sabato 9 luglio 2016

Sala Vip, o su come non perdere la propria dignità



La incontro in Sala Vip, una sala giochi gestita da cinesi che si trova proprio sotto a casa mia. Ogni tanto scendo a farmi una birra, o un Cynar con l’acqua minerale, peccato non abbiano la scorza di arancia, ci vado di notte perlopiù.

Questi ambienti sono un po’ tutti uguali: vagamente sporchi, fitti di luci, lucine, lucette e con un'idea dell'arredo che è semplicemente mettere delle cose, ma poche e un po' a casaccio, come si mettono le chiavi su una mensola appena rientrati nel proprio appartamento. Quindi fumo, quello denso delle sigarette che vedi accese in bocca ai giocatori, quale conseguenza di una legge – il divieto di fumo nei locali pubblici – che qui non deve essere mai arrivata. Forse il messaggero che doveva comunicarla si è perduto con il suo cavallo, o non ha trovato l'indirizzo...

In effetti, se non avessi il riferimento del condominio dove sono nato e cresciuto, dove ho giocato a tappi nel garage con Pierantonio, da bambino, o a pallabuio con i fratelli Grimaldi, potrei confondermi anch'io ed entrare in qualsiasi altra sala giochi. Ma invece sono proprio in Sala Vip, quando la incontro.

In realtà, più che di un incontro si tratta di un semplice contatto, uno sfiorarsi come treni affiancati sui binari di una grande stazione, in attesa che ognuno riprenda sonnecchiando il proprio viaggio. Ma con la distratta indecenza di chi butti una lattina vuota dal finestrino, lei si sporge dalla sua carrozza e mi dice: “Sei albanese, vero?”

“No, non sono albanese.”

“Sì che lo sei, fammi toccare le gambe.”

Mi tasta leggermente le gambe da sopra i pantaloni, le cosce, le ginocchia, prima di concludere: "Avevi ragione, non sei albanese. Piacere io mi chiamo Daniela.”

“Piacere, Guido.”

Parliamo un po’, mi racconta che è di Salvador de Bahia ma ora vive a Parma da sedici anni, anche se ogni tanto viene a Sondrio per lavoro. Non giriamoci attorno: di lavoro fa la prostituta. E aggiungiamo subito che è un uomo, un trans insomma, con la passione delle slot machine e dei ragazzi molto giovani e gagliardi

“Ma oggi ho già goduto due volte” dice. “Se godi più di due volte al giorno ti viene la pelle brutta. Guarda la mia pelle, come è bella.”

“Hai ragione Daniela, hai una pelle bellissima!”

Ci interrompe un’allegra musichetta brasiliana, che proviene dal suo telefono. Forse è un cliente.

“Ciao ammooore” dice lei dopo aver sfiorando il display per rispondere e cambiando visibilmente il tono di voce, “coome stai ammooore?”

Sì è un cliente.

Ora Daniela ha smesso di parlare. Dall’altra parte lui le sta dicendo qualcosa, la mimica di lei ne fa intuire il contenuto. Qualcuno, intanto, deve aver azzeccato la combinazione di ciliegie o di chissà quale altro simbolo, si sente il tintinnare delle monetine che piovono da una macchinetta nascosta sul fondo. E' davvero un peccato che non abbiano la scorza d'arancia, penso io sorseggiando il mio Cynar.

“Teessoooro” riprende Daniela con un accento brasiliano sempre più caricato e innaturale, "mi disci quaanti anni hai?”



“Ooooh, veentiseeette agni, beene beene… e seei un beel fuscto?”

A quel punto, del tutto inaspettatamente, Daniela mi passa il telefono e mi fa un gesto con le mani: zitto, cito, accompagnato da un occhiolino. Come a dire dai, che adesso ci divertiamo un po’…

Io prendo allora il suo telefono e ascolto cosa sta dicendo Rodolfo, così si chiama il ragazzo, che inizia a descrivere il suo corpo, i muscoli che si è fatto in palestra, le cose che “mi” farebbe (che farebbe a Daniela) e le dimensioni del suo sesso.

“Oooh, ma seei prooprio un fusctacchiooone” dico io, imitando la voce di Daniela e il suo posticcio accento brasiliano.”

Lei non sta nella pelle dal ridere, si appoggia alla macchinetta del video poker, facendomi segno continua, continua, dai… Ci burliamo quindi ancora un po’ del povero Rodolfo, passandoci di tanto in tanto lo smartphone, ma poi il gioco finisce lì.

Daniela torna nel residence dove alloggia per la marchetta notturna, invitandomi però a passare a trovarla, un giorno, chissà, per un bicchiere di mate che le spedisce sua madre dal Brasile. Cosa che ovviamente io non farò e che lei si dimenticherà il giorno successivo di avermi chiesto.

Ma anche adesso che i nostri treni sono ripartiti in opposte direzioni, mi rimane, preziosissimo, un regalo di Daniela, che lei non saprà mai di avermi fatto.

L’intuizione che quando d’ora in avanti parlerò con qualcuno, non necessariamente al telefono, più che del significato di quel che dico dovrò preoccuparmi di qualcos'altro… Della coerenza formale, ecco, tra la mia voce e la mia storia, come se di quel che dico anche in futuro possa dire: ero io, sono sempre io, le mie parole fanno da specchio alla mia faccia. Possiamo chiamarla anche “dignità”.

Quindi ogni volta che apriamo bocca, dovremmo forse farlo come se dall’altra parte ci fosse un transessuale brasiliano pronto a burlarsi di noi assieme al primo sconosciuto che passa, a cui cede di nascosto il telefonino. E rispondere come di fronte al mondo intero.


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