E così sono diventato il personaggio di un romanzo. In
realtà è solamente un attimo, come il passaggio fugace di Hitchcock dentro una
sua pellicola, facciamo a tempo a riconoscerlo, eccolo, è lui, ma sei sicuro? E che ne so, dopo un secondo è già sparito, lasciando spazio ad altre storie.
Quelle che ci racconta Fulvio Abbate ne La peste nuova, appena pubblicato da La nave di Teseo. Stavo per scrivere
ripubblicato, ma, il libro, è frutto di una profonda e radicale riscrittura di
un romanzo precedente, La peste bis
del 1997.
Chissà cosa stavo facendo quando è uscita la prima edizione, mi piace pensare che stessi baciando una ragazza di nome
Mariangela, come la figlia di Fantozzi, tutti però la chiamavano Lella, aveva
grandi occhi verdi e un profumo di cocomero. Più prosaicamente sarò stato a bermi un bianchino al Bar Piero, ad acquistare le crocchette per il cane, comunque conficcato nella cosiddetta vita vera, non mi ero ancora trasformato in fabula – “Il mondo divenne favola”
scriveva Nietzsche ne Il crepuscolo degli idoli –, controllo per esserne certo ma il nome e il cognome
sono proprio i miei, il personaggio dice le cose che dico io. Solo che ad accorgersi dello sgattaiolare di
Hitchcock nel romanzo di Abbate è stata un'altra persona, lo scrittore Piersandro Pallavicini.
Mi invia alcuni giorni fa un breve messaggio: “Conosci
Fulvio Abbate?” “Sì, certo, è mio amico” rispondo senza capire il senso della domanda, non vorrei gli avesse rubato l'autoradio. “Siamo amici anche se non ci siamo
mai incontrati di persona”, aggiungo per prendere un po' le distanze, chissà mai che chieda a me di ripagargli l'autoradio. “Allora sei proprio tu il Guido Hauser di cui
scrive. Trovo che Abbate sia una persona notevole.”
Curioso il termine utilizzato. Notevole. Non so se
Pallavicini l’abbia fatto intenzionalmente, ma è lo stesso aggettivo con cui Jung sintetizzò il suo primo incontro con Freud, pare durò quasi otto ore. All’uscita,
stremato, Jung disse solamente: “Una persona davvero notevole!”
Ora che ci penso, notevole è la
qualità di ciò che viene notato, magari già ci stava sotto il naso e non ce ne
eravamo mai accorti. E il romanzo di Fulvio rappresenta proprio questo: non una
vicenda compiuta o, come si dice, un plot, ma l’arte di accorgersi, di notare e
collegare dettagli apparentemente indipendenti, come quelli che
legano Freud a Jung a Pallavicini a Nietzsche e a Guido Hauser; che poi sarei io
ma anche qualcun altro, qualcuno sfuggito dal mio controllo per farsi racconto. E ciò grazie a Fulvio
Abbate, che ha unito i puntini.
L’unica trama oggettiva, a tenere assieme i personaggi della narrazione, è dunque il fatto che sono vivi, sullo sfondo di un’epidemia che stravolge l’abituale collocazione delle cose (spazzolino sul lavandino, camicie nell'armadio, preservativi nel cassettino dell'automobile, chissà mai che stasera si rimorchi) ponendole sull’orlo dell’abisso. Ma se discostiamo le quinte dal fondale contingente,
appaiono gli intrecci, il senso narrativo dell'essere in vita, che è per l'appunto solamente
narrativo, ossia un non-senso che assume grazia e misura in virtù delle scelte
discrezionali dell’autore; scelte linguistiche e di immaginazione, come in
tutte le storie compresa la più umile di tutte: inventare barzellette.
Guido Battaglia, il protagonista, ammesso che ve ne
sia uno, fa proprio questo. Inventa barzellette. Come un virus, potremmo vederle quali unità
minime del narrare, ed è forse la ragione per cui due ragazze bellissime si
rivolgono a lui: raccontaci una storia che salvi il mondo, in cambio avrai il
nostro corpo. Ma Guido è solo uno scrittore di barzellette, salvare il
mondo, una parola… Oltretutto è appena stato mollato da Valeria, la geniale
ideatrice di quasi tutte le loro storielle.
Inizia così un'odissea narrativa tra vicende reali,
possibili ma soprattutto dentro il loro statuto, ossia la funzione civile del gesto di scrivere, che se non tutto il mondo dovrebbe sempre cercare di salvarne un piccolo pezzo, un mondo. E così comprendiamo che le storie davvero posseggono la medesima natura di una barzelletta, il cui tratto virtuoso è quello di congedarsi dal
proprio autore, per poi magari ritornargli come
un boomerang. Ricordo quando dissi a un amico che il cantante dei Simple Red era il piccolo attore con i capelli rossi di Tre nipoti e un maggiordomo, l’avevo
sentito in giro. "Ma mica è vero" mi
rispose lui, "è una cazzata che mi sono inventato io, da quando l'ho detto al Bar Piero ha già fatto due volte il giro di Sondrio: se la sono bevuta tutti!" Ecco una storia.
Anzi, una buona storia, qualcosa che si bevono
tutti, o anche solo qualcuno che poi la rilancia come una barzelletta. D’altronde
la mia presenza nel libro di Abbate è avvenuta allo stesso modo. Un paio di mesi fa ho scritto un
post su Facebook, paragonavo la condizione epidemica alla battaglia di
Waterloo, o più precisamente al suo prologo a Ligny, quando il 6 giugno 1815 Napoleone sconfisse
l’armata prussiana comandata feldmaresciallo Gebhard Leberecht von Blücher.
A Ligny c’era anche un mulino, il mulino di Brye, lo possiamo vedere
nel dipinto del pittore britannico Ernest Crofts, e dentro il mulino contadini, donne,
bambini, mugnai, forse anche qualche coniglio e gallina, almeno prima che il piccolo corso ne facesse il suo quartier generale. Un minimo universo agreste del tutto ignaro della grande ombra della storia che si allungava, visibile solo quando ha preso la forma di palle di cannone e luccicare di
sciabole alle prime luci dell’alba. Ma chi sono questi? Li avevano messi in mezzo, insomma, come
noi siamo stati messi in mezzo in quella regolazione finale dei conti tra bios e tecnica; nella circostanza
interpretata dalla tecnica medica all’affannata ricerca di un vaccino.
Questo scrivevo nel mio post, poco male se non se l'è filato nessuno, credo di aver toccato il minimo storico dei like. Ma
Fulvio l’ha incrociato e deve averlo incuriosito, così insieme a me è finito nel
suo romanzo. Perché la letteratura, almeno quella di Fulvio Abbate, è il
movimento laterale in cui le cose si discostano dalla loro collocazione per
acquistare una luce nuova e rivelatoria. E ciò anche quando il segreto svelato
coincide col refrain di una vecchia canzone di Francesco De Gregori: "e
non c'è niente da capire..." Solo da narrare.
Dubito che sarà
sufficiente a salvare il mondo, e così a comporre quella barzelletta perfetta
con cui Guido Battaglia avrà diritto al suo compenso sessuale; ma non spoilero
nulla anche perché non sono ancora arrivato alla fine. Di meglio, dal
raccontare storie, dal trasformaci in fabula come è accaduto a me, non abbiamo comunque ancora trovato.
Almeno noi che non abbiamo divinità barbute in paradiso, o utopie tecnologiche a cui affidare le magnifiche sorti e collettive. Per questo il
libro di Fulvio Abbate è realmente notevole, e io gli sono grato per la
comparsata che mi ha offerto.