domenica 31 luglio 2016
La danzatrice solitaria, o sulla letteratura e lo sguardo
Mi sembra di conoscerla da un milione di anni. O comunque da più di trenta, quando l’incontravo ai primi concerti in cui investivo la mia paghetta settimanale. Ma anche fuori, per le strade, piazze, bar, accanto a massicci jukebox a forma di astronave: ovunque c’era un po’ di musica, lì eri certo di trovarla. Una donna dai capelli lunghi e scuri e mossi, talvolta raccolti in una crocchia arruffata, mentre la carnagione, quasi livida per l'abbronzatura, rivela consuetudine con gli spazi aperti e con il sole. Ma anche pioggia, neve e vento non devono essere estranei a un corpo ancora tonico e flessuoso, da ragazza. Solo il viso rivela impietoso tutti i suoi trentacinque anni, forse qualcuno di più – quelle piccole rughe accanto agli occhi, agli angoli della bocca, tipiche di chi ha riso e pianto senza alcun risparmio, spesso confondendo le due cose.
Perfino l’abbigliamento, di ispirazione indiana, non è cambiato negli anni: sandali in pelle a infradito, sciarpine di organza, gilè ricamati e qualche ampio indumento arancione, non manca mai anche una scia amaragnola di patchouli. Una volta, si sarebbe detta una divisa da “fricchettone”. E con i freak degli anni sessanta e settanta, in effetti, la giovane donna condivide molti tratti. Tra cui alcuni tatuaggi rudimentali, probabilmente realizzati a mano da un amico o da lei stessa in un impeto notturno, le notti insonni in cui ha affinato l’abilità nell’arrotolare le cartine con il tabacco, in ampio anticipo sulla consuetudine a farsi da soli le sigarette. A un primo sguardo potremmo vederla come un residuo di quell'onda temporale montante che è poi involuta in risacca, come una conchiglia arenata sulla sabbia del presente, ma in cui ancora ruggisce l’eco di un'epoca magnifica e perduta. E così mentre tutti stanno composti sulle loro sedie ad ascoltare la musica, oppure parlano, fanno altro, lei continua a seguire con il corpo una sua fluttuante marea, ogni tanto fa un urletto, batte le mani e i piedi a cercare la cadenza del suono, ma è completamente scollegata al ritmo impresso dagli strumenti musicali, oltre che al resto dell’universo. La richiama al momento attuale solo una bottiglia di Beck’s, a cui ogni tanto dà una sorsatina.
E’ successo anche due giorni fa. Mi trovavo in piazza Garibaldi, durante il tradizionale concerto estivo per Sondrio accesa, quando una giovane donna, di punto in bianco, ha cominciato a ballare per conto proprio. Ma la cosa che mi ha colpito è stata la presenza di una bambina, a volte può essere anche un bambino, ma di solito è una femmina, che sta accanto a questa eterna figura danzante. Probabilmente si trattava della figlia, una bimbetta tutta seria e composta di circa otto anni, che osservava la medesima scena con occhi spalancati e attenti. E così la mia attenzione è passata immediatamente dallo sguardo liquido della madre a quello solido e concentrato della figlia. Ma più la guardavo guardare, più la osservavo osservare la propria madre che si offriva incurante ad altri sguardi curiosi, più davvero tutto ciò si trasformava in un labirinto di specchi, un cortocircuito di occhi… Senza una via d’uscita.
Eppure della madre mi sembra che potrei dire tutto, e sono certo che non sbaglierei di molto: gli studi fatti e presto abbandonati, i lavori precari, il giorno in cui si è fatta il primo spinello, gli uomini che ha amato (a cui sempre regalava una copia di Siddharta) e quelli da cui è stata amata – che non coincidono mai –, la puntina con cui si è ferita un dito affiggendo il poster di Mick Jagger o di Curt Cobain, quando ha smesso di bere e quando ha ripreso nuovamente, tutto. Ma della figlia, cosa posso dire della figlia? Niente, vuoto assoluto: di quella bambina - pensieri, sogni, desideri… - non riesco a dire proprio nulla.
Ma è un nulla che cresce, lievita, si allarga assieme alla mia ostinazione a comprendere, a riempire di parole non tanto la situazione che osservo, ma il suo punto di vista privilegiato, che realizzo non essere il mio. Si concentra piuttosto in una pupilla microscopica, un pozzo nero in cui tutto si riassume in una forma che esiste solo in quella forma lì, per quanto enigmatica e conflittuale, non un'altra. La forma e il senso che una bambina di otto anni prova ad assegnare al mistero di essere vivi e danzanti, ma persi in un mondo tanto più grande e forte della madre, che invece ha finito per annegarci dentro, rinunciando a un senso e a una forma propri. E però, alla fine, i miei dubbi si sono spostati su una certezza provvisoria: la convinzione che in tutto ciò c'entri qualcosa, se non molto, la letteratura. Sì, lo sguardo affilato di una bimba parla la lingua dei grandi romanzi, che contengono sempre un conflitto e un enigma da risolvere, una lacuna radiante da colmare con l'immaginazione.
E’ dunque sul sipario bianco di quegli occhi muti e acerbi, continuavo a pensare, che uno scrittore dovrebbe provare a scrivere, restituendogli una voce in qualche modo "pubblica", ossia una storia. Anche a costo di inventarsela, che è poi quello che sempre fa l'arte narrativa, strappando dal calendario del possibile la pagina di giorni definiti, con una direzione e forse un destino. In altre parole un personaggio.
Questa opera di rifondazione poetica della vita però non possiamo realizzarla con la madre, non ci è consentito da vincoli estetici, prima ancora che biografici. In un romanzo alla madre spetterebbero infatti non più di pochi capoversi, quali si concedono ai personaggi minori, ai caratteristi e alle macchiette di costume. E cioè a coloro che hanno abdicato all'imperativo nietzschiano a "diventare se stessi", all’unicità drammaturgica (e spesso drammatica) della propria storia, per ripararsi, risolvendo il conflitto, tra le pagine rassicuranti di un libro già scritto da altri, e letto innumerevoli volte. Tutte quelle in cui io ho incontrato, nelle più svariate ma in fondo sempre simili forme, volti, circostanze, la danzatrice solitaria. Mentre la figlia, potenzialmente, ancora contiene gli infiniti destini umani. Quindi anche ogni storia da narrare.
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