venerdì 1 luglio 2016

11\07\1979, o sulla felicità come favola del presente

Se mi chiedi il giorno esatto, ti rispondo che era l’undici luglio del 1979, un mercoledì a essere ancora più precisi, per quanto, a scuole terminate, il calendario settimanale possedeva il contorno liquido di un sogno a occhi apperti. La colonna sonora del sogno era appannaggio di massicci jukebox un poco marziani, in quei giorni non sembravano voler intonare altro che Gloria di Umberto Tozzi, a completare l’ispirata trilogia iniziata nel 1977 con Ti amo e seguita, l’anno successivo, con Tu, tabadam, tabadam, c’è la luna e ci sei tu... Come sempre nel periodo, io, tredici anni appena compiuti, ero in vacanza con i miei genitori.

Quell’estate eravamo andati in Puglia. Pochi giorni dopo ci aveva raggiunti la famiglia Grimaldi, parcheggiando, nella piazzola accanto, un’Elnagh da sei posti con una lunga banda nocciola a stilizzarne la fiancata. Anche la nostra roulotte era un’Elnagh, ma meno grande, certo per via delle dimensioni assai più contenute della famiglia, e però anche dimessa, con la veranda composta da un solo modesto tendino blu: più semplice da mettere e da togliere, diceva mio padre (a questa spiegazione, per inciso, io non ha mai creduto).

Sotto la  veranda dei Grimaldi, invece, si poteva anche stare delle ore, attorniati da ogni agio. Qui sorseggiavamo latte fresco con l'orzata in attesa che passasse la canicola del meriggio, per raggiungere, verso le quattro e trenta e a digestione compiuta  il padre dei Grimaldi era medico, dunque molto scrupoloso sulle precauzioni balneari  la spiaggia da un lungo e stretto sentiero in terra battuta e sassi che si inerpica tra fichi d’india e ciuffi selvatici di rosmarino.

Se da noi c’era solo una minuscola radiolina Philips a transistor, sotto la veranda dei Grimaldi era presente una televisione portatile in bianco e nero, così da non perdersi, su una nuova emittente privata milanese, le puntate estive del Superclassifica Show, in cui Maurizio Seymandi era affiancato da una strobosfera parlante con le cuffie da dj. Ma non mancava, e come poteva, il telegattone Oscar, oltre che i quattro fratelli Grimaldi e io, inchiodati davanti al monitor.

Ed è così che sulla stessa televisione, tra Good Times degli Chic e un latte e orzata, tra Pop Muzik degli M e il solito Umberto Tozzi, quello non mancava mai, arrivò anche una notizia, accolta dalla più generale distrazione: nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, in luogo imprecisato, sarebbero caduti sulla terra i frammenti della stazione orbitale Skylab, di cui la Nasa aveva perduto il controllo già da tempo. Non si escludeva che l’Italia potesse essere la sede dell’impatto.

Un satellite, che ci stava per cascare sulla testa!

Con i Grimaldi, da cui continuava a trasparire una sovrana indifferenza levantina, finsi di dover rientrare nella mia roulotte per recuperare l’ultimo numero dei Giganti del basket, quindi iniziai a girovagare terrorizzato per il campeggio. Come Abraracourcix, grande capo del villaggio di Asterix e Obelix, continuavo a guardare il cielo ossessionato dal timore che mi potesse cascare sulla testa, ma cercando al contempo di individuare dei ripari.

Scartata l’ipotesi roulotte – almeno fosse stata una Tabbert, le Elnagh si sciolgono solo a guardarle – mi ero risolto per i bagni. Subito però compresi che era un rimedio un po' da struzzo: a mille e qualcosa chilometri al secondo, quale affermava, quasi divertito, il conduttore del telegiornale, che cavolo vuoi che faccia un misero tettuccio appena embricato?!

Avevo quindi raggiunto il campo da ping pong, macché, un deserto senza ricovero anche qui, poi la reception nei pressi della sbarra d’accesso, con le bandiere delle varie nazioni che languono alle carezze di un lieve scirocchetto, e infine la spiaggia, sì, la spiaggia, perché non ci avevo pensato prima: lì avrei finalmente trovavo i miei genitori  morire in compagnia e pur sempre meno triste che morire soli...

Ma quel pomeriggio i miei genitori erano andati a fare un giro a Mattinata, a bordo della Ritmo verde ramarro: interni in purissima plastica e aria condizionata nemmeno a parlarne, novanta gradi al sole, quasi bollitura. Ma in quel tempo supplementare del medioevo non si temeva certo il caldo, opponendogli, tuttalpiù, enormi granite alla menta o, alla peggio, cappellini di carta ricavati da vecchi quotidiani stinti. Così avevo ripreso nuovamente il sentiero in senso opposto, arrampicandomi tra i fichi d'india e il rosmarino sotto a un sole rovente e grasso, per concludere che ero spacciato!

Ormai arreso al mio destino, senza più guardare l'orologio ero andato al bar del campeggio – se non altro, un tetto, per quanto ridicolo, qui c’era –,  dove presi a imboccare il jukebox di monetine da cinquanta lire, selezionando ogni volta Gloria, anche qui non c'era alternativa: una fatalità, come la triste sorte che a breve mi attendeva…

Sorte a cui, stranamente, avevo però smesso di pensare. Un appetito altrettanto bizzarro, nella situazione, si era piuttosto fatto strada, la cui reazione fu di prendere dal frigo a pavimento dei gelati un Concertino Algida, arrivato allo stecco un altro e un altro ancora: candida crema pralinata con l’interno sanguinante di morbidissima amarena. Morire di schianto o di indigestione, in fondo che differenza fa? 

Quando rientrarono i miei genitori e mi videro tutto solo al bar, di fronte a uno shanghai di bastoncini Algida – come, non sei in spiaggia con i Grimaldi? – gli confidai tutta la storia, non so se più disperato o vergognoso. Con una risata appena contenuta, per non aumentare il mio imbarazzo, mi rivelarono che il satellite era già caduto, un’ora e mezzo fa. Era venuto giù come una pioggerella distratta sull’Oceano indiano e la parte orientale dell’Australia, nel deserto vicino a Perth, senza causare vittime se non una povera giovenca ignara – in realtà, mi dissero solamente che non c'era più pericolo. E tanto bastava!

Ecco, se mi chiedi il giorno e l’ora esatta, io ti rispondo che è stato in quegli immensi centottanta minuti, il tempo orfano di tempo in cui pensavo di essere già morto. Ma invece ero vivo, vivissimo, in buona e robusta costituzione, perfino. E con il sangue che danzava spronato dal ruggire dell'adrenalina, tra i sussurri sensuali al gusto di amarena, segnando il passo, scattante ma anche sinuoso, delle note di Gloria che si ripetevano in eterno loop, come un bambino o un vecchio che ti ripeta sempre la stessa favola. La favola dell’undici luglio 1979. Sì, in quel preciso momento io sono stato felice.


Ps 1 - Ma allora la felicità, mi viene ora da aggiungere, è forse solamente questo: essere talmente impegnati in qualcosa, fosse anche solo vivere, affannarsi per costruire un tetto di illusioni e paglia al presente, che ti fa dimenticare di ogni altra cosa, ogni umana prospettiva per leccarti infine e sfinito le dita, e quel che toccano lì, ora, adesso. Perché la vita è più grande, tanto più grande e burlona e anche un po' stronza, del problema della felicità.

Ps 2 - La stessa sera, sulla televisione in bianco e nero, un’altra notizia, ma per me e Claudia, Filomena, Antonio e Francesco Grimaldi, davvero piccina. In via Morozzo della Rocca a Milano, di fronte a casa sua, un uomo, non ancora identificato, ha sparato quattro colpi di pistola calibro di 457 Magnum all’avvocato Giorgio Ambrosoli.

Nessun commento:

Posta un commento