lunedì 6 agosto 2018

Vaccini sì vaccini no, o sullo strapotere del pater familias


Non si placa e anzi lievita rabbiosa sul web la polemica sui vaccini. Non sono un medico né tanto meno un immunologo, e dunque non abboccherò all'amo di chi vorrebbe ogni volta piantare la sua bandierina sulla vetta, affidandomi all'opinione (possibilmente scientifica) di chi ha titoli e voce per esprimersi.
Mi sembra però che la materia, oltre al versante per l'appunto tecnico, clinico, contenga un'importante estensione che potremmo chiamare filosofica, perlopiù sottaciuta nel tumulto verbale tra le rispettive tifoserie.
Una delle questioni più delicate nell'attuale querelle nasce infatti dalla condizione dei destinatari della profilassi vaccinale, che sono in maggioranza dei minori. Ora, chi decide o ancora più radicalmente: di chi è un minore? Sempre e comunque dei genitori biologici, o, magari, un poco anche della comunità civile di riferimento? 
Ciò a maggior ragione quando i comportamenti adottati o meglio ancora non adottati – perfino la Chiesa istituisce il peccato di omissione, assimilandolo a un fare – possono ricadere su altri attraverso l'incremento del rischio di contagio; e per altri mi riferisco in particolare agli alunni immunodepressi, i quali hanno una pericolosa minaccia nel compagno di banco che covi un semplice morbillo. E questo è un fatto. 
Ma tralasciamo al momento tale aspetto di natura nuovamente sanitaria, ossia il cosiddetto "effetto gregge", per cui nessun uomo è mai un'isola, e concentriamoci sulle concezioni giuridiche a monte della contrapposizione tra no vax e pro vax, che possiedono entrambe radici storiche e consuetudini vissute a loro sostegno. Ossia le premesse del diritto, che contrariamente a quanto vorrebbero i giusnaturalisti non è quasi mai naturale, né tantomeno razionale. 
Da un lato abbiamo infatti la lex romana, per cui il figlio, come la moglie e fino al grado estremo dei nipoti, dipendono totalmente dall'arbitrio del pater familias; mentre dall'altro versante abbiamo la sensibilità giuridica greca, per cui un minore, prima ancora che alla famiglia, appartiene al gruppo, alla polis da cui scaturisce per Socrate la Legge, da seguire anche quando ci è contraria. 
Percependomi io come un uomo greco più che romano, sono allibito dell'arroganza con cui molti genitori rivendicano la completa autorità nelle questioni mediche che riguardano i propri figli; un'autorità che è letteralmente di vita e di morte, come il pollice dell'Imperatore con cui si decidevano le sorti del gladiatore sconfitto. 
L'ipotesi che il legislatore, sulla scorta di una maggiore conoscenza della materia, si inserisca d'imperio in complesse dinamiche familiari ridimensionando la pretesa di onnipotenza del pater familias, non mi sembra dunque un atto illiberale. Piuttosto un atto culturale, discutibile come tutto ciò che scaturisce dal pensiero ma con una sua piena legittimità, offerta dalla contrattualità sociale.
Cultura, dunque. Nessuna verità scritta una volta e per tutte, nemmeno quella della scienza che, come noto, per dirsi tale deve essere "falsificabile" – ciò che è vero oggi domani potrebbe non esserlo più.
Una cultura di discendenza greca, filtrata dalla moderna sensibilità giuridica fondata sull'etica della responsabilità, inaugurata alla fine del diciannovesimo secolo da Max Weber, a fronte dei residui della cultura romana ancora in circolo, per cui il conte Ugolino aveva semplicemente dei gusti un po' bizzarri… 
Io, come anticipato, sto dalla parte di Socrate e di Pericle. E voi, vi sentite più greci o romani?

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