Nell’agosto del 1972, il maestro Francesco Bussoli e la maestra Aristea Paini, da sei anni genitori di un bambino con i denti un po’ sporgenti, andarono a fare una breve vacanza a Monaco di Baviera, dove si svolgevano in quell’anno le Olimpiadi estive. Prima di partire lasciarono il figlio ai nonni materni, che, per inciso, erano anche i miei nonni. Dal momento che il bambino, di nome Guido, non aveva fratelli e nemmeno sua mamma ne possedeva, dobbiamo concludere che quel bambino non fosse mio cugino, ma proprio chi sta scrivendo.
Questa identificazione mi appare però un poco avventata: quali i pensieri a dare forma, e dunque identità, a chi non aveva mai ascoltato Sereno è di Drupi, Gottingen di Barbara o le vulcaniche pernacchie di Giorgio Bracardi ad Alto Gradimento? Il bambino con i denti sporgenti che si chiama come me, mi appare dunque come una misteriosa creatura destinata a incrociare l’uomo in ammollo, ma solo nel futuro, non c'è fretta, mancando ancora all'appello Sbirulino, Portobello, Fonzie e Sandokan. Nemmeno poteva conoscere, come tutti in quel lontano agosto del 1972, Katana, la Suzuki del geometra miope del catasto, o il cappottone cammello di Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi. Erano solo fantasmi nel limbo del possibile, insieme all'Oklaoma a piombini e ad Alfredino Rampi, Jesus i jeans di chi mi ama mi segua, le scarpe sportive Mecap, spettri a venire e spesso a dileguare con uguale velocità, come il Going arancione che invase all'improvviso le spiagge nell'estate successiva. All'improvviso, già, ed improvvisamente anche le stazioni, piazze, treni iniziarono a ruggire di spari e dinamite, con Sergio Zavoli, solenne come un pretone di paese, che impartisce l'estrema unzione. Ma sono esplosive anche l'esultanza di Tardelli e il gancio cielo di Kareem Abdul-Jabbar, Cesare Ragazzi si mette in testa un'idea meravigliosa, la Milano da bere, la rucola da mangiare, l'ombelico della Carrà e il mantello del mago Zurlì, quelli forse sì, li aveva già visti, ma non poteva certo immaginarsi, il bambino con i denti sporgenti, Muhammad Ali che le busca dal suo vecchio sparring partner. E poi i film di Kaurismaki, Gianni Celati, Rosa Fumetto, Pasolini, Piersilvio e Barbara e Marina Berlusconi, con un'ultima derapata la Lancia Stratos di Munari e Mannucci taglia il traguardo vittoriosa nel rally di Montecarlo del 1975. Ma era un'automobile anche l'R4 rossa parcheggiata in via Caetani. Siamo certi che chi adesso dice io fosse allora proprio “lui”, il figlio di sei anni del maestro Bussoli e della maestra Paini, che, come Alice e i suoi gatti soriani, tutto questo ancora non lo sa?
Per comodità, lo chiameremo dunque Messo, sorta di acronimo tra l’esso che ero e il me che sono adesso.
Appena i genitori furono partiti per la loro vacanza tedesca, Messo si trovò dunque catapultato dal lindo appartamento geometrile in cui abitava a Sondrio, in via Parolo 10, dentro a una giungla di maiali, galline, conigli, mucche, mosconi, letame e ogni altro ben di dio con cui impastarsi il corpo e i vestiti dall’alba a un remoto tramonto punteggiato da migliaia di lucciole azzurrine, che danzavano, sotto la coltre di una fitta pergola, tra i grappoli precoci dell'uva fragola. Era poi sufficiente darsi una svelta sciacquata nella fontana e infilarsi nel lettone con la nonna e la sua amica Erminia, addormentandosi mentre i grani d’ambra del rosario non smettevano di essere pizzicati, ma con infinita delicatezza, piano, dalle loro mani callose segnate dalle ortiche.
Al risveglio, c’era di nuovo da pagare pegno alla fontana – ma come, mi sono lavato il muso appena ieri sera? – a cui seguivano le immense mattinate estive trascorse a scorrazzare dentro ai prati, che terminavano, sui gradini in pietra di fronte allo stradone, ad attendere la nuvola di polvere sollevata da un furgoncino Volkswagen T2 color caffelatte. A pochi metri dall’abitazione, senza mettere la freccia, l’autista accostava e dal finestrino compariva una manona ad allungare un sacchetto dello stesso colore del furgone, che Messo si precipitava ad agguantare e portava alla nonna con uguale slancio. A quel punto, non mancava più nulla. Lei posava il prezioso fagotto in mezzo al tavolaccio di noce – rosette, solo rosette ma ancora tiepide e croccanti, non esisteva allora la frivola varietà delle boutique del pane – e apriva la portafinestra che dava sul terrazzino, da cui lanciava un urlo: “Cechin, Cechin, l’è ùra de disnà!”
Lui, il nonno Francesco, detto Cechin, non le dava però mai retta, e continuava impassibile e lento ad annodare tralci o altre faccende in cui le braccia incontrano il pensiero in un unico movimento circolare, nell'attesa del tocco fatidico del campanile – ma quello di Montagna, non quello di Busteggia, più vicino e però meno affidabile. Così alle dodici in punto si poteva iniziare a mangiare.
Ecco, questo era il mondo contadino, chi ha avuto la fortuna di intercettarlo, anche solo per brevi momenti, l’avrà certamente riconosciuto: un paesaggio di uomini, cose e bestie sempre uguale, cadenzato dai ritmi delle stagioni, fedele a se stesso fino alla monotonia. Il mondo contadino prevedeva però un’eccezione, anzi la imponeva, ed era la celebrazione delle feste ("ricordati di celebrare le feste...").
La mattina della domenica, ad esempio, non bastava la solita sciacquatina alla fontana con il sapone di Marsiglia, e anche al nonno venivano imposte lunghe e antipatiche abluzioni nella vasca, la barba da farsi, ok, un po’ come gli veniva, e quindi l’Acqua Velva in un cerimoniale che a lui pareva un po' da femmine... Oltre all’igiene, anche gli indumenti da indossare la domenica erano diversi: più eleganti, profumati, quasi rigidi nel loro tentativo di distinguersi e offrire un'immagine di dignitosa bellezza, più che di rispettabilità borghese, con la piega a segnare ogni minima giuntura del tessuto, come la divisa del cadetto. Per questo veniva chiamato abito della festa, a marcare un confine rituale tra la regola e la sua infrazione.
Festa che era piccola cosa, intendiamoci: una parata, sì, ma di soldatini in miniatura. Si riduceva a una capatina al bar dei mercanti, all’angolo di piazzale Bertacchi a Sondrio, per il nonno, e alla funzione religiosa per la nonna. Qui ritrovava, sul sagrato della chiesa di Montagna Piano, le vecchie compagne di scuola e le nuove amiche, oltre all'Erminia, con cui inframezzare i pater noster con qualche novità e pettegolezzo, ma mai piccante o volgare.
A Messo, però, questa differenza festiva non era del tutto chiara, e a dirla tutta gli stava anche un po' qui. A casa sua, ad esempio, con i maestri Bussoli, la domenica era un giorno come tutti gli altri, con l’unica variante che entrambi i genitori non uscivano per andare a scuola, e non veniva Elsa a fare le pulizie e a stirare le camicie. Nel suo soggiorno estivo dai nonni, nell’agosto del 1972, Messo era dunque restio a farsi vestire, la domenica mattina, come un pagliaccetto inamidato, preferendo di gran lunga avventurarsi nella tenebrosa selva del granturco, o arrampicarsi sul fienile a ricercare le uova appena uscite dal culo delle galline, da mostrare poi alla nonna con orgoglio come faceva con il sacchetto del pane, o come la gatta Minuzza con i passerotti che ancora dibattevano le ali tra le sue fauci.
Nemmeno poteva, in quegli odiosi giorni di festa, intrattenersi a stramusciare il pelo soffice di Diana, ricevendo in cambio delle lunghe umide leccate sulla faccia. No, anche la saliva e il pelo della cagnetta avrebbero corrotto il suo contegno festivo. E poi a che scopo, tutto quel cerimoniale: restare seduti su delle panche di legno troppo alte, da cui alzarsi, sedersi, alzarsi di nuovo (mettetevi d’accordo...) dentro a uno stanzone alto e scuro e puzzolente di incenso, finché un signore già in là con gli anni, e vai te a sapere perché a quell’età, poi, indossi una sottana lunga con i lustrini dorati, innalza al cielo una specie di Chipster pallida, tutti si inginocchiano, anche tu, Messo, sì, e dopo una manciata di minuti si torna a casa, non senza che la nonna ti abbia prima preso un fumetto di Lucky Luke, pagandolo al sagrestano. E’ tutto qui, quello che i grandi chiamano festa?
Sì, forse aveva ragione Messo: la festa è tutta qui, è un codice, una convenzione in cui si guarda e si è guardati, la festa è un semplice galateo della rappresentazione. Forma, insomma. Dal giorno successivo, quando non ti osserva più nessuno, si può tornare a ficcare le mani nelle pozze per acciuffare i girini, tirare gli elastici alle lucertole, mungere le vacche (Messo aveva già imparato, imparava in fretta assieme a Carlino, il fattore ipocondriaco, le due tecniche: a pollice e a pugno) o fare lo slalom con Diana tra le torte di letame, intanto che il nonno riversa secchiate di pane secco e bucce di mela nella “rella” dei maiali, prima di afferrare un pollastro per il collo e tagliargli la gola con la roncola, bastava un solo colpo e però svelto e deciso. Una scena a cui il nonno era abituato, ma Messo rimaneva lì a osservare con la bocca spalancata mentre lo seguiva con lo sguardo, ma poi seguiva chi, si può ancora chiamare pollo un corpo che corre dentro l’aia senza testa, buttando sangue ovunque come nel più truce film di Dario Argento? Il mondo contadino in fondo era anche questo: paura e terrore da incutere a tutti gli animali della terra e agli uccelli del cielo, come sta scritto nella Bibbia (Genesi IX - 1-5)
Dovrei dunque essere felice di appartenere a un tempo in cui, ora, finalmente, si è diventati più sensibili al dolore della bestiole, quindi gentili, aperti, cordiali. Un tempo in cui le cose e i sentimenti vengono restituiti con spontaneità, senza alcuna mediazione formale, con gagliarda e atletica indecenza. E così si postano, su internet, le foto più intime e private e i pensieri che vengono alle mani già belli e pronti da lanciare, come un aeroplanino di carta in un cielo senza nuvole. Pensieri, parole, faccine e punti esclamativi in lunga e ripetuta schiera, senza curarsi minimamente di mettere ordine a tutto ciò, di fargli la riga con sintattica pazienza, come faceva la nonna con gli abiti che il marito avrebbe indossato la domenica successiva. Un’epoca più libera, certamente, se pensiamo alla forma come a una prigione.
Eppure, mi accorgo che in me è rimasto qualcosa di indefinito, quasi ci fosse un’arcaica lealtà al mondo contadino, a quelle formalità che ho conosciuto per un tempo forse troppo breve e non comprendendole, allora, quindi rifiutandole, ma evidentemente avevano già fatto tana. Così non ce la faccio, ci ho anche provato ma non riesco a comportarmi con uguale disinvoltura, a entrare in canotta e bermuda dentro a una cattedrale. Ma nemmeno a seminare like a cazzo di cane su Facebook, blandendo "l'amico" che sbuffa in pubblico il primo ruttino che gli solletica la gola.
No, proprio non mi piace questa epoca senza festa, senza regola e dunque senza eccezione, in cui si confonde la spontaneità con la sciatteria, e la sincerità con il narcisismo. Perché forma è anche rispetto dello sguardo, nostro e altrui, quindi consapevolezza di appartenere a un sistema vivo, in cui gli altri sono lo specchio di quel che siamo, anche quando si tratta solo di intenzione. Da qui la volontà di migliorarci, trascenderci nello sforzo di far bene, di far meglio agli occhi di chi anche noi guardiamo, pagando pegno alla fatica dei giorni. Che magari non porterà ai grandi capitali e alle joint venture, ma a quel fagotto tiepido di rosette, piccole rose, da posare al centro esatto della tavola.
Ma forse è più chiaro con un esempio. La nonna non pensava di dover dimostrare qualcosa all'Erminia, che l'aveva già vista in mutande, l'aveva vista a letto con una spessa berretta di lana. Però quando l'incontrava in pubblico, in chiesa, insieme ad altre persone o in un contesto rituale, anche l'Erminia meritava la miglior forma di cui la nonna era capace, non le mutande, la berretta di lana. Ugualmente, si sentiva di aver diritto allo stesso riguardo dall'Erminia. Non è complicato: si tratta di custodire un'immagine bella di noi, da scambiarsi, come le figurine, nei luoghi e nei tempi in cui una comunità trova il suo baricentro. Questo scambio simbolico si chiama civiltà, tutto qui.
E allora Messo, forse è arrivato il momento in cui anche io e te ci si riconosca, un'unica carne, un'unica storia di inciampi e ginocchia sbucciate, e ci si scambi le nostre figurine… Certo, non sarà facilissimo e immediato, dopo che il dottor Bittolobon ti ha cacciato in bocca un apparecchietto pieno di viti, e ora i tuoi denti non sono più così sporgenti, i tuoi capelli folti e scuri ma ora un poco diradati. Un tentativo che però tocca fare: riconoscerci e finalmente abbracciarci, come hai fatto tu, di slancio, con il maestro Bussoli e la maestra Paini, al loro rientro da Monaco di Baviera. Sì, ti voglio bene caro Messo: mi voglio bene!
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