Il mese scorso stavo passeggiando dalle parti del Duomo di Como accompagnato da mio cugino Luigi. Mi piace molto quella zona, e non
solamente per la nitida architettura in marmo dell’edificio, che si staglia sullo sfondo della funicolare di Brunate. Sono affascinato dall’irriverenza
con cui le case attorno si allungano quasi a toccare le pareti rinascimentali
del broletto, premono a ridosso delle navate laterali della chiesa, e poi quella risibile
piazzetta sul frontespizio che ne rappresenta a malapena lo zerbino, come un
ragazzetto che non abbia timore ad abbordare una donna bella e matura.
Avverto una strana e potente forza sensuale in una relazione
architettonica così promiscua, molto diversa da quella che si ritrova in quasi tutti gli altri edifici
sacri, che tendono piuttosto a isolarsi e reclamare spazio. Pensiamo, ad
esempio, ai palazzi milanesi che contornano piazza del Duomo, rivolgendosi alle
guglie gotiche con un atteggimento di timida e distante reverenza, quasi con ammirazione. Sì, la parola
giusta credo sia proprio ammirazione.
Continuando la nostra gita festiva, ci siamo
ritrovati a osservare le cravatte di cui era satura la vetrina di una boutique nei
paraggi. A me ne piaceva molto una, era di un bel blu di Persia con la
stoffa ricoperta dalle immagini dei nodi marinari: gassa d’amante, cappuccino,
pugno di scimmia, Savoia, credo ci fossero tutti. Mi stimolava l'idea di
un nodo particolare – che alla fine la cravatta è solo questo, un nodo tra i
tanti – che cerca però di ricapitolare le innumerevoli forme dell’aggrovigliarsi, come
un bambino che da grande vuole diventare re.
“Perché non te la prendi?” mi chiede allora mio
cugino, interrompendo i miei pensieri che si facevano anch’essi un po’ troppo tortuosi.
“Io, una cravatta, ma se non ne ho mai messa una?!” In effetti, una volta, al
matrimonio del mio amico Guido, ho indossato una cravatta. L’avevo ereditata da
mio nonno, una cravatta color mattone con impresso i semi delle carte da gioco francesi, quadri, fiori, picche... Ma accidenti, ero pur sempre il testimone! No, non mi
interessava acquistare la bella cravatta piena di nodi marinari, mi bastava rimirarla
dentro alla vetrina.
Vicino alla boutique c’è una gelateria con un nome
un po’ altisonante, tipo il Signore dei semifreddi o qualcosa del genere. Hanno dei gusti molto strani, tipo vino Sangiovese, gorgonzola, ortica, hamburger. Ma tengono anche gli altri gusti “normali”,
come limone e cioccolato. Una volta un gelataio mi ha confessato, e davvero sembrava stesse rendendomi partecipe di un segreto massonico che si tramandava da generazioni,
che limone e cioccolato sono i gusti più difficili da fare. Abbassando di un
ulteriore semitono il volume della voce – ormai lo si sentiva a malapena –, aveva
aggiunto che è l’accoppiata più felice in assoluto, limone e cioccolato, non lo
diresti mai ma prova, e poi mi dici… Un poco scettico avevo provato: aveva ragione!
Sarà allora il ricordo del mio vecchio amico
gelataio, ma, a quel punto, il mio stato d'animo è mutato dalla placida contemplazione delle
cravatte. No, non mi bastava ammirare
un gelato al gorgozola, all'ortica, all'hamburger, ma nemmeno al limone e al cioccolato, stare lì a guardalo mentre si squaglia dentro a una
vetrina tiepida, macchè, scherziamo, e così mi sono precipitato in gelateria e
ho ordinato un cono bello grande! (il gusto non lo aggiungo, avrete capito…)
Quando si inizia a raccontare una storia, in genere,
come in un viaggio organizzato, lo sai bene dove vuoi andare a parare, anche se magari
non conosci tutti posti in cui ti fermerai per una birra o una pisciatina. Questa storia qui somiglia invece
a un giro in autostop, non lo so mica bene come andrà a finire, se arriveremo da
qualche parte o ci fermeremo qui, davanti a una vetrina piena di cravatte con
un enorme cono limone cioccolato tra le dita. Vicino a noi ci sta ancora il Duomo di Como,
così vicino che le case possono quasi toccarlo.
Ma anche le parole tendono a toccarsi, e come le ciliegie una tira l'altra. C'è dunque una nuova immagine verbale che per associazione sta reclamando la parola nella nostra storia: l'immagine di un'autostrada. Su una corsia corre il piacere dal mondo verso di noi, dall'altra siamo noi, attraverso il piacere dello sguardo, ad andare al mondo. E così a volte è sufficiente,
per provare una soddisfazione impalpabile ma non effimera, posare gli occhi sulle cose,
muovendoci nella direzione di ciò che osserviamo con l’agile curiosità di una farfalla, che
a malapena sfiora i petali del fiore e lascia tutto come ha trovato. Un
atteggiamento che non saprei come chiamare se non appunto ammirazione, che è alla
base del sentimento della meraviglia: accorgerci che qualcosa esiste, qualsiasi
cosa, davanti a noi. Toh, c’è il Duomo!, esclama tutte le mattine la
Rinascente, quando si sollevano le saracinesche.
Ma altre volte non basta la meravigliata ammirazione del flâneur,
e più che farfalla vorremmo essere ape, più che ape vorremmo il miele da
cacciarci immediatamente in gola con l’avida rapacità di un enorme orso bruno,
quando trova un alveare nascosto nel cavo di una quercia. In quel caso – ed è l'altro verso dell'autostrada: il piacere dell’incorporare, ridurre il mondo a sottoinsieme del nostro appetito – abbiamo il desiderio, o nelle sue manifestazioni più accese la bramosia: volli volli
volli, fortissimamente volli! Ma cosa cavolo vuoi? Boh, non so, adesso vediamo...
Da una parte abbiamo allora il Duomo di Como, che desidera
ed è desiderato dal borgo che lo sfiora, lo lambisce quasi a volerlo afferrare,
e dall’altra il Duomo di Milano, che ammira ed è ammirato. In fondo le
relazioni di piacere si riducono a queste due sole: ammirazione
e desiderio, per quanto le gradazioni intermedie siano infinite. Ma a guardare ancora meglio ci accorgiamo che si tratta della stessa cosa, ciò che cambia è la nostra disposizione, attiva oppure passiva. Per raffigurarcelo possiamo immaginare un piano cartesiano con le due variabili ai poli opposti delle ascisse, mentre, quali ordinate, troveremo la linea indifferente del tempo, nessun
piacere umano senza il tempo per coglierlo e poi distruggerlo. Infine lo zero, il minuscolo incrocio centrale che rappresenta l’indifferenza, la più completa disaffezione alla vita e alle sue labili lusinghe.
Beh, non so voi, ma io mi sono accorto che dopo quel
giorno a Como non ho più provato vera ammirazione verso qualcosa, che sia una
cravatta piena di buffi nodi marinari o qualsiasi altra cosa, anche stupida o
elementare, su cui posare le ali dello sguardo e fermarmi meravigliato a osservare.
Ma anche il senso barbarico e primitivo di un desiderio senza appello: devo avere quella cosa lì, un gelato, una femmina, un anello, una qualsiasi cosa ma la voglio, quindi la prendo. Come un bambino che afferri la palla e dica è mia, tutta mia!, e tenendola stretta interrompa il gioco e se ne vada soddisfatto, anche questa sensazione faccio fatica a ritrovarla. O forse è la palla a essere rotolata lontana, sempre
più lontana, un puntino bianco e nero e poi nemmeno più quello, solo orizzonte…
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