venerdì 10 agosto 2018

Pane al pane, o sull'idiosincrasia


La progressiva estraneità che ho iniziato ad avvertire, già da anni, verso questo Paese, è lievitata negli ultimi tempi fino a toccare la lama sottile dell'odio e del disprezzo. E non solo verso gli italiani, dunque voi che state leggendo, passando per lo specchio in cui vedo diradare (orrendamente) i miei capelli sempre più, ma ha finito col coinvolgere anche ciò che non avrei mai pensato mi offendesse, che è quella lingua non a caso materna, lasciandomi orfano di parole. L'unico figlio che mi capita, in certe notti torride, di rimpiangere, quel ragazzetto lungo e magro che corre nella polvere biscottata di una periferia indistinta, ma certamente africana, ha dunque la pelle nera come i suoi allegri compagni di gioco, il pallone rotola selvatico tra ginocchia tozze e sbucciate uguali alle mie, gli occhi verdi e acquosi della nonna Maria. Così mi accorgo di provare disgusto nel chiamare ancora una volta pane il pane, non sapendo però come altro chiamarlo, come richiamarmi a casa quando riso e latte eran pronti e fumanti sulla tavola, mille anni fa…

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