è una morbida coperta
che ti lascia una ferita
che rimane sempre aperta
Giorgio Gaber, da La famiglia
Io ho un amico che, tutti i sabati, va a casa dei suoceri, dove trascorre il fine settimana insieme alla moglie e alla figlia e al cognato e alla moglie del cognato con i loro tre bellissimi bimbi, oltre ovviamente agli stessi suoceri. Credo si chiami famiglia, questa cosa qui.
La casa dei genitori della moglie del mio amico è una villetta a
schiera, si trova a una quarantina di chilometri da dove abita la figlia, a circa dieci dal figlio, un cerchio con il diametro di una gita fuoriporta e un elastico che richiama sempre al centro, che coincide con il caminetto nel soggiorno. Vicino c'è un lago scurissimo e, ancora più vicino, un giardino fiorito in cui cinguettano i passerotti, li puoi ascoltare da dietro le finestre con tendine bianche a scacchi rossi. Un contesto che rende la famiglia del mio amico ancora più famiglia.
Quando rientra dal fine settimana in famiglia, il
mio amico, però, ha sempre qualcosa da ridire. Il cognato ha detto, o fatto, delle cose
un po’ stupide, la cognata è stupida di suo, il suocero… va be’, le solite
cose. Allora io, con la stessa puntualità con cui lui si presenta in famiglia tutti
i sabati pomeriggio che il signore manda in terra, gli chiedo: “Ma perché ci vai, se ogni volta ti lamenti? Stattene a
casa tua.”
“Come faccio a non andare, sono obbligato" ribatte lui con uguale cadenza, sembriamo gli estremi opposti di un metronomo svizzero. Ed aggiunge: "E’ la mia famiglia, è normale...”
Io però non credo che sia normale passare il venti percento della propria vita a casa dei
suoceri, basterebbe forse andarci solo per Natale o Santo Stefano, certamente a Pasqua,
volendo essere di manica larga anche a qualche compleanno, anniversario e funerale, sposarsi ci si sposa sempre meno, ma poi fine, o
almeno di solito succede così. Ed è appunto ciò che ribatto al mio amico: “Guarda
che la normalità è ben altra…”
Ma adesso mi viene il sospetto che nel mio argomentare ci
sia qualcosa che non funziona, in un certo senso è ricavato dallo stesso fango con
cui il mio amico impasta il suo totem familiare, e che si può riassumere nella parolina che entrambi ripetiamo allo sfinimento, per tirare acqua ai
nostri rispettivi mulini: normalità, normalità, normalità...
E dunque, quante volte è normale andare a trovare i propri parenti?
Una risposta che, anche quando cesellata con la lama affilata della statistica, come una matrioska svelerebbe una seconda domanda al suo interno: e quante volte è normale fare i gargarismi con il colluttorio verdino, quante tagliarsi le unghie dei piedi, fare la cacca, portare fuori la spazzatura e lavare le tende a scacchi rossi… ma soprattutto: perché è importante saperlo, prevedere tutto ciò?
Una risposta che, anche quando cesellata con la lama affilata della statistica, come una matrioska svelerebbe una seconda domanda al suo interno: e quante volte è normale fare i gargarismi con il colluttorio verdino, quante tagliarsi le unghie dei piedi, fare la cacca, portare fuori la spazzatura e lavare le tende a scacchi rossi… ma soprattutto: perché è importante saperlo, prevedere tutto ciò?
Non sarà allora che la famiglia, qualsiasi famiglia,
nasca proprio da un'esigenza di calcolo, di regolamentazione, così da stabilizzare l’imprevisto, conferendo normalità allo
scorrere caotico del tempo? Ma per farlo bisogna prima regolamentare anche la felicità, che è per sua natura erratica. In fondo basta ridurla un poco agli orli, trasformando l’amore in coppia, la coppia in gruppo per
tenere al calduccio, se non altro, la pancia, come già aveva capito Freud: “L'umanità ha
sempre barattato un po' di felicità per un po' di sicurezza.”
In altre parole la famiglia è una risposta, ma senza
che una domanda sia ancora mai stata formulata, forse nemmeno pensata, come le vaccinazioni che fanno alle reclute nell'esercito. Per
conoscere quella risposta basta entrare in una villetta a schiera a due
passi dal lago, e chiudere la porta alle proprie spalle.
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