martedì 7 aprile 2020

Così lontani, così vicini

Ho sentito ieri per telefono un mio compagno di gioventù. Anni ottanta, gommina sui capelli, occhiali da sole Vuarnet e PX bianco con gli adesivi di Radio Studio 105. Cose così, un po' sceme per quanto non venissero prese troppo sul serio – niente veniva preso sul serio, in effetti – come faceva invece la generazione precedente con i suoi totem politici. Noi non avremmo mai sventolato la pecetta Stone Island sulle barricate, intendo.
Il mio amico teneva però un profilo più basso, non si consegnava a ogni nuova moda con il mio stesso fervore, interrogando lo specchio non per sapere chi fosse il più bello del reame, ma per verificare che la mia divisa fosse conforme al tempo di pace infinita che ci si spalancava davanti. Se fosse il personaggio di un romanzo potrebbe essere l’osservatore interno, Nick Carraway ad esempio, quando narra in prima persona la vita folle e appassionata di Jay Gatsby.
Un tratto discreto che ha accentuato nel tempo, il destino è il carattere suggeriva Eraclito, non freddo ma misurato, forse il termine giusto è responsabile. Me lo conferma il suo comportamento nei confronti del figlio, che ha l’età che avevamo noi quando andavamo al Charlie Brown per ballare sulle note di One Night in Bangkok e Fade to Grey.
Il ragazzo si sta sottoponendo a un ciclo di chemioterapia per un tumore alle ossa. È stato operato l’anno scorso, pare sia andato tutto bene, ma si sa che il metabolismo di un sedicenne è un motore che romba a cinquemila giri, in attesa che compaia il verde per lanciarsi nella vita. Dunque ci vuole un po’ di chimica perché il verde non torni rosso.
Una notizia che purtroppo già conoscevo. Grazie al cielo, adesso niente di nuovo. Mi ragguaglia sul fatto che le terapie stanno procedendo nel modo previsto, anche se questa epidemia proprio non ci voleva. Sospira. Come si dice: piove sempre sul bagnato…
Con l’autocertificazione, da Sondrio dove abitiamo entrambi, continua ad andare a trovare il figlio una volta a settimana a Milano, città in cui si trova l'ospedale a cui si sono affidati. Lì hanno preso un bilocale in affitto, ci abitano anche la madre e la sorella del ragazzo, la famiglia del mio amico. Escono di casa solo per la spesa e per le sedute di chemioterapia, nessuno entra o esce da quella porta per altri motivi. Nemmeno lui, il padre, con cui il figlio parla attraverso il vetro della finestra che dà su un cortiletto interno, fortunatamente stanno a pianterreno.
Sai mi dice lui dopo una lunga pausa telefonica, ha sempre avuto questa inclinazione alle pause, a differenza mia che tamponerei ogni silenzio come fa il muratore con le crepe nel muro, sai io non credo di essere positivo al Covid-19, però senza verifiche mediche non posso essere sicuro al cento per cento. E le chemio abbattono i globuli bianchi, i pazienti oncologici sono immunodepressi. Non mi sento di rischiare.
Mentre mi raccontava io provavo a visualizzare la situazione, ma non è semplice. Mi è così venuta in mente una scena di Paris Texas. Un uomo introverso e sbandato, gli dà corpo un Harry Dean Stanton in stato di grazia, ricerca insieme al figlio la moglie che aveva abbandonato entrambi, finché la ritrovano dalle parti di Houston, dove fa la spogliarellista. Chi non ha visto la pellicola non può immaginarsi quanto bella fosse Natasha Kinski nella parte di una spogliarellista. Quanto fosse bella in qualsiasi parte, a dire il vero.
Ma forse il termine spogliarellista è impreciso. Non si tratta infatti di un locale con un palco, oppure pali per la lap dance e maschi con cappellacci da cow boy che tracannano birra e fischiano a ogni indumento che cala. No, niente del genere. Una specie di motel piuttosto, li chiamano peep show. Il cliente paga, entra e dalla parte non riflettente di uno specchio può vedere la ragazza, anche interloquire con una cornetta telefonica, chiederle di fare delle cose. Il rapporto è di uno a uno, più simile alla prostituzione. Solo che, come in tutti gli specchi, alla ragazza la vista è preclusa, non può sapere chi sta dall’altra parte. La donna, molto più giovane, non immagina così di trovarsi di fronte al marito, per lei si tratta del solito vecchio porco. Un marito, una moglie prostituta e uno specchio. Non male.
Il loro scambio da principio e come previsto è di natura erotica, lei lo stuzzica, lo provoca con gesti e parole, è il lavoro per cui viene pagata. Quindi si stupisce dell'apparente disinteresse al suo corpo: ma allora cosa vuoi? Lui non risponde, ci gira attorno, ancora non è il momento di palesare la propria identità, che è lei a intuire progressivamente fino all'agnizione finale, sulla quale la mia memoria è sfocata. Mi ricordo solo che scendono delle lacrime. Al marito, alla moglie, chi lo sa… Lacrime con il sottofondo delle note dolenti della chitarra di Ry Cooder.
Non posso dunque dire se anche sul volto del mio amico siano scorse delle lacrime, non mentre mi parlava dei suoi guai per telefono, ormai ci siamo abituati a tutto e sembrava stessimo conversando della cosa più naturale del mondo. Un padre. Un figlio malato. Un vetro che li divide e che li unisce. Ma forse non è solo la loro storia, come tutte le buone storie parla a ciascuno di noi. Titolava un altro film di Wim Wenders: così lontani, così vicini.


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