mercoledì 1 aprile 2020

Castigo divino, o sulla dialettica democratica al tempo del Covid-19


Oggi mi è capitato di interloquire, tra i commenti a un post di un mio contatto Facebook, con una persona che interpretava l’epidemia di Covid-19 quale effetto della pratica dell'aborto, come a dire un castigo divino. Anzi, lo diceva proprio.
Per essere testuali, le sue parole erano le seguenti: “È stato Dio a portare il corona virus a causa di quelle camere a gas approvate dallo stato”; con camere a gas il parallelo è ovviamente con l’Olocausto, aborto uguale Shoah.
Ora io ho sempre saputo che c’è in giro gente che la pensa a questo modo, nella cosiddetta bible belt americana probabilmente ci andrebbero giù ancora più pesante, insinuando che Dio, il loro Dio almeno, con il virus stia punendo il gestore del fast food dove hanno acquistato un hamburger due mesi fa, quel fucking bastard non gli ha messo abbastanza ketchup e nessuna patatina fritta a contorno, per non parlare della carne macinata che era troppo cotta, la Pepsi calda e sgasata. E adesso si becca la nemesi, come si semina si raccoglie.
Mai nella vita mi era però capitato di confrontarmi con una persona con tali idee, ai Testimoni di Geova rispondo al citofono che sono il ragazzo delle pulizie, sono bravissimo a fare la voce da filippino. Mi sono quindi accorto di vivere, come tutti, dentro a una bolla: ho fatto certi studi, frequentato amici non troppo diversi da me, avuto delle fidanzate con cui la maggiore ragione di dissidio era se è meglio Gianni Celati o Philp Roth; io ovviamente sono per Gianni Celati. Una vita a mia immagine a somiglianza, insomma.
Invece eccomi qui, a conversare con uno che vuole convincermi che Dio è così stronzo, meschino e rancoroso da farci uno scherzetto del genere. E non vale tirare in ballo la teodicea di Leibnitz o di Agostino, qui bisogna ribattere molto più terra terra, siamo tornati dietro i banchi a dottrina, quarta elementare o giù di lì. E se poi avesse ragione lui?
Ma allora come la mettiamo con le migliaia di malati intubati, chi lo spiega ai figli, alle mogli che non hanno potuto tenere la mano al marito morente, chi gli dice che se lo meritano, se la sono cercata: nascere in una nazione dove l’aborto è legale, vergogna, anzi peccato, c’è stato pure un referendum!
E però attenzione, la persona che sosteneva la tesi del flagello divino – un vaneggiamento teologico, per non dire un vaneggiamento tout court, chiamiamo pure le cose con il loro nome – era di una squisita cortesia, quello aggressivo ero io. Ed è la cosa che più mi ha colpito e turbato: l’assoluta buona fede, il suo candore perfino. In ciò non posso non ravvisare un tratto genuinamente cristiano, era come i gigli nei campi. Campi innaffiati dal napalm di una religione occhiuta e punitiva.
Inutile aggiungere che dopo pochi scambi di battute ci ho rinunciato. Lasciandomi la sensazione, amarissima, che certe porte non si aprano con la chiave, non so se mi spiego. L’unica è evitare di sbatterci addosso, oppure abbatterle con la spallata di un rugbista. Ma anche a tirarle giù, fuori e dentro non si combineranno mai, ci sarà sempre un invisibile diaframma. Il limite della dialettica sta proprio qui: con certe forme pensiero si può solo cercare di vincere, confinarle in un limbo di irrilevanza, espungerle dal confronto democratico delle idee, come aveva suggerito Popper che della democrazia è stato il maggior cantore.
Ma non è solo il rassegnato bilancio di un laico, dopo una vita spesa nel tentativo di stabilire un confronto. Anche Papa Francesco, da una prospettiva opposta, arriva a una simile conclusione. Lui li chiama gli accaniti. Aggiungendo, in una recente omelia: "Con gli accaniti non si discute, si tace. È la miglior cosa da fare."

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