mercoledì 22 aprile 2020

Ammonimenti


Da alcuni giorni mi imbatto su Facebook in ammonimenti agli scrittori: che non vi venga in mente di scrivere su epidemia, virus, corona, Covid, lockdown sono termini che non devono avere cittadinanza nei vostri futuri romanzi, mi raccomando, per non parlare di plateau e curva dei contagi. No no no!
Dichiarazioni di intenti in conto terzi che, perlopiù, vengono diffuse da altri scrittori, o comunque da addetti al settore; un settore, l’editoria, che chissà come mai continua a percepirsi al centro del mondo, quando nella migliore delle ipotesi ne rappresenta solo un’amabile periferia, come quei quartieri residenziali con i tulipani all’ingresso e l’addetto alla sbarra che dice buongiorno al passaggio di un Audi.
In linea di principio non sono comunque in disaccordo, ma neppure d’accordo. Intendo. La letteratura è da sempre stata ricognizione degli interstizi del reale (e che piaccia o meno, di quella realtà ora fa parte anche il Covid-19) quanto prefigurazione di mondi alternativi, catabasi nello spazio infero della psiche, emersione del rimosso sociale. La letteratura è insomma tante cose, un termine che andrebbe sempre coniugato al plurale.
Un bravo scrittore italiano, Enrico Macioci, ad esempio ha scritto dei bellissimi racconti a partire da un evento ugualmente traumatico, il terremoto dell’Aquila, mentre Dave Eggers ha preso spunto dall’uragano Katrina. Chissà se anche allora c’è stato qualcuno a sollevare il dito indice per mettere in guardia dallo scrivere su terremoti e alluvioni…
Queste prese di posizione, schematiche e vagamente snob, finiscono così col ricordarmi una vecchia trasmissione di Bonolis, in cui dentro una corale baldoria venivano contrapposti bagnini di Rimini a femminielli di Napoli, a 
decidere quale dovesse essere la giusta sessualità umana.

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