mi risponde: è stata male Tiziana, una ragazza di ventiquattro anni che aspetta un figlio, forse un'emorragia. Tiziana, l'ha chiamata proprio così. O magari sono io ad aver capito male. Tiziana, Tina, in fondo iniziano sempre con la ti, cosa vuoi che cambi. Piuttosto po' mi vergogno, ma non tanto, di aver pensato in prima battuta a una festa, ma di questi tempi la confusione è il lievito con cui impastiamo i giorni, senza che la torta sia mai pronta.
Nel frattempo arriva anche la volante, la legge che abbiamo invocato come una spada dal cielo, a riportare ordine e disciplina dove sentivamo puzza di abuso. Avranno fatto dei controlli, che ne so. E fino al messaggio di ieri mi sono scordato di tutto, tra cui il suo nome. Ci hanno sempre insegnato che le cose sono più importanti dei nomi che gli diamo.
E invece bisognerebbe ricordarsi dei nomi, delle facce, non genericamente del fatto che gli altri sono persone, anche quando possiamo solamente immaginare di loro, perché ci divide una manciata di metri oppure un mare pieno di acciughe e relitti, non importa.
Poco prima di pranzo ho così provato a contarli, i gradini che mi separano dalla porta con cui TINA si chiudeva in casa tutto il santo giorno, come le avevano detto di fare e lei obbediva con scrupolo. Settantadue, sono settantadue gradini. La distanza tra un signore caucasico di cinquantatré anni con i capelli bianchi, uno di quelli che da giovani chiamavamo matusa, e una ragazza nera di ventiquattro appena morta di parto, quasi morta.
Come nella canzone di Guccini intitolata Venezia, è però rimasto un bambino, meglio un feto, anche lui è ancora nella dimensione del quasi: quasi vita, quasi respiro, quasi pomodori da raccogliere a tre euro l'ora se ti va di culo. Ma soprattutto quasi un nome, per il quale sta lottando con tutta la forza che solo il futuro possiede: Modupe, Abasi, Labaan... O forse si tratta di una bambina, Lisimba, Bikika, deciderà il padre come chiamarla, sempre che un padre ce l'abbia.
A me ho fatto solo una promessa, di ricordarmi di quel nome, non confonderlo con quello di nessun altro. Il nome del mio nuovo vicino di casa. Della mia vicina. Il nome.

2 commenti:

  1. Ci sarebbero da scrivere fiumi di parole, ma mi sento solo di dire grazie per aver voluto immortalare un attimo della breve vita di questa giovane donna

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