martedì 12 luglio 2016

Correre per la Legnano, o sul dubbio che le cose (alcune cose) non vadano chiamate col loro nome



Quello lì corre per la Legnano, mi dice un amico. E accompagna la frase con un leggero cenno del capo, unito a un ammiccamento del viso.

Quello lì cosa...?

Corre. Per la Legnano. Non lo vedi?

Mi giro nella direzione indicata dal mio amico e vedo un ragazzo – avrà si e no trent’anni – con i capelli scuri venati da colpi di colore blu. E’ vestito tutto di nero ma la carnagione è chiarissima, forse usa una specie di cipria, e attorno agli occhi posso intuire un leggero filo di eyeliner. L’espressione è un po’ imbronciata, quasi risentita, sembra un palloncino a cui stiano aspirando l’aria. In quel momento arriva il cameriere e gli serve un cappuccino, che il ragazzo inizia a sorseggiare senza aggiungere lo zucchero.

Sì, lo vedo, ma cosa c’entra la Legnano?

Il mio amico, che è molto più vecchio di me, ha quasi ottant’anni, mi racconta allora una storia, e lo fa con la sorniona pazienza di chi tanto ha visto e pochissimo compreso. Ma da vero saggio, sa di questo non sapere.

Negli anni cinquanta, il tempo in cui fiorivano le borgate, la plastica faceva il suo ingresso nelle case degli italiani che si lucidavano lo sguardo con i film mitologici con Massimo Girotti, il ciclismo era l'emblema in cui quel piccolo mondo si riconosceva, infiammandosi nella rivalità tra Bartali e Coppi. Le squadre concorrenti avevano il nome delle marche delle biciclette, e una di queste era la Legnano.

Iniziò allora a trasmettersi di bocca in bocca il pettegolezzo, malizioso e ipotetico come tutti i pettegolezzi, ovviamente, che alcuni ciclisti della squadra della Legnano avessero un'inclinazione sessuale omoerotica. Per questa ragione (tecnicamente una sineddoche) si era arrivati a dire di una persona in sospetto di omosessualità, ma con lieve e bonaria ironia, che corresse per la Legnano.

Mi piace, questa storiella. Mi piace perché, al contrario, mi dispiace la confusione linguistica della nostra epoca, che si divide tra correttezza politica e lo sbraco nominale più rozzo. Il problema, infatti, non è quello di oscurare dai vocabolari l’omosessualità o qualsiasi altro comportamento minoritario, ma trovare delle espressioni adeguate, e con adeguato non intendo necessariamente preciso, puntuale come un treno svizzero. Pensiamo a tutti gli epiteti popolari con cui l’omosessualità viene indicata: frocio, finocchio, ricchione, arruso, culatone… Più che parole, sono ghigliottine

Ma all’opposto dell’esplicito disprezzo che troviamo nei termini gergali, anche la voce gay possiede qualcosa di fastidioso: come se un tale che subisce il fascino delle persone del medesimo genere sessuale, e nemmeno di tutte, debba essere sempre allegro e spensierato, una specie di Vispa Teresa che scivola giuliva sugli affanni della vita…

Non cambiano le cose, anzi peggiorano, se lo sostituiamo con il termine omosessualità, che anche io ho utilizzato fin qui con cautela un po' codina. Una parola che, nella sua asettica referenzialità, ottiene l'effetto di mettere sotto formalina la vitalità del corpo a cui si vorrebbe invece alludere (alla fine cosa fanno, due uomini che si desiderano?), tenendo al contempo a distanza la diversità che si pretende di onorare. Come quei medici, quasi tutti, che con l'acribia impersonale di paroloni latineggianti mantengono il paziente in uno stato di aristocratica soggezione.

Molto meglio, allora, l'impertinente giocosità degli anni cinquanta, che sapevano evocare una storia anche dietro un'insinuazione un po' volgare. Sì, d’ora in avanti, quando dovrò indicare l’inclinazione sessuale di qualcuno, che so, di George Clooney, anch’io dirò: corre per la Legnano!



 

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