venerdì 3 aprile 2020

Pugni, o sull’immenso prima in cui siamo conficcati


Credo esista una legge della fisica per cui se c’è uno spazio vuoto qualcosa accorre per riempirlo. Credo. E se non ci fosse, sarà una legge della psicologia. Almeno a me succede così. In questi giorni, in particolare, mi sembra di ricordare più del solito, la mente va indietro, rovista, scova episodi che l’incalzare degli impegni aveva seppellito. Sempre indietro, mai avanti. Il pensiero colma la dilatazione che si è creata negli eventi.
Tra i rigurgiti del passato si impone la memoria delle zuffe giovanili. Non che facessi spesso a botte, e quelle poche volte in genere le prendevo. Tutta colpa dei fumetti che divoravo: l’eroe vede un sopruso, interviene, salva il malcapitato ma la striscia si interrompe sul più bello, il finale al prossimo albo.
Uno spirito più emulativo che eroico mi portava a difendere i compagni dalle angherie dei bulli. Quando mi imbattevo nel prepotente di turno, dai, lasciamo in un angolo le cartelle, andiamo in quel prato a risolvere la questione, e di solito si tirava indietro. A braccio di ferro sapevo farmi valere, mentre dagli incontri in tivù di Muhammad Ali, che io chiamavo ancora Cassius Clay, avevo imparato qualche trucchetto. Poi però il tizio che avevo sfidato tornava con un amico, un complice, un qualcuno, e me ne davano un sacco una sporta.
La volta che ne presi di più fu dai cugini Sertorelli. La mattina ero leggermente in ritardo, il piazzale antistante le scuole medie Sassi era deserto, tutti erano già entrati e stavano rovesciando sul tavolo di formica verdina il diario di Snoopy, quaderni, libri e quel che serviva, insomma. Tutti tranne due ragazzetti ai lati del cancello di ingresso su via Aldo Moro, uno a destra e uno a sinistra degli stipiti di cemento grezzo. I cugini Sertorelli.
Ora non era necessario aver letto l’episodio dei bravi in attesa di don Abbondio, per capire che si metteva male. Quello stava nel programma di terza. Aggiungiamoci che, alla fine di aprile, entrambi indossavano i guantoni da sci. La ragione è presto detta: come al solito, mi ero messo in mezzo con uno di loro. L’avevo visto prendere a schiaffetti un mio compagno dai capelli rossi e gli occhi cisposi. Teneva la testa bassa, il mio compagno, e dagli occhi altrettanto bassi non riuscivano a sgorgare le lacrime, premevano ma si arrestavano come contro a una diga, gonfiando quei granelli che di notte sbocciano a lato delle palpebre.
Intanto, l’altro continuava a dargli i suoi odiosi schiaffetti. A quel punto parte il mio solito copione da Zagor Te-Nay. Due leggeri colpi da dietro con l’indice della mano destra, lui che si volta, mi guarda dal basso in alto, ero più alto io, ma infinitamente maggiore la cattiveria nelle sue pupille. Nelle ginocchia avverto un leggero fremito, ma ormai la recita era avviata e dovevo portarla a termine. Con un cenno del capo gli indico il giardinetto della scuola – sotto titolo: andiamo lì, e vediamo se riesci a dare gli schiaffetti anche a me.
Dopo qualche secondo, lunghissimo, in cui i nostri occhi non si mollano come se la Cocorina li tenesse incollati, mancava solo la colonna sonora di Ennio Morricone, finalmente il mio antagonista apre la bocca: Ma lo sai almeno, chi è mio cugino?
Me lo spieghi un’altra volta, faccio io con una voce impostatissima, anche quella faceva parte del ricalco degli eroi Bonelli, adesso molla il mio amico.
Mantenendo fino all’ultimo il suo sguardo cattivissimo su di me, alla fine se ne era andato (e qui devo confessare che qualche dubbio l’avevo avuto...) ma prima aveva sibilato qualcosa, del tipo: Ci rivedremo. Ok, ci rivedremo.
Era una bella giornata, inquadratura dall’alto con le betulle fiorite sullo sfondo: io che tengo la mano sulla spalla del mio compagno dagli occhi cisposi, lentamente stavano tornando asciutti ma sempre cisposi, ci avviamo verso la seconda F. Non è difficile essere dei duri, pensavo compiaciuto tra me e me, basta poco, devo farlo più spesso.
Invece è difficilissimo, e i due cugini Sertorelli erano lì per ricordarmelo, con i loro guantoni da sci a primavera inoltrata. Ora io credo di non aver mai preso tante botte nella vita nemmeno se sommo quelle di mio padre, Pierantonio (a cui per altro ne ho restituite parecchie), don Gino, suor Tecla, la maestra Maccarone e mio zio Franco, che mi diede un solo ceffone dopo che avevo abbattuto la veranda di un chiosco di bibite vicino a Nizza, e ancora oggi se ne rammarica.
I cazzotti dei cugini Sertorelli però non hanno paragone, a ogni passo che facevo, traballando e senza reagire, erano cinque o sei pugni in faccia – che poi avevano solo due mani a testa, come facessero ancora non lo so – e a malapena riuscii a raggiungere i bagni per ripulirmi dal sangue che mi colava dalla bocca e dal naso. Ma dopo una sciacquata di acqua fresca, la sensazione inattesa di esserci ancora. Stavo addirittura bene, deve essere l'effetto dell'adrenalina. Ero vivo. Ero integro, quasi integro, via.
I pugni fanno molto meno male di quanto avevo fino a quel momento sospettato, meglio temuto. Consiglio di provare, per credere, a chi non si è mai preso una ripassata. Basta fare come in quel film di Woody Allen. Accostarsi a un capannello di gente di colore e poi gridare: Negri di merda!
Chi invece ha fatto almeno una volta a botte già lo sa. Si sopravvive quasi a tutto, e il male, il danno, la sfiga, si rivelano spesso meno terribili delle loro prefigurazioni. Non sto naturalmente cercando di minimizzare la sofferenza, reale e drammatica, di chi in questi giorni ha perso parenti o amici per lo stramaledetto virus. Ma solo ricordando a me stesso che i pugni non fanno male. Nemmeno bene, ma passano.
È il prima a essere carico di paure, e l'ansia è una forma di sofferenza, solo più subdola, occulta, come le doglie rispetto al parto. Pare che poi le donne si scordino il dolore del parto, altrimenti non farebbero più figli, ed è così anche per le scazzottate. Se non volete fare la prova con quelle basta ricordarsi del dentista. Il trascorrere estenuato dei minuti nella sala d'attesa, per ingannarlo fingiamo di leggere una copia logora di Marie Claire. Poi l'assistente alla poltrona - il completo verde, la mascherina - compare a sussurrare il nostro nome, e un pezzettino di peggio è
 già passato. Quello del prima.
Ecco, a me sembra che siamo piombati tutti in un immenso prima: l’Occidente è conficcato in un prima che non vuole diventare dopo, il mondo è un prima, solo per i medici e gli infermieri e i malati è un tremendo durante, a guardarlo da quaggiù anche l’universo appare oggi come un enigmatico prima, ma non abbiamo la possibilità di cavarci il dente o di sfidare i cugini Sertorelli a fare a botte. Dobbiamo solo aspettare, chiusi in casa. Mentre il presente ci dà dei piccoli schiaffetti che noi incassiamo con occhi umidi e cisposi.

Ps – Ah, per la cronaca. Alle medie, oltre a quelli che le buscavano, io avevo anche un amico pluriripetente, tale Gigi. Stava nella sezione accanto, la E. Una volta sono riuscito a bloccarlo, insieme a tre bidelli, un attimo prima che riuscisse ad accoltellare una supplente con le forbici, rea di avergli dato una nota sul registro. Per dire il tipo. Quando mi ha visto uscire dal bagno barcollante, mi ha fatto solo una domanda: Chi? E io: Cugini Sertorelli. All’uscita da scuola mi aspettava con le teste di entrambi, una sotto un braccio e una sotto l’altra. Le ha battute, come coperchi, fino a che io ho detto ok, può bastare. Perché oltre a Zagor leggevo anche Diabolik.


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